«Perché non si ammette che sia negata la libertà religiosa»

Lezione tenuta il 26 maggio 2016
Dr. Carlo Martinucci

Corso «I cristiani sono la minoranza più perseguitata del mondo ma quella di cui si parla di meno. Perché?»

«Perché non si ammette che sia negata la libertà religiosa»

 

Questa sera chiuderò il vostro ciclo di lezioni sul perché i cristiani sono la minoranza più perseguitata nel mondo ma quella di cui si parla di meno, parlando di libertà religiosa; nello specifico, di libertà religiosa in Occidente, cioè non della libertà religiosa negata in maniera evidente ed esplicita laddove la persecuzione è apertamente cruenta, ma chiedendoci se è vero che viene negata in Occidente, anche qui, oggi, in Italia nel 2016, e in che senso questa negazione fa sì che non ci sia interesse nei confronti delle altre forme di persecuzione: centomila cristiani che a motivo della loro fede muoiono ogni anno, uno ogni cinque minuti in media, apparentemente ci verrebbe da dire che non possono non catturare la nostra attenzione.

Sveliamo fin da subito il finale: ci sono almeno due modi diversi di intendere la libertà religiosa, e l’Occidente oggi è seguace di una di queste visioni, secondo cui la libertà religiosa è ammessa perché si sostiene che, di fatto, non c’è niente di significativo da dire in materia di religione. Dunque, essendo la religione considerata come qualche cosa di trascurabile e di irrilevante, ognuno è libero di avere una propria opinione religiosa, hai la libertà religiosa, a patto che questa opinione personale rimanga privata, non si traduca direttamente in alcuna azione pubblica e non pretenda di avere una pubblica rilevanza. Il corollario e la dimostrazione di questo atteggiamento è che ogni esternazione pubblica dal sentore anche solo lontanamente religioso è immediatamente bollata come indebita ingerenza e attentato alla laicità dello stato. Questo concetto sbagliato di libertà religiosa coincide di fatto con la convinzione che la fede debba essere qualcosa di unicamente e totalmente privato, e la pretesa che la laicità dello stato significhi la negazione di ogni manifestazione pubblica di religione.

Questa visione di libertà religiosa fa sì che i cristiani martiri, morti ammazzati in altre parti del mondo, non abbiano nulla da dire a noi, perché sono come le altre migliaia di persone che muoiono quotidianamente. Ed è un po’ cinico, ma anche un po’ realistico, pensare che non ci si può interessare tutti i giorni di chi muore nel mondo. Questi cristiani, si può pensare, muoiono per una loro opinione più o meno irrilevante, e quindi non sono molto diversi dagli altri che muoiono tutti i giorni.

Al contrario andare ad ammettere che queste persone muoiono perché danno testimonianza di Cristo, perché testimoniano la verità e la testimoniano al punto tale da accettare la morte, è qualche cosa che sconvolge l’idea secondo cui la religione non deve avere alcuna rilevanza. È una testimonianza non solo di Cristo, che pure è già “scandalosa” di per sé, ma anche del fatto che la fede può essere ed è qualcosa di centrale, la cosa più rilevante di tutte.

Andiamo dunque a capire che cos’è davvero la libertà religiosa. Il contesto nel quale metterci per affrontare l’argomento ci è fornito dalla dichiarazione Dignitatis Humane. La libertà religiosa è un diritto, e noi sappiamo che i diritti sono tali in quanto bilanciati dai doveri, non stanno da soli gli uni senza gli altri. E il punto di partenza è: “E tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono e a rimanerle fedeli” (DH, 1). Questo dovere non è una cosa da poco. Perché? “Questi doveri attingono e vincolano la coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore” (DH, 1). Il contesto nel quale ci muoviamo è dunque un contesto antropologico: l’uomo è fatto in un certo modo, è di natura razionale, dotato di ragione e libera volontà, quindi può e deve cercare la verità. “Ad un tale obbligo, però – continua la DH – gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano l’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa” (DH, 2). Per poter credere a qualche cosa, per aderire veramente a qualche cosa, non posso che aderirvi liberamente. Una qualsiasi costrizione nega la libertà e non sarebbe degna dell’essere umano.

E “poiché la libertà religiosa, che gli esseri umani esigono nell’adempiere il dovere di onorare Iddio, riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (DH, 1). Quindi, qual è l’oggetto della libertà religiosa? È un concetto tecnico giuridico, dice che l’uomo non può essere sottoposto a coercizione esterna in materia di religione, si fonda sulla stessa natura umana e non è la licenza morale di aderire all’errore.

Si può dire di più. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda che il dovere di ricercare la verità, all’interno della libertà religiosa, “non si contrappone ad un sincero rispetto per le diverse religioni, le quali non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini, né all’esigenza della carità, che spinge i cristiani a trattare con amore, prudenza e pazienza gli uomini che sono nell’errore o nell’ignoranza circa la fede” (CCC, 2104). Ed è chiaro che solo a partire da una prospettiva di chi sa che cos’è la verità si può dire che altrove ci sono pezzi di verità. Come dice G.K. Chesterton, “Se di una certa cosa affermiamo che è un aspetto della verità, è evidente che pretendiamo di sapere che cosa sia la verità; allo stesso modo, se parliamo della zampa posteriore di un cane, pretendiamo di sapere che cosa sia un cane. […] E’ assurdo supporre che più siamo scettici, più vediamo il bene in ogni cosa. È chiaro che più siamo sicuri di cosa sia il bene, più vedremo il bene in ogni cosa”. (Eretici, XX). Quindi, affermare che si deve avere un sincero rispetto per le diverse religioni, a motivo e nella misura in cui riflettono un raggio della verità, non è una posizione relativistica, perché il relativismo non ha alcuno strumento per valutare le diverse religioni, e l’eventuale apprezzamento è solo cosmetico. E il rispetto nemmeno si contrappone ad un’esigenza di carità che impone, questo sì, di trattare con amore e pazienza anche chi sbaglia.

Tra l’altro la Dignitatis Humane è stata, secondo san Giovanni Paolo II, uno strumento fondamentale contro i totalitarismi (cfr. GPII, 2). E questa riflessione è del 1995, a pochi anni dalla caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, e a trent’anni dal Concilio Ecumenico Vaticano II, la cui recezione è stata, per usare un eufemismo, certo non scevra di problematiche.

Ora, la libertà religiosa ha dei limiti? Sì, perché è un concetto non filosofico o teologico ma tecnico giuridico. Quali sono i limiti? “Il diritto alla libertà religiosa non può essere di per sé né illimitato, né limitato semplicemente da un ordine pubblico concepito secondo un criterio «positivistico» o «naturalistico». I «giusti limiti» che sono inerenti a tale diritto devono essere determinati per ogni situazione sociale con la prudenza politica, secondo le esigenze del bene comune, e ratificati dall’autorità civile secondo «norme giuridiche conformi all’ordine morale oggettivo»” (CCC, 2109). Cioè i limiti sono limiti razionali. Perché?

Perché la pratica religiosa non è espressione di una virtù teologale. Può sembrare strano: parliamo di pratica religiosa: più teologale di così! E invece, seguendo san Tommaso D’Aquino, la pratica religiosa non trova fondamento nella rivelazione in senso stretto ma nella virtù di religione, che è una virtù morale prossima alle virtù teologali ma che di suo è innestata nella virtù cardinale della giustizia: dare a ciascuno il suo (cfr. Summa theologiae IIa-IIae, q. 81, art. 5). Questo perché noi siamo per nostra stessa natura religiosi. L’essere umano ha di suo la tendenza a uscire da sé, a trascendere, a porsi quelle domande fondamentali le cui risposte riconosce eccedere la propria capacità. E questo non è un dato di fede, è un dato naturale: l’uomo è un animale religioso.

Quindi la difesa della virtù di religione non apprezza la qualità di tale espressione, ma solamente la naturalità e la insopprimibilità della religiosità. Di conseguenza anche i limiti rimangono limiti razionali e sono dati da quello che è l’obiettivo del potere temporale, che è raggiungere e garantire il bene comune. Sono limiti dati dall’ordine della società, perché l’autorità civile non ha alcun potere di dirimere o impedire gli atti religiosi. Quel che compete al potere civile è vigilare affinché non vengano fatte mancanze in ordine all’ordine sociale. Per cui il limite non può entrare nel merito della verità o della falsità dell’espressione religiosa, ma deve determinare, concretamente, se quella espressione è problematica per la convivenza pacifica oppure no.

D’altra parte, come scrive Benedetto XVI nel suo messaggio per la celebrazione della XLIV giornata della pace, la libertà religiosa “come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta. Anche la libertà religiosa non si esaurisce nella sola dimensione individuale, ma si attua nella propria comunità e nella società, coerentemente con l’essere relazionale della persona e con la natura pubblica della religione. E’ innegabile – continua il Papa – il contributo che le comunità religiose apportano alla società. Sono numerose le istituzioni caritative e culturali che attestano il ruolo costruttivo dei credenti per la vita sociale. Più importante ancora è il contributo etico della religione nell’ambito politico. Esso non dovrebbe essere marginalizzato o vietato, ma compreso come valido apporto alla promozione del bene comune. In questa prospettiva bisogna menzionare la dimensione religiosa della cultura, tessuta attraverso i secoli grazie ai contributi sociali e soprattutto etici della religione. Tale dimensione non costituisce in nessun modo una discriminazione di coloro che non ne condividono la credenza, ma rafforza, piuttosto, la coesione sociale, l’integrazione e la solidarietà”. (BXVI-a, 6).

Cioè la religione ha una dimensione che per sua natura è pubblica, perché è un rapporto e quindi non si può esaurire nella sfera privata, dunque questa dimensione deve essere garantita dalla libertà religiosa. La religione ha un apporto positivo per società che non può essere disconosciuto, non può essere ignorato. Se viene ignorato, se si fa coincidere la libertà religiosa con l’indifferentismo, si marginalizza una parte consistente dell’essere umano e non è possibile costruire una società sana. San Giovanni Paolo II evidenzia questo concetto in maniera significativa: “Faremmo bene a tenere conto di un’altra forma di limitazione della libertà religiosa, meno evidente dell’aperta persecuzione. Mi riferisco alla pretesa che una società democratica debba relegare al puro ambito delle opinioni personali i credo religiosi dei suoi membri e le convinzioni morali derivanti dalla fede. A prima vista, ciò sembra essere un atteggiamento di dovuta imparzialità e “neutralità” da parte della società nei confronti di quei suoi membri che seguano tradizioni religiose diverse o nessuna affatto. E in vero è opinione diffusa che questo sia l’unico approccio illuminato possibile in un moderno Stato pluralistico.
Ma, chiedere ai cittadini, nella partecipazione alla vita pubblica, di mettere da parte le loro convinzioni religiose non vuol forse dire che la società, oltre ad escludere il contributo della religione alla sua vita istituzionale, si fa anche promotrice di una cultura che dell’uomo offre una definizione che ne sminuisce la vera essenza? In particolare, al cuore di ogni grande istanza sociale ci sono interrogativi morali. Ora si vorrebbe forse che i cittadini i cui giudizi morali sono basati sulle loro convinzioni religiose non esprimessero le loro convinzioni più profonde? E quando questo accade, non è forse la democrazia stessa a essere svuotata del suo significato più vero? Non dovrebbe un reale pluralismo prevedere che quelle profonde convinzioni possano essere espresse in un vivace e civile dialogo comune? La Chiesa sollecitamente incoraggia questo dialogo perché consapevole della sua utilità e della sua efficacia, a condizione che esso resti aperto alla verità oggettiva, alla quale è possibile giungere ed aderire, e non sia condizionato da una preconcetta visione “areligiosa” e “amorale” della persona umana e della comunità degli uomini
” (GPII, 5).

È proprio vero che questa concezione della libertà religiosa è la sola che garantisce uno sviluppo sano della società? Più in generale, che cosa è la pace, e quale sono le sue condizioni? Seguendo sant’Agostino, potremmo dire che la pace è “la tranquillità dell’ordine” (De civitate Dei XIX, 13). Certamente, perché vi sia pace non è sufficiente la mera assenza della guerra. Benedetto XVI riprende la questione in una luce che ci è utile in questo discorso: “La pace invece è risultato di un processo di purificazione ed elevazione culturale, morale e spirituale di ogni persona e popolo, nel quale la dignità umana è pienamente rispettata” (BXVI-a, 15).

Ed è chiaro: come fa ad esserci la pace se non c’è un progresso umano integrale, dove non viene tenuta in considerazione solo la parte per così dire scientifica, dimenticandosi del fatto che al cuore dell’uomo ci sono quelle domande fondamentali insopprimibili, delle convinzioni radicate. Se si elimina quella parte, come si può pretendere di avere vera pace? Come si può pretendere di avere una elevazione morale spirituale?

Da questo punto di vista, il fondamentalismo e fanatismo religioso da una parte, e le forme di ostilità verso la religione dall’altra, sono le due facce della stessa medaglia: entrambe due forme di rifiuto di quella legittima pluralità che significa semplicemente tenere in alta considerazione tutto l’umano e i suoi fondamenti, la libertà e la volontà.

Se tutto sembra così chiaro e così evidente, perché c’è questo contrasto tra le due forme di libertà religiosa? Il discorso si pone più specificamente nel rapporto della religione e della Chiesa con il mondo moderno e con lo stato moderno. Nello specifico la questione della libertà religiosa viene sollevata relativamente tardi, in questi termini almeno. Un momento senza dubbio emblematico di questo rapporto è individuabile nel Concilio Ecumenico Vaticano II, che ha cercato di porre e dare qualche risposta ai nuovi interrogativi dati dalla mutata condizione storica, cioè il fatto che gli stati stavano prendendo forme diverse. E quale è stato il risultato del concilio? E’ stato recepito nel modo giusto? Che cosa buono e che cosa nella sua recezione insufficiente o sbagliato? Benedetto XVI, nel 2005 afferma: “il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la sola ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un’immagine dello Stato e dell’uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio” (BXVI-b). In altri termini, con il linguaggio proprio di Alleanza Cattolica, quello che il Papa descrive è il percorso della Rivoluzione, che un passo alla volta marginalizza la vera concezione di Dio, della Chiesa e del mondo e priva l’uomo di tutte le sue ricchezze e difese, fino a privarlo anche della sua stessa dimensione religiosa, relegandola nel privato con la rivoluzione francese, poi uccidendola con la rivoluzione comunista e poi tornando a una certa vaga spiritualità, che ormami è talmente deformata da risultare mostruosa e grottesca, con la quarta rivoluzione. “Si potrebbe dire – continua Benedetto XVI – che si erano formati tre cerchi di domande che ora, durante il Vaticano II, attendevano una risposta. Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne. […] In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno. […] In terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa” (BXVI-b).

Ora ci stiamo addentrando di più sulla questione specifica del Concilio Vaticano II, ma ci stiamo allontanando solo apparentemente dal nostro tema: “È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma” (BXVI-b).

Benedetto XVI è proprio in questo discorso che ripropone l’espressione, già usata da Paolo VI, di “ermeneutica della riforma nella continuità”, cioè quella lettura del Concilio, e più in generale della storia della Chiesa, che rifiuta sia la continuità tout court, come a dire che non cambia mai niente, sia la rottura totale, la quale a sua volta può essere recepita positivamente, in senso progressista, o negativamente, in senso ultra-tradizionalista:  “Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l’uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento” (BXVI-b).

Poi il Papa continua dicendo che chi pensava che dal Concilio si sarebbe trasformato tutto in pura armonia era un po’ ingenuo e aveva sottovalutato quelle che sono le tensioni e le contraddizioni dell’età moderna, la fragilità della natura umana in tutti i periodi della storia, e anche il fatto che la Chiesa in ogni tempo resta un segno di  contraddizione. Quindi è evidente la difficoltà, che in quest’ottica non è una difficoltà propria della Chiesa o propria di un concilio o di quel concilio, ma è una difficoltà data dal fatto che il cambiamento del tempo e della società è stato qualcosa di dirompente e per nulla banale.

Alla fine quel che importa per la Chiesa è il fatto che ci sia la vera libertà religiosa, non necessariamente incarnata all’interno di una specifica forma di governo in astratto, bensì è importante che venga garantita la possibilità non solo di evangelizzare in senso stretto, ma che il contributo della chiesa possa formare la società, possa essere quel lievito di cui gli uomini nella società hanno bisogno.

È chiaro che nei periodi di transizione, di cambiamento, questo passaggio non è per nulla banale o facile, e la Chiesa ha fatto questa transizione, che ha portato grandi frutti, nonostante le grandi problematiche.

In un altro passaggio del discorso citato prima, Giovanni Paolo II dice che “la Chiesa non cerca né desidera vedere alcun potere terreno posto al servizio delle verità di cui è annunciatrice. Chiede solo di poter in libertà rivolgersi all’uomo; e chiede per tutti gli esseri umani la libertà di rispondere al Vangelo nella piena misura della loro umanità” (GPII, 6). Un concetto legato a questo è che la libertà religiosa non è una prerogativa istituzionale cattolica, non è un qualche cosa di dovuto alla Chiesa Cattolica perché noi abbiamo la verità e gli altri no, quindi noi avremmo il diritto di dirlo e gli altri no. Allo stesso modo, quello che si vuole non è porre il potere terreno a servizio della verità di cui la Chiesa è annunciatrice. Questo è un passaggio problematico, perché sarebbe facile concluderne che sarebbe giusto che lo stato non abbia interesse a tutelare la Chiesa o la verità di religione e che rimanga completamente indifferente alla problematica religiosa perché non le compete. Ed è vero che in un certo senso non le compete, ma in un altro senso sì: il rifiuto del potere va interpretato ed è articolato.

Il potere, nella prospettiva cattolica, va rifiutato come strumento di conversione, ma non altrettanto accade quando è mezzo di gestione e di difesa della società. Sempre san Giovanni Paolo II subito dopo aver detto che la Chiesa non vuole il potere al suo servizio stigmatizza l’esclusione della vita della religione dalla vita istituzionale. Allo stesso modo, anche il Catechismo della Chiesa Cattolica ammette la confessionalità dello stato, purché si accompagni alla libertà religiosa anche per chi non ha il dono della fede.

Mi permetto ora una parentesi sulla prospettiva dei cattolici contro rivoluzionari, a cui noi facciamo riferimento, accusati a volte di voler riproporre un modello antico nel quale il potere era a servizio della chiesa, come se si volesse riportare indietro l’orologio della storia. Joseph de Maistre, uno dei padri della dottrina controrivoluzionaria, scrive: “questa Rivoluzione non può finire con un ritorno all’antico stato di cose, che sembra impossibile, ma con la rettificazione dello stato in cui siamo caduti” (Mémoire), quindi la rettificazione non può essere una riproposizione verbatim dello stato anteriore, ma dev’essere la possibilità vera, concreta, apprezzata, di fornire il proprio contributo alla vita anche istituzionale della società. Oppure ancora, Plinio Correa de Oliveira si chiedeva come fare allora per realizzare nel presente e nel futuro la controrivoluzione. E sosteneva: bisogna fare “Quello che fecero i nostri antenati, agli albori dell’attuale civiltà. Essi compresero che, sulla rotta indicata dal decalogo, e rispettando i diritti della Chiesa […] è necessario permettere che lentamente la società riprenda ad avanzare da sola […].

Rispettando questi principi, a che meta finale arriveremmo? Ritorneremmo al Medioevo? O avanzeremmo verso un futuro nuovo e imprevedibile?

A entrambe le domande si dovrebbe rispondere affermativamente. […] Certamente questo nuovo ordine di cose, questa nuova civiltà cristiana sarà profondamente simile, o meglio identica a quella antica nelle sue linee essenziali. E sarà, se Dio vuole, nel secolo XXI la stessa del secolo XIII. Ma d’altra parte le condizioni tecniche e materiali della vita hanno subito profonde trasformazioni, e non vi sarebbe niente di più inorganico che fare astrazione da queste modificazioni. Su questo punto specifico è necessario non fare molti piani. I fondatori della civiltà cristiana nell’alto Medioevo non avevano in mente il secolo XIII come è esistito. Avevano semplicemente l’intenzione generica di fare un mondo cattolico. […]

Facciamo come loro” (La società cristiana organica e la società meccanica e pagana). E, con Gonzague de Reynold, la capacità di guardare alla realtà è una delle differenze sostanziali tra i reazionari e i controrivoluzionari: “I reazionari intendono stabilire l’ordine precedente la rivoluzione, come se non fosse accaduto nulla. I contro-rivoluzionari prendono atto di quanto è accaduto; sanno che non si potrà mai tornare indietro e che hanno avuto inizio tempi nuovi. I reazionari pensano al passato, i contro-rivoluzionari all’avvenire. […] La contro-rivoluzione possiede una dottrina; la rivoluzione un’ideologia; la reazione non possiede nessuna ideologia, nessuna dottrina. È semplicista: restaurare il passato non esige nessuno sforzo mentale” (Destin du Jura. Origine et prise de conscience. L’histoire. Vers une conclusion). A volte, quando qualcuno dice “bisogna prendere atto della tal cosa”, e la tal cosa è molto negativa, si è pronti ad accusarlo, quasi “prendere atto” significhi automaticamente legittimarla o approvarla. In realtà, prendere atto delle cose brutte è indispensabile, è la regola per poter capire ed è essere pronti a leggere la realtà come è, e non come vorremmo che fosse.

Non dobbiamo fare l’errore di dire “come si stava bene quando si stava meglio, torniamo indietro allo stato di cose”, però si possono prendere gli stessi principi, che sono gli stessi e si possono incarnare oggi. Incarnarli oggi è molto più difficile, perché non sappiamo in anticipo in che modo si incarnerà quel principio, che pure è lo stesso, oggi. E’ molto più facile dire quale sarebbe stato il modo migliore di risolvere la tale questione accaduta anni e anni fa, grazie al senno di poi, ma mentre le cose succedono non è altrettanto facile.

Un altro documento del CVII particolarmente rilevante per la discussione e per la natura sociale della religione è il decreto Apostolicam Actuositatem, sul ruolo dei laici, nel quale si legge che “L’opera della redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza degli uomini, però abbraccia pure il rinnovamento di tutto l’ordine temporale. Di conseguenza la missione della Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche ad animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico”. (AA, 5)

Questa è un’ulteriore conferma del fatto che se pensassimo alla fede e alla religione come qualche cosa che rimane privato e non deve avere ambizione di modificare la società, la struttura sociale, lo stato, il governo, staremmo facendo una grave taglio di quello che il compito di laici e l’obiettivo della chiesa. Perché, come sosteneva Pio XII, “Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s’insinua anche il bene o il male nelle anime” (Radiomessaggio di Pentecoste 1941 nel 50° anniversario della Rerum novarum).

Perché vogliamo anche il rinnovamento dell’ordine temporale? Perché non ci basta concentrarci sull’annuncio di Cristo senza andare a guardare come è fatta la società? Perché a seconda che la società si avvicini alla città di Dio o alla città del Diavolo, le cose cambiano.  Se la società è migliore è più facile comportarsi bene, è più facile accogliere l’annuncio di Cristo, è più facile esercitare sia le virtù cardinali che le virtù teologali, è più facile diventare Santi. E questo noi vogliamo: la salute delle anime. Ma la salute delle anime passa anche dalla forma della società.

Quindi il ruolo dei laici non è solo portare l’annuncio, ma anche agire nella società e cambiarla e renderla più vicina alle esigenze dell’apostolato, più retta, perché approvi e incentivi le virtù e disapprovi e disincentivi i vizi. Questo non significa volere uno tato confessionale o una teocrazia, perché non si tratta qui di andare ad impedire il peccato per legge: la libertà è una condizione inderogabile della natura umana alla quale non si può soprassedere, perché se non ha voluto derogare Dio creandoci non possiamo evidentemente negarla noi a maggior ragione. Ma formare uno stato di cose che renda più facile l’avvicinamento all’unica vera religione, che è quella Cattolica, questo sì che lo vogliamo.

E’ anche incoraggiante, da un certo punto di vista, perché il nostro ideale non è la miseria religiosa. Di fronte ad affermazioni tipo “no ma la chiesa non vuole il potere temporale al suo servizio”, uno potrebbe dire, ma quindi vogliamo uno stato che ci ignora? No: non vogliamo la miseria religiosa. C’è un santo medioevale, San Pier Damiani, vissuto a cavallo dell’anno mille, che in un suo scritto fa una riflessione molto suggestiva sui poveri. Lui si trova nella transizione dell’alto al basso medioevo, in una situazione nella quale molti che avevano titoli e ricchezza hanno perso i loro averi e sono oppressi dalla povertà, ma “preferiscono morire piuttosto che domandare pubblicamente l’elemosina […], mentre altri poveri mettono in vista la propria miseria […]. Non c’è bisogno di perspicacia per conoscere i poveri cenciosi e con le bisacce e i cesti addosso, perché al solo guardarli li riconosciamo. Dobbiamo invece guardar bene addentro a quei poveri, la miseria dei quali non possiamo constatare allo scoperto” (Il superfluo. Opuscolo IX). E la riflessione è che noi ci troviamo, in un certo senso, alcuni poveri senza saperlo, altri poveri sapendolo ma in ogni caso poveri: siamo stati derubati di una ricchezza di cui a volte abbiamo consapevolezza e a volte no.

Di fronte a chi con una ingenuità che a volte fa rabbia, concepisce il rifiuto del potere come ambizione alla miseria spirituale, bisogna anche pensare che il proprio interlocutore è un povero ancora più misero, perché non si rende conto della miseria spirituale in cui versa. “Questo mondo umano è stato svillaneggiato come se l’ideale da perseguire fosse costituito dalla miseria religiosa, cioè da una società la cui organizzazione politica forse non combatte la religione, ma è neutrale rispetto a essa, perciò la trascura e ne è ricambiata” (GC).

E mi è capitato, e sarà certamente capitato anche a voi, di parlare anche con sacerdoti i quali, alla mia affermazione di ambire alla ricostruzione della Cristianità, sono saltati sulla sedia paragonando la Cristianità ad un periodo buio simile ad un regime nazista governato dai preti. Perché poi l’idea è anche questa, che lo stato moderno in cui siamo presi a calci nei denti e in cui la religione non è riconosciuta come qualche cosa di significativo sia la condizione ideale. Però questo è desiderare la miseria spirituale. Noi invece partecipiamo all’idea della Cristianità come alternativa a un’Europa che vuole dimenticare di essere stata una Cristianità, e siamo tra qui nuovi poveri.

Senza evidentemente volere per questo fare una sorta di vittimismo che, di fronte alle persecuzione cruente, lascia anche il tempo che trova, per cui va inteso nella giusta prospettiva: non nella prospettiva vittimistica di rivendicazione o recriminazione, ma nella prospettiva di voler recuperare qualcosa di cui il nostro mondo è stato derubato senza neanche rendersene conto.

Per concludere, c’è un detto dei Padri del Deserto che si riferisce all’ultima generazione. In un certo senso ogni generazione che assiste alla fine di un’epoca è un’ultima generazione, in un altro senso quella stessa e ogni stessa generazione è la prima di un mondo che nasce, come ha ricordato Marco Invernizzi nel suo intervento sul palco della grande manifestazione del 30 gennaio 2016 a Roma al Circo Massimo: “Noi siamo la generazione che sta nascendo nel mondo che muore sotto il peso dei propri vizi e dei propri peccati”. E questo detto dei padri del deserto, interpretato come rimando alla fine di un mondo umano, è molto significativo: “I santi padri di Scete fecero questa profezia sull’ultima generazione. ‘Che cosa abbiamo compiuto noi?’, dissero. Uno di loro, il grande padre Ischirione, rispose: ‘Abbiamo osservato i comandamenti di Dio’. Ed essi a lui: ‘Ma che faranno invece quelli dopo di noi?’ ‘Giungeranno alla metà della nostra opera’. ‘E quelli dopo di loro?’ Disse: ‘Non eguaglieranno in nulla la generazione precedente, ma la tentazione sopravverrà, e quelli che in quel tempo saranno trovati provati, saranno più grandi di noi e dei nostri padri” (Vita e detti dei Padri del deserto).

Concludendo, il motivo per cui non si ammette che la libertà religiosa è negata è che oggi in Occidente è predominante un’altra visione della libertà religiosa, visione nella quale la libertà religiosa è ridotta alla sola libertà di culto in forma privata. La libertà religiosa è garantita, si dice, ritenendo come ingerenza ogni manifestazione pubblica di natura religiosa, e bollando come teocratica ogni ambizione di una fede ad uno spazio pubblico.

È tutto perduto? Al contrario, quella che sembra la fine del mondo è solo la fine di un mondo, la fine di un mondo che ha dimenticato Cristo. L’unico modo perché un nuovo mondo nasca è coltivare la fede e trasformarla in cultura, e come la Cristianità medioevale è nata dalle rovine di un mondo, anche la nuova Cristianità potrà nascere dalle rovine di questo mondo, se noi avremo la forza di fare quello che è chiesto ad ogni uomo in ogni tempo: accettare la Grazia e rispondere con generosità alla chiamata di Cristo.

 

Bibliografia

DH – DICHIARAZIONE SULLA LIBERTÀ RELIGIOSA DIGNITATIS HUMANAE, 1965, http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decl_19651207_dignitatis-humanae_it.html

AA – DECRETO SULL’APOSTOLATO DEI LAICI APOSTOLICAM ACTUOSITATEM, 1965, http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decree_19651118_apostolicam-actuositatem_it.html

GPII – MESSAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO PROMOSSO NEL XXX ANNIVERSARIO DELLA PROMULGAZIONE DELLA «DIGNITATIS HUMANAE», 1995, https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1995/december/documents/hf_jp-ii_spe_19951207_xxx-dignitatis.html

GC – Libertà religiosa, “sette” e “diritto di persecuzione”, Giovanni Cantoni e Massimo Introvigne, 1996, Edizioni Cristianità

CCC – Catechismo della Chiesa Cattolica, 1992 – 1997

BXVI-b – DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI, 2005, https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2005/december/documents/hf_ben_xvi_spe_20051222_roman-curia.html

BXVI-a – MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA CELEBRAZIONE DELLA XLIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, 2011, https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/messages/peace/documents/hf_ben-xvi_mes_20101208_xliv-world-day-peace.html

 


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