Destino e Speranza dell’Uomo nella Società senza Dio

Traccia della Lezione inaugurale tenuta il 27 settembre 2008

avv. Giovanni Formicola

 

1. La Città senza Dio.

“La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto” (Benedetto XVI, Discorso al mondo della cultura riunito al Collège des Bernardins, Parigi 12-9-08).

2. Senza Dio, dunque contro l’Uomo.

“Un mondo senza Dio si costruisce, presto o tardi, contro l’uomo” (Giovanni Paolo II [1978-2005], Messaggio ai giovani di Francia, Parigi, 1-6-80). Cfr. anche: “Il tentativo di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’ uomo” (Joseph Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, p. 62). La tesi viene successivamente così articolata e argomentata, questa volta con l’autorità pontificia: “Chi esclude Dio dal suo orizzonte falsifica il concetto di “realtà” e, in conseguenza, può finire solo in strade sbagliate e con ricette distruttive. La prima affermazione fondamentale è, dunque, la seguente: Solo chi ri-conosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano. La verità di questa tesi risulta evidente davanti al fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi”(Benedetto XVI, Discorso all’inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida 13-5-07, in Supplemento a “L’Osservatore Romano” del 2 giugno 2007, p. 9). In questi pronunciamenti si sente l’eco di De Lubac: “Non è poi vero, come pare si voglia dire qualche volta, che l’uomo sia incapace di organizzare la terra senza Dio. Ma ciò che è vero è che, senza Dio, egli non può, alla fine dei conti, che organizzarla contro l’uomo”(Henry De Lubac [1896-1991], Il dramma dell’umanesimo ateo [Prima edizione Paris 1945], Morcelliana, Brescia 1988, p. 9). Infatti, se l’uomo è immagine di Dio, abbandonando Dio e quindi non somigliandogli più, egli perde anche se stesso.

3. Ateismo come Principio (Ateismo dogmatico).

L’uomo materia prima di un esperimento sociale.

4. Ateismo come Risultato (Ateismo pratico).

4.1. Il Laicismo: etsi Deus non daretur.

“La laicità, nata come indicazione della condizione del semplice fedele cristiano [da laikòs, “membro del laos cioè del “popolo di Dio”, termine usato per la prima volta da S. Clemente Romano (papa, 88-97), terzo successore di Pietro dopo Lino e Anacleto, nella sua Lettera ai Corinti, scritta probabilmente negli ultimissimi anni del I sec.], non appartenente né al clero né allo stato religioso, durante il Medioevo ha rivestito il significato di opposizione tra i poteri civili e le gerarchie ecclesiastiche, e nei tempi moderni ha assunto quello di esclusione della religione e dei suoi simboli dalla vita pubblica mediante il loro confinamento nell’ambito del privato e della coscienza individuale. […].

[…] non è certo espressione di laicità, ma sua degenerazione in laicismo, l’ostilità a ogni forma di rilevanza politica e culturale della religione; alla presenza, in particolare, di ogni simbolo religioso nelle istituzioni pubbliche. Come pure non è segno di sana laicità (1) il rifiuto alla comunità cristiana, e a coloro che legittimamente la rappresentano, del diritto di pronunziarsi sui problemi morali che oggi interpellano la coscienza di tutti gli esseri umani, in particolare dei legislatori e dei giuristi. Non si tratta, infatti, di indebita ingerenza della Chiesa nell’attività legislativa, propria ed esclusiva dello Stato, ma dell’affermazione e della difesa dei grandi valori che danno senso alla vita della persona e ne salvaguardano la dignità. Questi valori, prima di essere cristiani, sono umani, tali perciò da non lasciare indifferente e silenziosa la Chiesa, la quale ha il dovere di proclamare con fermezza la verità sull’uomo e sul suo destino” (B. XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno Nazionale promosso dall’UGCI, del 9-12-06).

* * *

Una digressione sul tema delle “ingerenze ecclesiastiche”:

Il Racconto dei due Vescovi, da Render Unto Caesar. Serving the Nation by Living Our Catholic Beliefs in Political Life, pp. 55-58, di Charles J. Chaput, arcivescovo di Denver.

L’arcivescovo Joseph Rummel servì il popolo cattolico di New Orleans dal 1935 fino alla sua morte nel 1964. A partire dagli anni Cinquanta affrontò un problema di gravità crescente. L’arcidiocesi di New Orleans aveva la più numerosa popolazione cattolica del profondo Sud e molte migliaia di cattolici neri. Aveva anche scuole segregate per razza. Rummel e i vescovi che l’avevano preceduto avevano sempre assicurato agli studenti neri l’accesso alle scuole cattoliche. […].

Nel 1953, un anno prima che la corte suprema bandisse la segregazione nelle scuole pubbliche, emise la prima di due forti lettere pastorali: Beati i costruttori di pace. I parroci la lessero ai loro fedeli in tutte le messe di una domenica. In essa, Rummel condannava la segregazione razziale. […]

All’inizio del 1962, Rummel disse che l’anno seguente le scuole cattoliche sarebbero state integrate. Numerosi politici cattolici organizzarono pubbliche proteste e campagne di lettere. Minacciarono di boicottare le scuole cattoliche. Il 16 aprile del 1962 Rummel scomunicò tre cattolici di spicco – un giudice, un commentatore politico e un organizzatore di campagne – per aver sfidato pubblicamente l’insegnamento della loro Chiesa.

Gli avvenimenti di New Orleans divennero notizie nazionali, coperte dalla rivista Time e dal New York Times. La direzione del Times scrisse in un editoriale che “uomini di tutte le fedi dovrebbero ammirare l’incrollabile coraggio” di Rummel, poiché egli “ha dato un esempio fondato su principi religiosi e al passo con la coscienza sociale del nostro tempo”.

Nel 2004, un altro arcivescovo, Raymond Burke di Saint Louis, ha conquistato i titoli nazionali. Nelle sue ultime settimane come vescovo di La Crosse, nel Wisconsin, egli chiese a tre cattolici di spicco sulla scena pubblica di evitare di presentarsi alla comunione. Egli chiese inoltre ai suoi preti di non dare la comunione ai cattolici con responsabilità pubbliche che sostenessero il diritto all’aborto. […].

L’azione di Burke, benché più moderata di quella di Rummel, gli procurò un bel po’ di nemici, anche tra quelli che si considerano cattolici. A differenza di Rummel, Burke non ricevette alcun plauso dal New York Times. Ebbe piuttosto un trattamento opposto da parte dei media. Ma al pari di Rummel egli non aveva preso contatto col Times per ottenerne l’approvazione. Ciò che il Times pensava non gli importava affatto. Ciò in cui la Chiesa crede, sì.

La morale della nostra storia è la seguente. Primo, quando dei cattolici prendono sul serio la loro Chiesa e agiscono nel mondo sulla base del suo insegnamento, c’è qualcuno – e qualcuno di potente – che non lo gradisce. Secondo, nella recente politica americana, la linea che divide la “testimonianza profetica” dal “violare la separazione tra Chiesa e Stato” dipende di solito da chi traccia la linea, da chi si sente colpito e da qual è la materia in questione. La linea si sposta a seconda delle convenienze. Ma i cattolici, nel cercare di vivere la loro fede, non possono seguire le convenienze.

* * *

Il risultato politico del laicismo: Cesare diventa sovrano assoluto, contro la sana dottrina che insegna, invece, che “Cesare non è tutto. Emerge un’altra sovranità, […] quella della Verità, che vanta anche nei confronti dello Stato il diritto di essere ascoltata” (B. XVI, Discorso all’Udienza generale del 7-3-07). E se “Cesare è tutto”, ogni diritto dell’uomo non gli appartiene per natura ma è creato dal legislatore, la sua stessa vita è in balia del potere. Tutto è “concesso”, niente è propriamente esigibile. Destino dell’uomo è dunque la perdita di ogni protezione nei confronti del sovrano, anche se questo è il popolo stesso. La democrazia, cioè, è quella dell’apologo statunitense della pecora e dei due lupi che votano su cosa mangiare per cena.

Insomma, poiché “oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici”, allora […], bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l’azione politica, […] le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia”(Centesimus Annus, n. 46). In altri termini, “è il rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità” (Veritatis Splendor, n. 101).

4.2. Relativismo, Nichilismo, Libertarismo, Scientismo.

“”Nulla forse distingue tanto radicalmente le masse moderne da quelle dei secoli passati quanto la perdita della fede nel giudizio finale: i peggiori hanno perduto la paura e i migliori la loro speranza. Incapaci come sono di vivere senza paura e speranza, queste masse sono attratte da ogni sforzo che sembri promettere una fabbricazione artificiale del paradiso che desideravano e dell’inferno che temevano. Proprio come la rappresentazione popolarizzata della società senza classi di Marx ha una strana somiglianza con l’età messianica, la realtà dei campi di sterminio somiglia come nessun’altra cosa alle pitture medievali dell’inferno”” (Hannah Arendt [1906-1975], Le origini del totalitarismo, cit. in Eric Voegelin [1901-1985], Recensione, in Idem, Anni di guerra. Per una comprensione dei conflitti nel sec. XX, a cura di Gian Franco Lami, Rubbettino, Soveria Mannelli [CZ], 2001, p. 167).

“La malattia spirituale è l’agnosticismo delle masse moderne, e i paradisi o gli inferni artificiali sono i suoi sintomi, ma le masse soffrono della malattia sia che si trovino nel loro paradiso che nel loro inferno” (E. Voegelin, Ibid.).

“Le origini del totalitarismo non andrebbero […] viste principalmente nel destino dello Stato nazionale e nei conseguenti cambiamenti sociali ed economici iniziati nel XVIII secolo, ma piuttosto nell’ascesa del settarismo immanentista dall’alto Medioevo in poi, e i movimenti totalitari non sarebbero semplicemente dei movimenti rivoluzionari di persone dislocate funzionalmente, ma dei movimenti fondati su un credo immanentista, nei quali le eresie medievali sono giunte alla loro fruizione. […]

 

[…] “ciò a cui mirano le ideologie totalitarie non è la trasformazione del mondo esterno e la trasmutazione della società, ma la trasformazione della stessa natura umana” [H. Arendt, op. cit.].

 

“Questa […] è l’essenza del totalitarismo come movimento basato su un credo immanentista. I movimenti totalitari non si propongono di porre un rimedio ai mali sociali mediante i cambiamenti industriali, ma vogliono creare un millennio nel senso escatologico mediante la trasformazione della natura umana. La fede cristiana nella perfezione trascendente raggiungibile con la grazia divina è stata convertita – e pervertita – nell’idea della perfezione immanente ottenibile con un atto umano” (Ibid., p. 168).

Ma,

“Una “natura” non può essere cambiata o trasformata; un “cambiamento della natura” è una contraddizione in termini; il cercare di alterare la “natura” di una cosa significa distruggere la cosa. Il concepire l’idea di “cambiare la natura” del-l’uomo (o di qualsiasi cosa) è un sintomo del collasso della civiltà occidentale. […]

 

[cfr. “La natura di una cosa non può essere cambiata; chiunque tenta di “alterarla” distrugge la cosa. L’uomo non può trasformarsi in un superuomo; il tentativo di creare un superuomo è un tentativo di assassinare l’uomo. Storicamente, all’assas-sinio di Dio non tiene dietro il superuomo ma l’assassinio dell’uomo: al deicidio dei teorici gnostici tiene dietro l’omicidio dei professionisti della rivoluzione” (Idem, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, Rusconi, Milano 1976, p. 125)]

 

“E questo atteggiamento è infatti di generale importanza perché rivela quanto terreno hanno in comune i liberali e i totalitari: l’immanentismo essenziale che li unisce supera alquanto le differenze di carattere che li dividono. La vera linea divisoria della crisi contemporanea non corre fra liberali e totalitari, ma fra i trascendentalisti religiosi e filosofici da un lato e i settari immanentisti liberali e totalitari dall’ altro” (Ibidem, p. 169).

In questa prospettiva, “immanentista” siccome “emancipatrice”,

“I filosofi della Grecia, i profeti di Israele, il Cristo, per non parlare dei Padri della Chiesa e della Scolastica, sono ormai superati, perché l’uomo è “diventato maggiorenne”, e ciò significa

 

“”che da oggi in poi l’uomo è il solo creatore possibile delle proprie leggi e il solo costruttore possibile della propria storia” [H. Arendt, op. cit.].

 

“Questo raggiungimento della maggiore età non può non essere accettato; l’ uomo è il nuovo legislatore, e sulle tavole cancellate del passato egli scriverà le “nuove scoperte della morale” che Burke ha giudicato ancora impossibili.

“Ciò suona come un incubo nichilistico” (Ibid., p. 170).

E se la “nuova legge” è quella della liberazione degli istinti, legando la felicità alla fine delle proibizioni, non si può ignorare che non tutti gl’istinti sono buoni e che le passioni sono spesso distruttive. D’altra parte, se in un universo senza senso l’unica cosa da fare è soddisfarsi, intensificare la vita, allora ogni uomo non è altro che mezzo o ostacolo. Ogni uomo, anche chi sta trattando l’altro da mezzo o da ostacolo.

Lo scientismo, poi, riduce l’uomo ai minimi termini (sebbene “fortunato”: “Ebbene sì, siamo una specie molto, ma molto fortunata. Capita nella storia” [Aldo Schiavone, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007, p. 35], con riferimento alla casualità dell’esito “umano” e autocosciente del processo evolutivo): dal punto di vista evoluzionistico (l’unico “scientificamente accettabile” in una prospettiva antimetafisica e positivista, cioè, appunto, scientista), “non è detto che il passaggio dai batteri all’uomo sia stato un progresso, vi sono elementi in tal senso, ma anche altri in senso contrario (i batteri, per esempio, sono molto più resistenti di noi)” (Vito Mancuso, La nostra sacra libertà di morire, in Il Foglio quotidiano, Milano 24-8-08); più precisamente, “la vita degli organismi metazoici negli oceani della Terra ormai raffreddata, qualche miliardo di anni fa, non è “migliore” o “peggiore” di quella nella New York del 2007: è semplicemente diversa” (A. Schiavone, op. cit., Einaudi, Torino 2007, p. 30).

Da figlio di Dio a pronipote di un’ameba. Con quanto vantaggio per la propria autostima, è facile immaginarlo.

5. Disperazione e false Speranze.

“Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero “senza speranza e senza Dio nel mondo” (Ef. 2,12) (B. XVI, Spe salvi, n. 2).

Il professore “Bianco”, nell’opera di Cormac McCarthy Sunset Limited (Einaudi, Torino 2008), idolatra del “sapere”, è l’incarnazione coerente, tipica, quasi eroica, di tale condizione, che lo conduce non solo al suicidio, ma a una vera e propria forma di anti-speranza: “Io anelo all’oscurità. Io prego che arrivi la morte. La morte vera. Se pensassi che da morto incontrerei le persone che ho conosciuto in vita, non so cosa farei. Sarebbe la cosa più orrenda. Il colmo della disperazione. Se dovessi rincontrare mia madre e ricominciare tutto daccapo, ma stavolta senza la prospettiva della morte a consolarmi… Be’, quello sarebbe l’incubo finale, Kafka coi controfiocchi” (p. 113). “Adesso mi resta solo la speranza del nulla” (p. 118).

In questo abisso nichilista – dalla tragica coerenza – si precipita non per quello in cui non si crede, ma per quello in cui si crede (p. 78): quando, cioè, si crede che non vi sia nulla in cui credere. Nulla oltre la propria scienza, la cui parola finale è inutilità di tutto. Una fede nel nulla, che è l’assoluto della postmodernità, la sua “religione”, quella che il Bianco cerca mentre la pratica: “Mi mostri una religione che prepari l’uomo alla morte. Al nulla. Quella sarebbe una chiesa in cui potrei entrare” (p. 114).

E come lui sono i tanti, troppi, sempre di più, che sfogano tale disperazione esistenziale nelle droghe, nell’alcol, nelle mille forme di autodistruzione.

Poi vi sono i dispensatori delle false speranze, non tanto quelle banalmente edonistiche, quanto quelle, sempre intramondane, ma nuovamente – in quanto post-ideologiche – escatologiche. Si tratta della prospettiva di andare oltre la specie, di superare i vincoli della natura, accelerando e orientando – grazie ai suoi esiti più preziosi, la scienza e la tecnica, in particolare le biotecnologie, che ne prendono il posto (“la pressione evolutiva ha finito col selezionare una cultura capace di sostituirsi con la propria tecnica alla stessa selezione naturale che l’aveva prodotta” [A. Schiavone, op. cit., p. 70]) – l’evoluzione, fino a che “la generazione cui appartengo e quella dei suoi figli saranno fra le ultime a fare i conti con la morte”; fino a che “il prolungamento della vita renderà le nascite sempre meno frequenti e casuali, legate ad accurate programmazioni” (Ibid., pp. 74-75). Si prospetterebbero uomini finalmente emancipati da sofferenze e deficienze, “non […] più definiti dai […] limiti naturali, ma dal fatto di averli aboliti” (Ibid., p. 69), per i quali “anche la diversità di genere – il femminile e il maschile – avrà sempre minore rilevanza” (Ibid., p. 76). Uomini non più materia prima di un esperimento sociale, ma di un esperimento genetico.

Per questo si chiede addirittura la benedizione della Chiesa, perché un Dio d’amore non può comandare di tenere l’uomo in scacco, in stato di minorità e d’inferiorità a causa delle sue debolezze, delle sue insufficienze, della sua vulnerabilità, non può impedirgli di diventare finalmente adulto (Ibid., pp. 65-67). E perché in fondo si tratta di capire che “somigliare a Dio non sarebbe insomma per l’uomo la condizione di partenza (questo ci farebbe ricadere in un creazionismo del tutto implausibile), ma la stazione d’arrivo, da un certo momento in poi da noi stessi voluta e guadagnata: ciò che potremmo chiamare – se ci muovessimo su questo piano – non più laicamente il nostro destino, ma religiosamente la nostra prospettiva escatologica” (ibid., p. 95). “Vale a dire – possiamo ora aggiungere – che è nella potenzialità dell’uomo non “essere”, ma “poter diventare”, simile a Dio” (Ibid., p. 96). Insomma, non è nuovissima: “Eritis sicut dii” (Gen., 3, 4-5).

Dio non è “Colui che è”, ma “colui che (l’uomo) sarà”. Il futuro si sostituisce all’eterno.

Ma oltre a essere dubbio che tutto ciò sia sperabile – ovvero realizzabile, perchè la speranza non può essere tematicamente vana, non può essere utopica, e l’utopia è appunto la vana speranza, corruzione ideologica della speranza, non tanto per il “cosa”, ma per il “come”: senza sforzo e “di qua” – vien fatto di chiedersi se sia sperandum, magari contra spem. Conoscendo l’uomo appena appena, c’è davvero da temere se prendesse il posto di Dio!

6. La Speranza.

Se molte sono le cose sperate, una sola è la speranza, perduta la quale si è propriamente “disperati” (Ef., 2, 12). E questa è la Speranza teologale, con la “S” maiuscola.

Ma c’è spazio anche per una speranza umana? Allo stato questa può essere riassunta nella formula utilizzata dall’allora card. Ratzinger nel già citato discorso di Subiaco: ordinare la città – a partire dalla propria coscienza, perché l’ordine della storia dipende dall’ordine della coscienza – almeno veluti si Deus daretur. Infatti, di nuovo e in conclusione, “senza Dio l’uomo è perduto e […] l’esclusione della religione dalla vita sociale, in particolare la marginalizzazione del cristianesimo, mina le basi stesse della convivenza umana” (B. XVI, Discorso all’UGCI, del 9-12-06, cit.).

Nota:

Cfr. […] appare legittima e proficua una sana laicità dello Stato, in virtù della quale le realtà temporali si reggono secondo norme loro proprie, alle quali appartengono anche quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo. Tra queste istanze, primaria rilevanza ha sicuramente quel “senso religioso” in cui si esprime l’apertura dell’essere umano alla Trascendenza. Anche a questa fondamentale dimensione dell’animo umano uno Stato sanamente laico dovrà logicamente riconoscere spazio nella sua legislazione. Si tratta, in realtà, di una “laicità positiva”, che garantisca ad ogni cittadino il diritto di vivere la propria fede religiosa con autentica libertà anche in ambito pubblico” (B. XVI, Lettera al presidente del Senato Marcello Pera in occasione del convegno di Norcia “Libertà e laicità”, 15-10-05).

 

 


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