Aborto e procreazione artificiale

Lezione tenuta il 18 gennaio 2007

dott. Chiara Mantovani

 

“Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio”, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano.

È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori”.

Avevamo concluso così la nostra lezione precedente, nella quale abbiamo velocemente riassunto il percorso di decostruzione dell’Europa avvenuto “smontando” e “riscrivendo”, in particolare, la definizione e dunque l’idea stessa di persona umana.

Se questo processo, pazientemente tessuto (non accaduto per caso), si è dipanato in forme, modalità e condizioni differenti, ha comunque mantenuto una linearità di intenzione che, forse manifestatasi con maggior chiarezza negli ultimi tempi, ci permette di individuare lo scopo finale: esso è finalizzato alla distruzione dell’opera della salvezza operata da Cristo. “Rendere vana la Croce di Cristo” (1Cor. 1, 17) è, dall’annuncio dell’Incarnazione in poi, il fine e il desiderio di colui che è “omicida fin dal principio”( Gv. 8, 44).

Introduco qui un elemento di novità rispetto al discorso svolto la settimana scorsa: dopo avervi raccontato l’etiopatologia e i sintomi della malattia, e prima di indicare prognosi e terapia, oso fare il nome dell’agente patogeno: è il diavolo. Non ho tempo per soffermarmi sull’argomento; raccomando — per una rapida e gradevole ripassatina sull’argomento — la lettura o rilettura di quel capolavoro di teologia spicciola e cattolica che è “Le lettere di Berlicche” di C.S.Lewis.

Che sia importante conoscere la natura della causa almeno quanto la natura dell’ammalato, va da sé. Ma fatta questa debita premessa, ora mi preme sottolineare che quanto andrò dicendo vuole convintamente restare estraneo ad un giudizio di merito sulle persone (reali anche quando sconosciute) che necessariamente sono coinvolte negli atti che andrò esaminando.

Oggi parlerò delle due facce della stessa pretesa. Aborto e fecondazione artificiale, infatti, obbediscono ad una stessa logica: il figlio come e quando lo voglio io. Ormai sapete tutto sulla fecondazione e sull’aborto dal punto di vista tecnico (eventualmente resto a disposizione per chiarimenti). Mi preme sottolineare la profonda relazione tra due atti che comunque procurano morte: qui si concretizza quella “alleanza con la morte” di cui parlava mons. Caffarra: l’uomo ha trovato la morte degna di sé, a misura della propria realtà.

Ora, questa non è una questione teorica: ci sono, e lo vedremo, milioni e milioni di persone reali coinvolte. Il fatto che nessuno di noi ne conosca alcuna, o solo due o tre, o alcune decine, non cambia la realtà; così come tantomeno mi autorizza ad esprimere giudizi su queste persone. Al contrario, il giudizio lo esprimerò sui fatti, poiché questo ci è chiesto di fare ogni giorno: decidere che cosa (non chi) è buono o cattivo, per poter avere un elemento certo cui appoggiare la volontà e dunque esercitare la libertà.

L’altra sera vi dicevo: un rampino, un chiodo cui ancorare la ragione.

Bisogna che sgomberiamo il campo dalla semplice emotività, che certo entra nella formulazione di un giudizio, ha un ruolo nelle dinamiche decisionali umane, per il semplice motivo che è … umana (mai disconoscere la realtà!); ma si deve tenerla presente in modo ordinato, cioè secondo e non primo. Non è alla mia emotività che devo affidare la decisione del mio comportamento nella compilazione del 740, o nei calcoli per il ponte sullo stretto; nulla in contrario se lascerò fare all’emotività per la scelta del film di stasera, molte riserve se dovesse essere il principale criterio per scegliere il marito (o la moglie). Banalità che però, in ambito bioetico, sembrano totalmente disattese.

Allora ecco il richiamo di Benedetto XVI: “”Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio”. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori”.

L’invito al retto uso di ragione del Papa diventa in campo bioetico un grido drammatico: si badi che, sebbene non casuale e certamente indirizzato ancheall’islàm (il Papa è meno stupido di quanto voglia farci credere il Corriere della Sera), pur tuttavia questo è un appello rivolto alle nostre “culture” occidentali. Perché è totalmente irragionevole comportarsi come sta facendo l’uomo occidentale da quattro secoli a questa parte e l’uomo moderno o post-moderno, da quarant’anni!

Il primo grande fraintendimento, nell’ambito che andiamo esaminando questa sera, è stato passare dalla consapevolezza della ingiustizia dell’aborto (parlo propriamente di “ingiustizia”, nel senso che non rende giustizia alla verità delle persone coinvolte), alla sua affermazione di diritto. “Purtroppo, questo inquietante panorama, lungi dal restringersi, si va piuttosto dilatando: con le nuove prospettive aperte dal progresso scientifico e tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità dell’essere umano, mentre si delinea e consolida una nuova situazione culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e — se possibile — ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell’opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l’impunità, ma persino l’autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l’intervento gratuito delle strutture sanitarie. […] scelte un tempo unanimemente considerate come delittuose e rifiutate dal comune senso morale, diventano a poco a poco socialmente rispettabili” (Evangelium Vitae, 4).

“Nella medesima lettera, a pochi giorni dalla celebrazione del centenario dell’Enciclica Rerum novarum, attiravo l’attenzione di tutti su questa singolare analogia: “Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa con grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore, così ora, quando un’altra categoria di persone è oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce con immutato coraggio a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in difesa dei poveri del mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e oppressi nei loro diritti umani”.

Ad essere calpestata nel diritto fondamentale alla vita è oggi una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i bambini non ancora nati. Se alla Chiesa, sul finire del secolo scorso, non era consentito tacere davanti alle ingiustizie allora operanti, meno ancora essa può tacere oggi, quando alle ingiustizie sociali del passato, purtroppo non ancora superate, in tante parti del mondo si aggiungono ingiustizie ed oppressioni anche più gravi, magari scambiate per elementi di progresso in vista dell’organizzazione di un nuovo ordine mondiale” (Evangelium Vitae, 5).

“Ma la nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su un altro genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di “delitto” e ad assumere paradossalmente quello del “diritto”, al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l’intervento gratuito degli stessi operatori sanitari (Evangelium Vitae, 11).

Anche per l’aborto, come per l’eutanasia, il cammino verso questo riconoscimento inizia con la richiesta di depenalizzazione, adducendo una serie di circostanze talmente attenuanti per il comportamento medico da renderlo impunibile. Per le donne, invocando condizioni ambientali e sociali, e psicologiche tali da rendere insostenibile la gravidanza. Bisogna dire che la pratica medica conosceva situazioni drammatiche, nelle quali è innegabile che certe situazioni, anche se rare, rendevano reale il conflitto tra l’interesse di salute della mamma e la gravidanza.

Ma i dilemmi erano sempre recepiti come drammatici e, anche quando si giungeva alla decisione di privilegiare la vita della madre, ciò nonostante era evidente che si trattava di una ingiustizia perpetrata per forza maggiore.

Deve essere anche chiarito che queste situazioni sarebbe più corretto definirle come un effetto negativo non cercato, là dove non era possibile ottenere tutto il bene desiderato (es.: in un naufragio, se non riesco a salvare tutti i naufraghi, a malincuore sono consapevole che posso salvare solo quelli più vicini alla scialuppa di salvataggio, né metto a rischio la vita di coloro che ho già imbarcato per raggiungere altri più lontani).

L’esempio è calzante soprattutto in un aspetto: anche in medicina ho il dovere di occuparmi al meglio di coloro verso i quali ho più probabilità di cura, o nei confronti del risultato che più probabilmente riuscirò ad ottenere.

Qualcosa di molto diverso dal cominciare a distinguere fra chi curare e chi no sulla base del censo, della simpatia, del favoreggiamento personale, della omogeneità di fede e di cultura.

[Sia detto per inciso, tutta la tradizione medica è da sempre orientata su questo principio; ma già l’antica Roma distingueva da liberi e schiavi, come all’interno del mondo islamico, sebbene spesso improntato agli stessi principii (Avicenna), ancor oggi esistono scuole coraniche favorevoli a regolare rigidamente le possibilità di intervento, stabilendo priorità in base alle appartenenze].

All’indomani della cosiddetta “Rivoluzione sessuale” (’68), qualcosa cambia. Innanzitutto le idee, e poi le prassi. Si affermano due principii, in particolare, che ancor oggi costituiscono i pilastri portanti di molte rivendicazioni. Il primo è quello di “autodeterminazione” della donna, il secondo è quello di utilitarismo, personale e sociale. Il primo è descritto, banalmente, da uno slogan ormai famoso: “l’utero è mio e lo gestisco io”; il secondo dalla teorizzazione che il prodotto del concepimento non ha dignità personale e dunque può lecitamente essere considerato alla stregua di un “qualcosa” di cui si dispone in base alla convenienza, relativamente alla sua “utilità”. Si badi: non è necessario che questa utilità sia materiale (anche l’affezione, il desiderio, è una utilità: anzi, di questi tempi sembra la massima utilità), men che meno che sia condivisa: ciò che è utile per me potrebbe non esserlo per altri, ciò che lo è ora potrebbe non esserlo domani. Quali criteri devono dunque regolare le scelte, sia a livello personale che sociale? Quali comportamenti promuovere come buoni, con l’aiuto dell’educazione e dei mass-media, e quali leggi uno Stato deve produrre?

Ciò a cui abbiamo assistito in questi decenni è stato questo: la assolutizzazione della libertà personale, la derisione di ogni volontà di ancorare le scelte ad una verità ontologica cercata e scoperta (non inventata!), la relativizzazione dei principi.

Alla base delle due persuasioni di fondo (l’autodeterminazione e l’utilitarismo) sta una errata concezione della persona umana, secondo la quale o non mi interrogo sul valore umano del prodotto del concepimento (la ragione non può porsi domande di senso, solo di metodo); oppure lo nego positivamente (la persona è una materia fra le altre e come tale va trattata – stesso ragionamento per gli embrioni come sorgente di cellule staminali); oppure lo ammetto, ma subordinatamente al giudizio di altri (il relativismo): la madre, la società, la comunità scientifica, il potere.

La strada è decisamente in salita, poiché è dimostrato biologicamente che non c’è soluzione di continuità tra le fasi di sviluppo dell’embrione, così come non c’è mai salto qualitativo tra le età dell’uomo. Ma questo non ha impedito di teorizzare che la natura biologica umana non fondi l’appartenenza alla dignità umana, la quale invece deriverebbe solo dal riconoscimento di questa qualità da parte di altri. Chi? Come sopra, quando non una “comunità etica” appositamente autodefinitasi tale per regolamentare la convivenza tra “stranieri morali”. [cfr Engelhardt].

 

Difficile invocare la non umanità del concepito, nella tecnica del Parthial Birth Abortion (aborto per nascita parziale). Ma anche il metodo Karman (aspirazione) o l’avvelenamento da sali lasciano poco spazio all’immaginazione: e allora bisogna cercare un altro modo per giustificare!

 

APPENDICE

“Il genocidio censurato” è il titolo di un libro interessante di Antonio Socci, documentatissimo e impressionante, di cui si riporta qui il primo capitolo.

Il genocidio censurato di Antonio Socci – Piemme, 176 pagine, 10 euro

Primo capitolo

Tutta la violenza di un secolo. E’ quanto promette di contabilizzare il titolo di un libro di Marcello Flores che la Feltrinelli ha pubblicato nel 2005. Parla del Novecento appena concluso e somma tutte le vittime delle guerre, dei genocidi, dei totalitarismi, dei fondamentalismi e dei razzismi. Alla fine l’autore calcola che “le persone uccise in atti di violenza di massa siano state tra i cento e i centocinquanta milioni (qualcuno propone addirittura la cifra di duecento)”. Cifre “in ogni caso agghiaccianti” che, osserva Flores, “giustificano il fatto che il XX secolo sia stato considerato uno dei più violenti nella storia dell’umanità”. L’autore poi indica la Seconda guerra mondiale, “con i suoi cinquanta milioni di morti” come “l’evento più violento e distruttivo del XX secolo e forse della storia umana”.
Ma siamo sicuri di questa ricostruzione? A prima vista sembrerebbe obiettiva ed esauriente. Anche dal punto di vista politico, perché Flores somma, giustamente, i crimini commessi dai regimi comunisti e quelli nazifascisti: “I tre quarti almeno delle morti del XX secolo […] sono frutto della violenza di massa dei governi totalitari”.

Nessuno solleva obiezioni di fronte a questo quadro. A tutti sembra attendibile. E già questo dice quale gigantesca rimozione esista tuttora nelle nostre menti, nelle nostre coscienze, nel nostro sistema informativo e culturale, in tutta la nostra civiltà. Nessuno infatti penserebbe che da questo spaventoso computo sia rimasta fuori la più immane delle stragi, quella che da sola totalizza un numero di vittime enormemente superiore alla somma delle altre.
E non perché nessuno sia a conoscenza di tale “fatto”: anzi, tutti lo conoscono, è una soppressione di vite umane addirittura autorizzata e finanziata dagli stati. Ma questo fenomeno – nonostante le sue colossali dimensioni, il più vasto olocausto della storia umana – è totalmente e sistematicamente rimosso da tutta la società contemporanea: un miliardo di vittime. Ripeto: un miliardo di vite umane soppresse. Parlo dell’aborto.

Come si arriva a un computo così inaudito?
Sono certo che il lettore sospetterà trattarsi di un’esagerazione, di una cifra a effetto.
Non è così.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (dati del 1997) ogni anno sarebbero praticati 53 milioni di aborti, ovvero abbiamo annualmente un numero di vittime innocenti pari a quelle provocate dall’intera Seconda guerra mondiale (1939- 1945) che è considerata “l’evento più distruttivo della storia umana”. Da quanti anni si verifica questa ecatombe? Se si ricorda che da più di trent’anni l’aborto è stato introdotto nei paesi democratici, e molto prima è stato legalizzato dall’Unione Sovietica, dalla Germania nazista e poi dagli altri paesi dell’Est – cosa che dimostra come l’aborto sia uno dei frutti avvelenati delle ideologie totalitarie del Novecento – si supera facilmente il miliardo di vittime. […] Più di un miliardo di esseri umani indifesi soppressi è una tragedia umanitaria, storica, morale, sociale di cui stentiamo perfino a renderci conto, tanto siamo immersi nella rimozione collettiva. Sembrano davvero scritte per noi – come notò Luigi Lombardi Vallauri – le parole del “Temps retrouvé” di Marcel Proust: “Da tempo non si rendevano più conto di ciò che poteva avere di morale o di immorale la vita che conducevano, perché era quella del loro ambiente. La nostra epoca senza dubbio, per chi ne leggerà la storia tra duemila anni, sembrerà immergere certe coscienze tenere e pure in un ambiente vitale che apparirà allora come mostruosamente pernicioso e dove esse si trovavano a loro agio”.

E’ ciò che fa del nostro un tempo assolutamente tragico.
Si dirà che l’aborto era praticato anche nei secoli precedenti. Sì, ma non in dimensioni così gigantesche. Inoltre erano perpetrate anche altre crudeli pratiche (guerre, stupri, infanticidi, massacri di civili, sacrifici umani, schiavismo), ma a nessuno è venuto in mente di legalizzare quelle pratiche e renderle assistite e pagate dagli stati, così moltiplicando oltretutto il numero delle vittime mentre si sono moltiplicate al contempo le “armi” farmaco- tecnologiche di distruzione legale della vita innocente. Il fatto nuovo, l’assoluta novità storica, colta bene da Luigi Lombardi Vallauri, è questa: se la pratica dell’aborto è da tempo diffusa, l’abortismo come teoria, come ideologia, “sembra essere un fatto circoscritto alla civiltà occidentale moderna”.
Insomma è accaduto qualcosa di inedito e orribile, la nostra generazione credeva di essersi liberata dalle vecchie ideologie e senza accorgersene si è trovata immersa in una nuova (e ancor più mortifera) ideologia. Infatti l’aborto, nel XX secolo, è diventato addirittura un “diritto” rivendicato politicamente, giustificato filosoficamente e codificato nelle leggi. Questa è la novità, l’enorme e inquietante novità. Non volersene rendere conto significa non voler vedere. Perché c’è un’immane differenza fra il fenomeno individuale e nascosto dell’aborto dei tempi passati e l’organizzazione seriale da parte degli stati della soppressione di centinaia di milioni di vite umane innocenti con potenti strutture tecnologiche e un apparato ideologico e mediatico che pretende di rivendicare quello sterminio addirittura come uno dei fondamentali “diritti dell’uomo”.
Una cosa simile non si era mai vista prima.
Del resto non solo l’aborto è, oggi, un “diritto” garantito dalle leggi, ma in certi paesi è addirittura obbligatorio. Per legge.
In Cina dai primi anni Ottanta è entrato in vigore il programma di controllo delle nascite che impone il limite di un solo figlio per famiglia. “Chi viola queste regole” scrive Bernardo Cervellera “rischia multe salatissime, aborto forzato, infanticidio, distruzione della casa o requisizione dei beni”.

Gli effetti sono stati giganteschi: “Lo Stato si vanta dei successi raggiunti: 300 milioni di nascite in meno in 21 anni”. Trecento milioni. E quando improvvisamente un bambino “non permesso” riesce a scampare all’aborto e a nascere, le contromisure sono quelle raccontate dal Times di Londra il 24 agosto 2000. Un flash di vita cinese a Caidian (Hubei): “Alla donna ancora incinta, di nome Liu, gli impiegati dell’Ufficio per il controllo della popolazione avevano intimato di abortire. La donna aveva già violato altre volte la politica del figlio unico (era incinta per la quarta volta). I medici della clinica a cui la donna era stata costretta a ricorrere hanno iniettato una soluzione salina nel feto per distruggere il sistema nervoso del nascituro. Ma il bambino è nato sano. I funzionari governativi hanno ordinato al padre di ucciderlo, ma questi si è rifiutato. Essi hanno atteso il ritorno a casa della famiglia e, preso il piccolo, lo hanno affogato”. Che atteggiamento hanno assunto le Nazioni Unite e la loro agenzia per la questione demografica, l’ Unfpa (United Nations Fund for Population Activities) di fronte alla ferocia di questo genocidio?
Se i fatti (e soprattutto i misfatti) cinesi erano tristemente noti, “meno noto” osserva Eugenia Roccella “è quanto l’Unfpa sia stata complice di questa spaventosa politica demografica. Nel 1978 l’agenzia delle Nazioni Unite aveva firmato un memorandum d’intesa con la Cina. Una firma di questo tipo implica la condivisione di obiettivi di fondo e il convolgimento in forme di cooperazione. L’Unfpa ha infatti fortemente contribuito a finanziare la politica coercitiva cinese, le ha garantito supporti tecnici e ha collaborato fornendo le proprie competenze, per esempio nell’organizzazione e nell’analisi dei dati. Ma, peggio di tutto, non ha mai denunciato i responsabili di questa gigantesca violazione dei diritti umani, anzi li ha coperti fin quando è stato possibile”.

Le dichiarazioni – addirittura di elogio – che sono state fatte da certe autorità internazionali in proposito sono agghiaccianti. E “bisogna anche ammettere” aggiunge la Roccella “che tutto ciò è avvenuto con la confortante complicità dell’Onu, che nel 1983 decide di assegnare il premio per la popolazione a Qian Xinzhong, ministro per la Pianificazione familiare. Il segretario dell’Onu, Perez de Cuellar, alla consegna del premio esprime il suo apprezzamento per la capacità dimostrata dai cinesi di organizzare politiche di controllo della fertilità “su larga scala”. E bisogna anche registrare l’appoggio di alcuni ambientalisti, per esempio David Bellamy che nell’introduzione a “The Gaia’s Atlas of Planet management”, scrive che i cinesi “sono consapevoli dei limiti del loro ambiente e hanno usato tale consapevolezza per pianificare una misura sostenibile della popolazione”. Oppure del Wwf che ritiene la Cina un esempio per la capacità di “persuasione” nel “cambiare l’atteggiamento verso la gravidanza”.
A proposito dell’Unfpa, il presidente americano George Bush – come già fece Ronald Reagan – ha posto il veto al finanziamento di quelle organizzazioni internazionali che appoggino in qualsiasi modo le pratiche abortive. In sostanza la suddetta agenzia Onu per la popolazione si è vista privare di ben 34 milioni di dollari l’anno. La meritoria scelta umanitaria della Casa Bianca ha però scandalizzato il vasto e potente mondo dell’ideologia abortista.
Così l’Europa – stiamo parlando, sottolineo, dell’ “era Prodi”, del “cattolico” Prodi – si è precipitata a soccorrere quelle organizzazioni con i nostri soldi e lo ha fatto, nientemeno, in nome della “decenza”, cosa che conferma il connotato comico degli attuali costosissimi carrozzoni europei. “La Commissione europea” spiega infatti Lucetta Scaraffia “ha deciso di colmare con i propri fondi questo “vuoto di decenza”, come l’ha definito il commissario danese Paul Nielson, stanziando 32 milioni di euro, di cui 22 a favore dell’Unfpa e 10 per l’Ippf. Quest’ultima è un’organizzazione assai controversa, con una forte impronta antinatalista e legami iniziali con i movimenti eugenetici”.
La Scaraffia segnala una “correzione di rotta” di tale organizzazione rispetto alle origini, ma con una certa continuità dal momento che, nei nostri anni, è andata “sostenendo, per esempio, per bocca dei suoi autorevoli rappresentanti, la politica forzosa del figlio unico in Cina, e ammettendo l’aborto come mezzo di controllo delle nascite”. Politica cinese che – lo abbiamo visto – per quanto si nasconda dietro gli eufemismi e dietro la complicità internazionale, resta sostanzialmente criminale e genocida. E purtroppo continua.
Nel 2002 il Parlamento cinese ha deciso di aggiornare la politica familiare applicando gli orientamenti politici che vanno per la maggiore oggi in quel paese vastamente corrotto, ovvero l’ossessiva corsa ai soldi e il lucro a ogni costo. Si è sostituita la proibizione di fare altri bambini (oltre al primo) con la possibilità di farne pagando multe salatissime: dai 25.000 ai 100.000 euro. Le cifre corrispondono a molte volte il reddito annuale medio di un qualunque abitante della Cina profonda che dunque non potrà mai permettersi un secondo figlio.

Così al dispotismo assassino si è aggiunta una forte pennellata di cinismo razzista (solo i ricchi possono far figli) e di vorace latrocinio: chi vuole un figlio deve arricchire il regime e la casta al potere. E’ difficile intravedere in ciò un “miglioramento”. Anche perché – secondo il reportage che Hannah Beech ha pubblicato su Time il 19 settembre 2005 – le cose non sono affatto cambiate. Riportando le denunce degli attivisti per i diritti umani, la Beech scrive che “durante un meeting provinciale lo scorso anno, i funzionari di Linyi sono stati puniti per avere il più alto tasso di ‘extranascite’ di tutto lo Shandong […]. Le strigliate hanno stimolato quella che sembra la più brutale campagna di sterilizzazione di massa e aborti da anni. A partire da marzo, i funzionari del piano familiare hanno setacciato i villaggi di nove contee e tre distretti di Linyi, tentando di costringere ad abortire le donne incinte di bambini illegali, e sterilizzare quelle che già raggiungevano il numero massimo di bambini permesso dalla locale politica familiare”.

Il reportage fornisce anche altri agghiaccianti dettagli: “Parenti di donne che si sono opposte alla sterilizzazione o all’aborto sono stati imprigionati e obbligati a pagare per delle “sessioni di studio” durante le quali dovevano ammettere il loro “errato modo di pensare”, racconta Teng Biao, un educatore dell’Università di Scienze Politiche e Legge a Pechino, che ha visitato Linyi per investigare sulla campagna coercitiva. Solamente nella contea Yinan di Linyi, fra marzo e luglio, almeno settemila persone sono state costrette a sottoporsi al programma di sterilizzazione, secondo gli avvocati che hanno parlato con i locali funzionari”. I pochi temerari attivisti per i diritti umani, pur riuscendo a far filtrare alcune di queste notizie, tuttavia, scrive la Beech, possono fare “ben poco per cambiare il destino di donne come Hu Bingmei. Quando a maggio i funzionari per il piano familiare arrivarono per prenderla per la sterilizzazione forzata, Hu fuggì con le sue due figlie dai suoi parenti in un altro villaggio. Giorni più tardi, sette funzionari sbucarono fuori, racconta, afferrarono la figlia più piccola e la spinsero dentro una macchina. Spaventata per il fatto che sua figlia potesse essere rapita, Hu saltò in macchina con loro. La macchina li portò alla clinica del piano familiare, dove, racconta Hu, delle assistenti la gettarono sul tavolo operatorio”. E’ solo una storia fra tante. E va sottolineato instancabilmente che sono soprattutto le donne a far le spese di questa violenta politica anche per un altro terrificante aspetto. Infatti nel 1997 l’Organizzazione mondiale della sanità ha scoperto che in Cina dal 1980 “mancavano” all’appello circa 50 milioni di bambine rispetto ai maschi: si è riscontrata cioè una sproporzione nel paese fra maschi e femmine che – dicono le statistiche ufficiali – sono oggi in rapporto di circa 120 contro 100 quando dovrebbe essere l’inverso. Analoga sproporzione – di circa 60 milioni di bambine – è stata registrata in India dove per motivi culturali ed economico- sociali si ritiene meglio avere figli maschi e così si sopprimono le figlie durante la gravidanza. Ciò significa che nell’immane genocidio rappresentato dall’aborto ci sono tragedie ulteriori dentro alla tragedia comune. Come ha scritto sul Monde il demografo ed economista Jean-Claude Chesnais “non è escluso che il deficit di donne raggiunga i 200 milioni nel 2025 sul pianeta”. Tuttavia appare incomprensibile scandalizzarsi dell’aborto selettivo contro le femmine, come qualcuno ha fatto in Italia, senza scandalizzarsi anche dell’aborto in sé (se l’aborto non uccide una persona umana, non uccide neanche una persona di genere femminile). E poi la “società eugenista”, di cui giustamente Chesnais parla come di una terribile realtà, è anche la nostra. Le ragioni ritenute accettabili per sopprimere figli già concepiti possono essere diverse. E quando si accetta che vaghi motivi sociali o psicologici bastino, nelle legislazioni occidentali, per giustificare e praticare l’aborto clinicamente assistito (sopprimendo indifferentemente bambini o bambine), non si vede a che titolo si possano condannare le motivazioni (anch’esse di ordine sociale) che spingono in India a sopprimere selettivamente le femmine. A meno che non si ritenga – con un certo senso di superiorità occidentale – che le “loro” motivazioni sociali siano immorali e siano invece morali le nostre (idea difficilmente sostenibile essendo evidente che in India le difficoltà dovute a cause di povertà sono assai più grandi). Dunque condividiamo tutti l’orrore per questa strage di bambine, ma dobbiamo condividere anche lo scandalo dell’aborto in sé. Alla cifra già vertiginosa di un miliardo di vittime dell’aborto nel corso del Novecento (soprattutto degli ultimi decenni del Novecento) dovrebbero essere aggiunte molte altre vite umane soppresse dalle varie “pillole del giorno dopo” e da sistemi di contraccezione (in realtà abortivi perché impediscono l’annidamento) come la spirale (solo in Francia sono circa due milioni e mezzo le donne che la usano) o da altre pratiche come quella denominata “menstrual regulation”. La dottoressa Thérèse Gillaizeau Amiot calcola che ai 53 milioni di aborti praticati ogni anno nel mondo si debbano sommare circa 4 milioni di aborti “farmaceutici” (pillole del giorno dopo) e addirittura 460 milioni di aborti dovuti all’uso della spirale. I farmaci o i dispositivi antinidatori – secondo alcuni – non sarebbero abortivi, ma al 14° giorno l’embrione, la nuova creatura, c’è già e quei sistemi – impedendone l’annidamento – ne ottengono la morte e l’espulsione. Si tratta dunque di abortivi. A tutte le piccole vite soppresse con questi sistemi poi si aggiunge l’immenso numero di embrioni “prodotti” per la fecondazione artificiale e – in un modo o nell’altro – soppressi. Immenso quanto? Si calcola che solo per far nascere, per esempio, 20 bambini occorra “produrre” circa 1.800 embrioni di cui dunque 1.780 destinati alla morte. Se è vero che “oggi i nati con la procreazione medicalmente assistita nel mondo sono ormai circa un milione”, per calcolare la moltitudine di “fratelli” che sono stati “sacrificati” dovremmo orientarci all’incirca sui 90 milioni di “embrioni” (e tutto questo è accaduto solo negli ultimi venti anni). Come si vede si tratta di numeri stratosferici, sconvolgenti, che portano ben sopra quella cifra (un miliardo di vite umane soppresse) fornita all’inizio e che pur sembrava assolutamente esagerata e abnorme.

Si può restare indifferenti a una simile ecatombe che non ha eguali nella storia dell’umanità? Una cifra così immane interroga tutti, a prescindere dalla propria posizione sull’aborto e, in Italia, sulla legge 194. Cosa sta accadendo? Cosa stiamo facendo?
Non staremo vivendo oltre il limite dell’orrore?
Non saremo così anestetizzati da non riuscire più ad accorgerci della mostruosità del nostro tempo e del nostro mondo?
E’ la dimensione vertiginosa di un genocidio senza eguali nella storia che ci interroga: non solo un disastro umanitario (e demografico) agghiacciante, ma un abisso morale di cui si stenta a rendersi conto.

Anche perché – questo è il paradosso – alle vittime di questa “pratica” viene negato perfino lo statuto di vittima. Semplicemente non esistono. Non debbono esistere. Nemmeno nelle statistiche. Si fanno i conti delle vittime dei totalitarismi, di coloro che sono morti per Aids e perfino per le conseguenze del fumo, ma sui giornali non leggerete le cifre che abbiamo appena visto. Nemmeno sui volumi che si presentano come “Storia dell’aborto”. Anzi, l’interdetto grava perfino sullo stesso termine “aborto”. Un’oculata e invisibile censura, ne ha disposto la sparizione.

La “neolingua”, che Orwell indicava come strumento di dominio di un potere nemico della verità, vuole che la legge italiana che legalizza l’aborto chiami questa pratica “Interruzione volontaria di gravidanza” (Ivg). E dappertutto ha attecchito questa grande ipocrisia. […]

Evidentemente questa volontà di mistificare attraverso il linguaggio documenta un imbarazzo assai rivelatore o comunque una volontà di nascondere quella che è la verità delle vittime, ossia – girardianamente – la verità tout court. Necessariamente rimossa secondo i meccanismi svelati appunto dall’opera di René Girard (Il capro espiatorio, Adelphi, 1999). Si ha letteralmente terrore di guardare in faccia la vittima, di riconoscerne l’esistenza. Ci sono esempi clamorosi. Giuridici e perfino fotografici.

 

 


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