I luoghi comuni della propaganda anticattolica – prima lezione

Prima lezione della dott. Chiara Mantovani tenuta giovedì 9 dicembre 1999.

Chiara Mantovani

I luoghi comuni della propaganda anticattolica:
“la Chiesa rifiuta il progresso biotecnologico”

Prima lezione

Il luogo comune, la falsa accusa di cui parleremo in queste due conversazioni è la seguente: la Chiesa soffoca l’indagine scientifica e si oppone al progresso. Il campo di cui mi occuperò è ristretto all’ambito della scienza medica. Farò una breve carrellata sulla medicina antica, passerò ad individuare le linee di pensiero che hanno trasformato la scienza medica dal Medioevo in poi, per giungere alle persuasioni che sottostanno alla moderna filosofia della medicina, almeno per ciò che riguarda gli argomenti più “di frontiera”, campo di vero e proprio scontro di differenti “bioetiche”.

Nella prossima lezione individuerò i temi più scottanti e discussi e tenterò di dare ragione delle posizioni del Magistero cattolico su queste questioni, alla luce delle premesse — spero sufficienti — fornitevi questa sera.

La medicina, intesa come tentativo di cura, ha origini antiche quanto l’uomo, perché ugualmente antica è la malattia. Della medicina egiziana, greca e romana abbiamo testimonianze abbondanti dalle quali risulta inequivocabile che il curare appartenne per molti secoli, oserei dire per diversi millenni, più ad una conoscenza sapienziale che non ad un ambito tecnico. È importante sottolineare questo, perché un cambiamento di rotta in questo senso è avvenimento tipicamente moderno.

Dunque la cura della malattia è vista fin dagli albori come una opera tipica della divinità: “Sedare dolorem opus divinum”. Non esiste alcun tipo di contrapposizione — anzi! — fra senso religioso, addirittura atteggiamento liturgico, e medicina. Ancor oggi esistono e resistono segni significativi di cui magari si è perso il senso: pensiamo per esempio al camice, un vero e proprio “abito” che si indossa per compiere il gesto medico e poi si depone. La funzione di asetticità del camice arriverà molto più tardi: solo nell’Ottocento infatti inizierà lo studio della microbiologia!

Il medico più famoso dell’antichità, Ippocrate, che visse fra la seconda metà del Quinto secolo a. C. e i primi decenni del Quarto (forse nacque a Kos nel 460 a. C., coetaneo di Democrito e di Tucidide, più giovane di qualche anno di Socrate) è considerato il padre della medicina. Su di lui esercitò un notevole influsso la filosofia di Talete, di Anassimene e Anassimandro, quei filosofi ionici detti “filosofi della natura”, ovvero coloro che si sforzavano di ricondurre ogni effetto ad una causa e di rintracciare nella catena di cause e effetti un ordine universale e necessario. Dunque Ippocrate si propone di realizzare una medicina attenta al dato reale e al tempo stesso consapevole e rispettosa della presenza dell’ordine che governa questo reale. Ancora di più: intuisce che solo nella corretta interpretazione di questo ordine, e nella corretta individuazione delle cause, sta il segreto per esercitare bene l’arte medica. Il suo rapporto con la religiosità è stretto: nel famoso “Giuramento” il paragrafo più lungo, quello iniziale, chiama a testimoni gli Dei dei propri propositi e struttura la trasmissione della conoscenza medica come un compito di casta sacerdotale. L’intero “Giuramento” è ispirato da una profonda “pietas”, ovvero quell’atteggiamento di profondo rispetto per gli uomini e per gli Dei, per il divino e per l’umano, che resterà a lungo il patrimonio più prezioso della medicina.

Nell’antichità si consolida però anche la persuasione che la malattia sia un castigo divino direttamente commisurato alla colpa di chi ne soffre. L’episodio veterotestamentario di Giobbe ne è un esempio: pur conoscendo la sua integrità morale, gli amici accorsi al suo capezzale si chiedono, e gli chiedono: ma sei certo di non aver commesso le colpe che giustificherebbero il tuo stato?

Molti dei tentativi terapeutici assomigliano di più ad una espiazione compensativa che ad un vero rimedio. Da questo punto di vista il Cristianesimo rappresenta una vera svolta antropologica. La testimonianza di ciò sta nell’episodio del cieco nato. I discepoli chiedono a Gesù: Maestro, chi ha peccato, lui o suo padre? E Gesù risponde: Né lui né suo padre, ma ciò è accaduto perché così possa manifestarsi la gloria di Dio. Quale è la gloria di Dio? Sant’Ireneo risponde: è l’uomo vivente. Vivente in questo caso significa risanato, tutto intero nel corpo e nello spirito.

Questo punto è fondamentale per capire il processo che via via sta disumanizzando la medicina e, di conseguenza, il perché di alcuni “paletti” che il Magistero — la Chiesa — sembra porre all’azione della medicina moderna. È, ancora una volta, una questione di visione del significato della vita umana, è una questione antropologica.

Dunque: il peccato segna profondamente la persona umana, l’allontanamento da Dio è causa sia del malessere, per così dire, esistenziale come della malattia fisica. (San Paolo: la morte entrò nel mondo a causa del peccato).

Se l’uomo non riconosce la propria dimensione di creatura decaduta e dunque bisognosa di redenzione, non comprende neppure il significato del dolore e della malattia.

L’opera redentrice di Cristo non si discosta mai, in tutto lo svolgersi della vita terrena di Gesù, da una duplice azione: la remissione dal peccato significata, manifestata dalla attenzione, dalla premura, dalla guarigione riservata per le persone ammalate. Gesù è quel grande taumaturgo che meraviglia scribi e farisei passando e guarendo ogni tipo di persone, quelle che la meritano e quelle che non la meritano (episodio dei dieci lebbrosi), le categorie sociali più elevate come il popolo più umile (il figlio della vedova). Non solo: ai suoi discepoli, mandati ad evangelizzare, ordina contemporaneamente di sanare.

Ce ne sarebbe a sufficienza già così per fondare l’affermazione che il Cristianesimo è profondamente attento — e non sprezzante — al dolore fisico e controbattere così alla falsa accusa secondo cui alla Chiesa non interessa se uno soffre, poiché non è questo l’essenziale per salvarsi. Ma ancora nei secoli l’obbedienza al dettato del Maestro caratterizza la medicina — per così dire — cristiana: sono cristiani gli ospedali — Hotel de Dieu, case di Dio —, che segnano le strade dei pellegrinaggi, da Gerusalemme a Roma a Compostela; sono cristiane istituzioni come i Cavalieri di Malta, che pregavano ogni giorno per i malati per ringraziarli di dar loro modo di servirli, o quelli del Santo Sepolcro che affiancano, fin dalle loro origini, alla guardia militare per la sicurezza una efficace medicina assistenziale; sono cristiani anche i primi veri ospedali moderni (la chiesa della Madonnina è il primo ospedale ferrarese, inaugurato personalmente da san Camillo de Lellis) dove pian piano alla vocazione alla semplice attenzione e cura empatica al malato (visto che egli è Cristo) si aggiunge una autentica ricerca e terapia. Norme igieniche (san Camillo è il primo a esigere che ogni ammalato abbia un letto proprio, perché fino ad allora i malati stavano in due o tre per giaciglio) e scrupolosità nelle cure nascono da un profondo rispetto per la persona umana ma anche da quel sano realismo che sa osservare la realtà ed interpretarla. Forse un esempio moderno di ciò che, pressappoco, è avvenuto allora possiamo ritrovarlo nell’opera di Madre Teresa: competenza e pietà, in presenza di situazioni mediche di grande e perenne emergenza, situazioni economiche certamente reputate folli dagli scienziati dell’economia, situazioni umane al limite della disperazione per chi non coltivi la virtù teologale della speranza.

E dunque la medicina (che continua ancora ad essere arte e scienza) inizia un cammino di miglioramento costante e ultimamente accelerato. Ma, ad un certo punto, accade qualcosa. O meglio, accade una tappa di un processo plurisecolare. C’è stato modo in tante conversazioni di accennare (e in molti casi di approfondire) le ripercussioni nella vita concreta di sistemi di pensiero che a nominarli sembrano limitarsi ad essere argomenti di dispute per accademici, ed invece sono il motore primo delle culture e delle civiltà.

Ad un certo punto, nel XVII secolo, il pensiero occidentale conosce il filosofo del razionalismo moderno: Cartesio. Attenzione: forse padre (ma di padri ce ne sono tanti!) della scienza moderna, se con scienza moderna intendiamo la moderna concezione dualista della persona umana; non certo padre della metodologia, come se san Tommaso non avesse conosciuto e applicato un metodo. “Cogito ergo sum” non è, come ho già avuto modo di dire, l’atto di nascita del moderno scienziato, ma il certificato di morte dello scienziato sapiente (cf. Lettera alle famiglie, pag 63-64).

Dovrebbe dunque colui che, con infelice scelta lessicale, si chiama scienziato non avere chiara la distinzione fra materiale e metafisico? Niente affatto, anzi, il contrario. Ma è assolutamente necessario che chi si occupa di umano (e le malattie dell’uomo sono affare umano) sappia che la persona non può essere considerata uguale alle cose e agli animali. È ragionevole paragonare il DNA umano a quello vegetale e animale, ma sarebbe totalmente irragionevole pensare che non sia rilevante usare indifferentemente dell’uno e dell’altro. La struttura anatomica dello scimpanzé (nonché la struttura genetica) e quella dell’uomo sono affini? Informazione preziosa, di cui tenere conto, che però non giustifica l’iscrizione degli scimpanzé nelle liste elettorali. Senza la persuasione che l’uomo è l’unico vivente in cui materia e spirito sono intrinsecamente uniti, viene meno il rapporto fra Dio e la creatura e (cit. E. V. n. 22, pag. 32).

C’è una logica, perversa (che si è persa per via), ma c’è: e deriva da una fiducia cieca, tutta illuministica, nella capacità di conoscere il reale solo attraverso la pratica empirica. Esiste solo ciò che è fisicamente sensibile ai sensi: e se neppure il microscopio elettronico rivela l’esistenza dell’anima, tanto peggio per l’anima, visto che allora non è dimostrato che esista.

Dunque fra l’embrione di pollo, di dinosauro o di uomo, c’è la differenza manifestatami dal suo DNA che però non contiene istruzioni per l’uso. È dunque una differenza strutturale e non ontologica l’unica ammessa.

La perdita, lo smarrimento della consapevolezza ontologica della persona umana — cioè il non sapere più CHI è l’uomo — ha causato una enorme confusione su ciò che si reputa lecito fare DELL’uomo. Ecco il moltiplicarsi di quelli che vengono definiti i vari “modelli etici di riferimento”: altro non sono che conseguenze di ciò che si reputa essere l’uomo (cit. pag. 639, Manuale di Bioetica). [Manifesto sull’eutanasia pubblicato nel 1974 e firmato da 40 personalità fra cui tre Nobel] [Monod]

Si potrebbe così schematizzare un probabile percorso intellettuale:

  • l’uomo conosce poco di se stesso, ma si interroga;
  • non trova TUTTE le risposte ragionevoli e dunque ha davanti a sé due strade: (1.) l’accettazione di un mistero (senso religioso) che non nega la ragione ma ne accetta la limitatezza o (2.) la ricerca di forze sconosciute frutto del desiderio di giungere comunque ad un potere, ad un dominio (magia).

Nel primo caso la consapevolezza dell’esistenza di ciò che non si comprende (ma che si dà per esistente) genera rispetto nei confronti della persona umana (se stessa o altri) che ha un valore non quantificabile. Nel secondo ciò che interessa è governare in qualsiasi modo anche ciò che non si comprende appieno, nella persuasione che tutto è riducibile alla misura di utilità e di necessità. Tutto è contrattabile, perché tutto ha un valore quantificabile. Su questa materia è lecito compiere qualsiasi “prova” per vedere se si comprende meglio: non c’è limite alla sperimentazione.

Nello specifico di ciò che stiamo trattando questa sera: se la persona umana è totalmente descritta dalla sua biologia, che è oggettiva, essa altro non è che una delle tante forme viventi, caratterizzata, al più, da una complessità che la differenzia dalle altre, complessità che va compresa per essere “superata” e quindi migliorata.

È già stata formulata (la ascoltavo interdetta qualche sera fa in una trasmissione televisiva di quelle definite “scientifiche”) l’ipotesi che la dignità dell’uomo risieda nella sua complessità. Se, come sembra, si sarà in grado di produrre un “artificiale” più complesso del “naturale”, la dignità umana dovrà essere rivista e ridefinita. Ecco il percorso: l’uomo si ammala, dunque non è perfetto, dunque è migliorabile, per migliorare dovrà pagare un prezzo, ogni prezzo è eticamente accettabile perché è in gioco il “bene” della natura umana di fronte al sacrificio di pochi.

In questa prospettiva allora l’uomo non è più l’unica creatura voluta da Dio per se stessa, creata ad immagine e somiglianza di un Altro più Alto e Diverso da lui, che però per amore ne ha assunto la natura.

Questo capovolgimento, anzi — per dirlo esattamente — questa rivoluzione di prospettiva antropologica è il vero bersaglio di ogni “censura” che la Chiesa, con la voce del suo Magistero, ha esercitato nei secoli nei confronti delle cosiddette scienze umane.

E questa critica, che più costruttiva non può essere dal momento che ha sempre proposto un “modello alternativo” — Cristo stesso —, e solo questa è il terreno su cui la Chiesa si è impegnata di fronte alla modernità.

Per rimanere nello stretto ambito medico, le prime — cronologicamente parlando — avvisaglie di contrasto iniziano, non a caso, nel Rinascimento e il punto su cui fiumi di inchiostro si sono sprecati è l’indagine sui cadaveri. Il primo scontro è l’autopsia. L’autorità ecclesiastica proibisce l’indagine autoptica. E allora si impara di storie melodrammatiche di furti nei cimiteri di intraprendenti scienziati costretti alla clandestinità dall’oscurantismo cattolico.

Vediamo di esaminare i termini: La Chiesa, per tutto ciò che è stato detto finora, ha in grande considerazione il corpo, che non è un accessorio ma una parte sostanziale della persona. L’atmosfera in cui nasce l’interesse per la struttura e la fisiologia corporale è una atmosfera culturale fortemente influenzata dalla magia: difficile, in quel contesto, differenziare un legittimo ed eticamente corretto desiderio dell’indagine del reale dall’interesse maniacale per l’occulto. Infatti appena sarà chiaro e dichiarato il solo fine di indagine e lasciata intatta la dignità del corpo, il divieto all’indagine autoptica sarà revocato. Non ottusa chiusura al nuovo dunque, ma sapiente prudenza, che continua comunque ad esigere il rispetto dovuto a ciò che ha costituito il necessario substrato della vita umana. Ancor oggi si richiede che l’autopsia venga realizzata con attenzione al decoro del defunto, che si effettui là dove esistono specifiche indicazioni cliniche e che l’atteggiamento degli operatori sia di seria indagine scientifica, evitando atteggiamenti superficiali e/o irrispettosi.


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