n. 37 – febbraio 2020

14. Febbraio 2020 IN HOC SIGNO 0

Cari amici,
proponiamo oggi alla vostra attenzione la trascrizione — solo leggermente rimaneggiata rispetto alla registrazione audio, e che mantiene la freschezza del parlato — della lezione tenuta il 24 gennaio scorso da Renato Cirelli, responsabile a Ferrara di Alleanza Cattolica, al corso di formazione «SERVIRE LA CITTÀ» organizzato da Progetto San Giorgio, sul tema «Il valore di Ferrara, i valori di Ferrara». La prossima lezione dello stesso corso — anch’essa affidata ad Alleanza Cattolica nella persona della dott. Chiara Mantovani — si terrà il prossimo venerdì 21 febbraio (ore 20, Urban Center, corso Isonzo 137) sul tema «Amministrazione e bioetica: la persona al centro della buona politica».

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Il valore di Ferrara, i valori di Ferrara

Renato Cirelli

Abitiamo in una città e in una provincia con delle caratteristiche particolari che la rendono unica anche all’interno della Emilia Romagna. Ferrara è la sola città importante della regione che non è sulla via Emilia, del resto quando essa è stata tracciata, in epoca romana, Ferrara non esisteva. È l’unica città importante della regione che non è di origine romana, ma nasce dopo la caduta di Roma, in epoca ormai cristiana, nel 500 / 600.

Al confine dell’esarcato di Bisanzio e il regno dei Longobardi, vi era sul fiume un forte bizantino, intorno al quale nasce un mercato, una chiesa dedicata a san Giorgio, un agglomerato urbano che si forma lentamente strappando alle acque, come tutto il territorio della provincia, ogni zolla del terreno nel quale si sviluppa.

Questa particolarità segna profondamente la mentalità della popolazione qui residente, che vive in un contesto storico e culturale che partecipa pienamente allo svolgimento della nascita dell’Europa.

L’Europa non è un continente geografico, ma una propaggine del grande continente euroasiatico; ad est i suoi confini non sono ben definiti (gli Urali? non tutti ne convengono, dato che ci sono europei anche oltre gli Urali). Non è poi nemmeno un continente etnico, e nemmeno linguistico; le popolazioni che vi si trovano sono le più svariate e parlano diverse lingue. Che cos’è allora? È un continente culturale, perché nasce, si sviluppa, trova la sua unità e la sua identità in una cultura, quella cristiana.

La Chiesa agisce come collante tra i popoli: c’era l’impero romano e c’erano i barbari che arrivavano, popoli molto diversi tra loro che però hanno accolto l’eredità religiosa del popolo ebraico che, unico tra tutti i popoli del mondo, credeva in un Dio unico e provvidente.

L’esperienza della filosofia greca ha fornito poi un ambiente nel quale l’uomo potesse indagare la sua coscienza e acquistare l’autocoscienza. L’apporto poi giuridico del diritto romano, ancora adesso insuperato, e il contributo della tradizione del clan e della famiglia offerto dalle tribù germaniche, hanno completato il quadro: l’Europa è nata dalla scelta degli aspetti migliori di tutte queste tradizioni inserite nel cristianesimo e valorizzate dal cristianesimo.

È stata la forza della identità cristiana che ha potuto e saputo integrare i vari popoli pur lasciando a ciascuno le proprie caratteristiche e la propria storia.

Da questa lenta integrazione si forma il continente culturale che chiamiamo Europa, dove il concetto di persona supera quello di individuo, dove la vita umana viene rispettata, dove la creatività viene riconosciuta, dove l’arte e la scienza si sviluppano come mai prima.

Non è un caso se l’80% delle opere d’arte del mondo sono in Europa — nonostante le distruzioni e devastazioni compiute dalla Rivoluzione protestante, dalla Rivoluzione francese, dalla guerra civile spagnola, dai bombardamenti inglesi e americani — e più della metà di questo 80% si trova in Italia.

Ebbene, la nostra città è nata in questo clima culturale, dove nella piazza (arengo) si praticava la democrazia diretta, sul modello di quanto accadeva nei monasteri, dove l’abate veniva eletto con votazioni libere e segrete.

Un clima culturale e religioso che ha talmente informato la vita della città che si vedono ancora oggi testimonianze della sua bellezza dovunque si volti lo sguardo: se si provasse a cancellarle, eliminando dalla nostra vista tutti i segni non solo religiosi ma anche civili che fanno riferimento alla civiltà cristiana, rimarrebbe davvero ben poco.

In questa situazione si sviluppano le istituzioni di Ferrara, la Signoria degli Estensi, il governo Pontificio, poi con la grande sciagura della Rivoluzione francese, in seguito alla quale viene spazzato via molto di quel che si era costruito, comprese le chiese, vengono portati via molte ricchezze ma soprattutto distrutte, azzerate e disperse le classi dirigenti e l’organizzazione della società corporativa ferrarese. Poi si proverà con il Risorgimento a ricostruire qualcosa, ma quel che ora ci interessa è capire quel che avvenne con il Novecento, non a caso chiamato “secolo delle idee assassine”. Esse non sono solo il Nazionalsocialismo e il Socialcomunismo, ma pure una terza “idea assassina”, che ha anch’essa responsabilità tremende: il liberalismo.

La grande tragedia della Prima guerra mondiale non è da ascrivere ai comunisti o ai nazionalsocialisti, che ancora non c’erano, ma ad una concezione politica ed economica che pone la politica e l’economia libera da ogni paletto morale. Questo intendo quando parlo di liberalismo.

Cancellate le organizzazioni dei contadini, degli artigiani, dei piccoli proprietari, eccetera, il popolo ferrarese si trova a che fare con una imprenditoria che aveva la legge dalla sua parte mentre dall’altra non c’era niente, e cade necessariamente in una miseria che non ha origine nei secoli precedenti, ma dalla Rivoluzione francese e dall’Unità d’Italia. Da questa tragedia sociale, benché l’abbiano prodotta, traggono alimento le ideologie assassine.

Anche qui  — e il suo progetto su Ferrara nasce nel dopoguerra — è il comunismo che si mette alla testa di rivendicazioni sociali, come sappiamo non perché fosse interessato ad esse ma perché vedeva nel proletariato una forza che gli avrebbe permesso di prevalere.

Nel 1939, ma ancora nel 1945, Ferrara era la seconda città dell’Emilia Romagna, sia come qualità di vita che come popolazione. Modena, Reggio, Parma, Piacenza, Ravenna, Forlì erano tutte dietro Ferrara. Da qualche anno a questa parte Ferrara è ultima. Non come popolazione, ma come qualità della vita e forza economica è lontanissima da Bologna o Modena o Reggio Emilia.

Che cosa è successo? Qual è stato, se c’è stato, l’esperimento che ha reso così Ferrara? Quando il Partito Comunista dell’Emilia Romagna ha preso il potere nella regione nel 1945 e non l’ha più abbandonato, esso era la punta di diamante, il laboratorio culturale, del Partito Comunista nazionale, ma il Comitato Centrale del PCI non ha mai visto un ferrarese: era pieno di bolognesi, modenesi, reggiani, parmensi, romagnoli, ma non c’erano ferraresi.

Che cosa succede dopo il ’45: il Partito Comunista con Togliatti applica quella che loro chiamano “la strategia gramsciana”, cioè quella insegnata da Antonio Gramsci, il quale diceva che non bisogna, in un paese occidentale come l’Italia, dove c’è il Papa e la Chiesa profondamente radicata, prendere il potere con la forza e con le armi, cioè attraverso la rivoluzione, ma insegna e prevede che il potere cadrà nelle mani del comunismo come una pera cotta quando si sarà conquistato gradualmente il potere culturale. Ecco spiegati i decenni nei quali il partito comunista prepara i suoi per inserirli nella magistratura, nell’insegnamento, nell’esercito.

Negli anni Settanta un alto dirigente dichiarò in una intervista: «Sapete, non è stata una cosa semplice, perché nel 46 ci siamo trovati almeno per quindici anni in una situazione in cui tutti gli ufficiali dell’esercito, dei Carabinieri, della Marina, erano monarchici; tutta la classe diplomatica era monarchica; l’intera classe dirigente degli amministratori e funzionari dello Stato non erano comunisti. Per quindici anni abbiamo temuto che, man mano che si ottenevano risultati e si rafforzava l’egemonia culturale, ci facessero in faccia un colpo di Stato».

Questo non è avvenuto e noi, ora, rendiamoci conto che la situazione del centro destra che ha vinto le elezioni comunali a Ferrara è simile, a parti capovolte, a quella che la sinistra si trovò a fronteggiare allora, quando tutto l’apparato le era ostile ma trovò il modo, utilizzando la strategia gramsciana, pian piano di prenderlo in mano saldamente e gradualmente consolidare il proprio potere.

Hanno lavorato per influenzare la scuola e l’università, la stampa, poi la televisione, fino ad assumerne parzialmente o totalmente il controllo.

Uno dei risultati di questo lento e inesorabile lavoro sulla mentalità dominante è la convinzione diffusa secondo cui l’interesse dello Stato sia preminente su quello del cittadino, convinzione che invece non è né giusta, né logica né naturale; anzi è esattamente il contrario, visto che è lo Stato a dover essere al servizio del cittadino (e non è retorica!).

Nonostante questo l’applicazione della lezione gramsciana è una delle più potenti che siano entrate nella mentalità comune tanto da essere condivise da larghi strati della cultura italiana anche non comunista. Possiamo dire che la vera vittoria del comunismo anche qui a Ferrara, ancor più di avere sistemato tutti i loro in tutte le stanze dei bottoni, è di aver instillato una mentalità secondo cui lo Stato viene prima del cittadino, che la società sia formata da individui e non da persone e da famiglie, aver ridotto il popolo a massa, aver convinto che la legalità venga prima della legittimità.

E il diritto naturale? Quando contrasta con il diritto positivo, noi sappiamo che quest’ultimo non può né deve prevalere. Ci hanno convinto invece che tutto ciò che è legale (contemplato cioè dal diritto positivo) è anche legittimo e al contrario che non è legittimo quello che non è legale.

Perché il centro destra ha vinto le elezioni comunali qui a Ferrara? Evidentemente la maggioranza della popolazione ha voluto reagire ad una situazione che anche inconsapevolmente ha percepito come un controllo e una oppressione, non soltanto di natura economica, ma anche sociale e personale, invadendo spazi della propria libertà.

Questa reazione dà un mandato estremamente importante alla nuova amministrazione, che deve rendersi conto che il “nemico” che ora deve fronteggiare è il gramscismo, e che l’ambiente sul quale deve lavorare è il risultato di una società gramsciana.

Contro questo apparato culturale, che ha infiltrato ogni angolo di Ferrara, si potrà fare molto, ma non ci si illuda che sia sufficiente cambiare i consiglieri comunali, i dirigenti pubblici e i dipendenti dell’ACER o dell’HERA: se non ci sarà una svolta culturale, alla prossima elezione la sconfitta sarà inevitabile. E non perché si sarà amministrato male: anche se questo di base è importante, non è per questo che si vincono o si perdono le elezioni. Occorre invece conquistare la fiducia della gente sulla base delle idee, delle convinzioni, dello stile di vita, di una civiltà che è armonia, che è bellezza, che è libertà, che è rispetto per le diversità e le articolazioni del corpo sociale, che è rispetto per le proprie tradizioni e la propria identità.

Il togliere i crocifissi dalle aule scolastiche va evidentemente in una direzione contraria a tutto questo, e il rimetterli è già un bel segnale, che speriamo andrà affiancato a molti altri segnali.

Per quale motivo questo avversario ce l’ha tanto con la nostra civiltà? Perché il suo scopo è distruggerla? Perché non tollera di ammettere che essa è nata nel cristianesimo?

Occorre studiare e capire, poi ancora studiare per capire, e solo così avremo i mezzi per contrastare una cultura che trae la sua forza soprattutto dalla nostra debolezza. Quando avremo la forza di esclamare «Il re è nudo» potremo smascherare le forze rivoluzionarie contrarie alla civiltà occidentale e cristiana che fanno l’identità dell’Europa e della nostra città e porre le basi indispensabili per una riconferma alle prossime elezioni.

Nessuna sudditanza psicologica! Gli altri ci giudicano sulla base dei loro parametri gramsciani: non dobbiamo cadere in questa trappola e rifiutarci di essere giudicati con questo criterio e su questi pregiudizi. È difficile, certo, proprio perché il “politicamente corretto” sembra invincibile, ma se riusciremo a superare questi pregiudizi imposti dalla cultura di sinistra ora egemone ovunque, potremo lavorare perché dopo aver conquistato il palazzo, possiamo riconquistare anche il cuore e la mente del popolo ferrarese.

Quel che è stato è stato e il passato non si potrà farlo rivivere, ma i suoi valori sì.

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Ad maiorem Dei gloriam et socialem


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