Eutanasia e living will

Lezione tenuta il 25 gennaio 2007

dott. Chiara Mantovani

S. Agostino:
Diversa ergo intentio diversa facta fecit.
Diversa l’intenzione, diversi i fatti.
(In Io. Ep. tr. 7, 7)

Medicina vitia persequitur, non naturam.
La medicina combatte i mali, non la natura.
(Serm. 182, 3, 3)

 

Una definizione completa e precisa — abitualmente citata anche da autori che non ne condividono le valutazioni etiche concomitanti — si trova nella Dichiarazione sull’eutanasia “Iura et bona”, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980, al n. 6: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”. […]

Definizione ripresa quasi letteralmente da Giovanni Paolo II: “Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. “L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”” (Evangelium Vitae, 65).

Benché il Parlamento inglese avesse discusso già nel 1936 una proposta di legalizzazione dell’eutanasia, e con l’eccezione della legislazione nazionalsocialista, fino a un periodo molto recente essa non ha avuto posto nella legislazione come fattispecie a sé: la pratica eutanasica viene ricondotta, a volta a volta, ad altre fattispecie esistenti; in Italia, per esempio, essa configura i reati di omicidio del consenziente, previsto dal codice penale all’articolo 579, e di istigazione o aiuto al suicidio, di cui all’articolo 580.

In questo contesto giuridico si situano, con effetti non ancora pienamente prevedibili, sia la depenalizzazione dell’eutanasia nel Regno dei Paesi Bassi nel 1994, sia la sua legalizzazione nel Territorio del Nord della Federazione Australiana nel 1995.

Nel Regno dei Paesi Bassi la depenalizzazione dell’eutanasia è stata introdotta con una modifica all’articolo 10 del Regolamento di polizia mortuaria; esso ha stabilito, a partire dal giugno del 1994, la non punibilità dei medici che abbiano aiutato a morire i propri pazienti ma siano in grado di dimostrare di aver rispettato una serie di condizioni.[…] … per depenalizzare l’eutanasia il legislatore olandese ha fatto ricorso all’articolo 40 del medesimo codice, che prevede la scriminante della forza maggiore. La richiesta del paziente viene allora considerata come una “forza maggiore”, che rende non perseguibile il medico che pratica l’eutanasia. Tale posizione introduce nell’ordinamento giuridico, a ben vedere, una discriminazione decisa fra vita sana — che il medico ha l’obbligo di tutelare — e vita malata, la cui tutela non è più obbligatoria.

Nel Territorio del Nord della Federazione Australiana a partire dal giugno del 1995 è entrata in vigore la “Legge dei diritti del malato terminale”, che legalizza l’eutanasia. Questa legge legittima la possibilità per il paziente cosciente e maggiorenne di richiedere l’eutanasia nell’ipotesi in cui sia affetto da una malattia inguaribile e le sofferenze siano talmente forti che nessuna terapia sia in grado di alleviarle. A differenza della normativa olandese, quella australiana viene ad affermare l’esistenza di un “diritto alla morte”, dal momento che l’eutanasia vi è considerata come un trattamento medico posto a tutela della persona, accettando così che anche altre persone, nel caso in cui il paziente sia incapace, possano firmare, in rappresentanza del malato e alla presenza dei testimoni, una richiesta di eutanasia. Tale normativa non prevede inoltre alcuna pena specifica per i medici che effettuino l’eutanasia in mancanza dei requisiti previsti.

La condizione per ammettere la liceità — e la legalità — dell’eutanasia è l’affermazione di un diritto onnipotente e irresponsabile dell’uomo a disporre della propria vita, e a chiederne la soppressione, una volta che questa sia “senza valore”. Ma una volta affermato che la vita “senza valore” può essere soppressa, a chi spetterà poi il diritto e l’onere di stabilire quando la vita è tale? Perché, infatti, dovrebbero “beneficiare” del diritto all’eutanasia solo i malati, o solo gli anziani, o solo i malati gravi?

Prima di procedere nell’analisi etica conviene far cenno a due possibili e importanti conseguenze di una legalizzazione, o comunque di una diffusione della prassi eutanasica. La prima è l’affievolirsi dell’attenzione al trattamento della sofferenza: laddove l’opzione eutanasica fosse accolta come possibile, ne conseguirebbe molto probabilmente un affievolimento dello sforzo teso a ridurre la sofferenza, soprattutto per quanto riguarda i gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso all’eutanasia diventerebbe la soluzione più “ovvia” ed economica. Introdotta la possibilità dell’opzione eutanasica — siamo al secondo prevedibile effetto — si assisterebbe inoltre a una sorta d’inversione dell’onere della prova della dignità e del valore di ogni vita umana. In altre parole: il paziente terminale dovrebbe continuamente giustificare la propria scelta di non richiedere l’eutanasia di fronte ai famigliari e al personale medico.

Aggiornamento (luglio 2001)

Nel 1996, l’anno seguente alla sua approvazione, la legge del Territorio del Nord della Federazione Australiana che legalizzava l’eutanasia è stata abrogata.

L’11 aprile 2001 è stata approvata dal Senato olandese la Legge su eutanasia e suicidio assistito. La legge, già approvata dalla Camera dei Deputati nel novembre 2000, ufficializza l’impunità di fatto di cui hanno finora goduto i medici che ponevano fine alla vita dei pazienti gravi o morenti con la somministrazione di dosi letali di farmaci o interrompendo cure ordinarie necessarie alla vita. Unica condizione è il rispetto di una serie di regole, sostanzialmente le 28 condizioni già indicate dalla legge nel 1994, con l’aggiunta di precisazioni sui minori (il limite minimo d’età per scegliere l’eutanasia è 16 anni, mentre dai 12 ai 16 e per i disabili mentali occorre il consenso di un genitore o tutore) e del riconoscimento del “testamento di vita”, nel caso il paziente non sia in grado di esprimere la sua volontà. La pratica dell’eutanasia ha smesso così di essere sottoposta al controllo della magistratura ed è stata affidata esclusivamente ai medici, come una qualsiasi forma di terapia.

Aggiornamento (gennaio 2003)

Il 28 maggio 2002 nel Regno del Belgio è stata approvata una legge sull’eutanasia volontaria. La legge, che è entrata in vigore il 23 settembre 2002, sancisce la non punibilità per i medici che praticano l’eutanasia su pazienti maggiorenni – o su minorenni, purché capaci d’intendere e di volere – che la richiedano in modo libero, consapevole e ripetuto, in presenza di una patologia “grave e incurabile”, che rechi sofferenze considerate insopportabili e costanti.

Il testo di legge precisa che tali sofferenze possono essere sia fisiche che psichiche, dilatando così indefinitamente i limiti di applicabilità della normativa; esige inoltre che la richiesta dell’atto eutanasico sia messa per iscritto. In caso di incoscienza, hanno valore legale le direttive anticipate del paziente, che devono essere scritte, e che hanno validità quinquennale.

Il medico, per quanto tenuto a informare il paziente sulle terapie del dolore disponibili (cure palliative), viene di fatto a essere un mero esecutore della volontà del paziente: il suo intervento si risolve nell’attuazione – con mezzi non specificati dalla legge – dell’atto eutanasico e nella compilazione di un rapporto da sottoporre a una commissione esaminatrice, che è chiamata a valutarlo sulla base della sola correttezza procedurale.

Aggiornamento (gennaio 2007)

Regno del Belgio

Dalla metà di aprile del 2005 in 250 farmacie del Belgio è stato messo in vendita il “kit per l’eutanasia”, un cofanetto dal prezzo di 60 euro non rimborsabili dal servizio sanitario che contiene tre dosi di un potente barbiturico, un paralizzante e qualche dose di sonnifero. Possono acquistarlo i medici di base previa presentazione alla farmacia di una prescrizione dettagliata simile a quella adoperata per la richiesta di sostanze stupefacenti. La diffusione del kit fa seguito alle richieste dei medici di famiglia, che si erano ripetutamente lamentati delle difficoltà di accesso alle sostanze letali – precedentemente fornite solo dalle farmacie degli ospedali – e alle sollecitazioni della commissione federale del Parlamento, incaricata di valutare l’applicazione di una legge che ne agevola la vendita. Si tratta di un ulteriore passo verso la socializzazione e la banalizzazione della pratica eutanasica, in quanto il kit facilita il trapasso a pazienti che preferiscono morire a casa, assistiti dai famigliari.

Repubblica Francese

Il 22 aprile 2005 in Francia è stata approvata una legge sui “diritti dei malati e la fine della vita”(legge n° 2005-370), che regola l’eutanasia passiva e il testamento di vita. La legge si è presentata come risposta al “vuoto legislativo” additato come causa di sentenze contraddittorie emanate dai tribunali francesi su recenti casi di eutanasia, giustificandosi come tutela contro l’accanimento terapeutico. Essa autorizza i medici a interrompere la terapia e l’assistenza quando questa sembra “inutile, sproporzionata o non sortisce altro effetto se non quello di mantenere in vita artificialmente” (art. 9), oltre che a prescrivere farmaci anti-dolorifici, anche se questi aumentano i rischi di decesso. In caso il malato sia impossibilitato a chiedere la sospensione dei trattamenti il testo autorizza i famigliari a farlo. Chi non volesse essere “terminato” a sua insaputa, deve dichiararlo in precedenza, per iscritto.

Per far valere il diritto al rifiuto delle cure (in caso d’incoscienza) la legge si appoggia allo strumento del testamento biologico. Qualunque persona maggiorenne può compilarlo e lasciarlo in custodia a chiunque di sua fiducia, si tratti di un medico, di un famigliare, di personale addetto all’assistenza, o di terzi. La scadenza è fissata ogni tre anni, e in caso di mancato rinnovo le direttive rimangono indicazioni per il medico ma non obbligo.

Il testo di legge non specifica se idratazione e alimentazione siano da considerarsi trattamenti medici alla stregua della prescrizione di farmaci o d’interventi chirurgici, oppure requisiti d’assistenza di base come riscaldamento, pulizia e movimento. Non si tratta solo di una questione di forma, in quanto, se ritenute terapie, potrebbero essere interpretate come forme di accanimento terapeutico, e sarebbe legale far morire i malati di fame e di sete.

Confederazione Elvetica

L’articolo 115 del codice penale svizzero datato 27 dicembre 2005 sancisce la punibilità di chi istiga o aiuta qualcuno a suicidarsi spinto da un movente di natura egoistica. Questo significa che se il movente è diverso – per esempio se è il suicida stesso a chiedere aiuto per morire – non si è perseguiti penalmente. La disposizione non ha, all’origine, alcun legame con la professione sanitaria né con il malato terminale, ma è stata utilizzata anche per porre in atto comportamenti eutanasici. Organizzazioni come Exit o Dignitas prestano assistenza al suicidio nell’ambito di questa legge, in quanto non è possibile addebitare loro motivi egoistici.

Repubblica Federale di Germania

Ha una posizione ambigua. L’istigazione al suicidio – quindi anche l’assistenza ad esso – non è punita, purché l’ultimo atto da cui consegue la morte venga praticato dal suicida stesso. I casi di suicidio direttamente assistito, come quelli di cosiddetta “eutanasia passiva”, vengono giudicati sulla base delle disposizioni sull’omissione di soccorso – che risulta piuttosto evidente quando la persona rifiuta l’aiuto perché vuole morire – e sul maltrattamento di persone tutelate, ma la legge è interpretata in modi diversi nei vari processi.

Regno dei Paesi Bassi

Nel 2002 un gruppo di medici neonatologi della clinica universitaria di Groningen in stretta collaborazione con un procuratore distrettuale ha formulato il cosiddetto “protocollo di Groningen”, che nel marzo del 2005 è stato adottato dalla Commissione di Regolamentazione. Il protocollo rappresenta un’estensione della legge del 2001 sull’eutanasia in quanto indica i requisiti necessari e la procedura da seguire per praticare l’eutanasia ai bambini al di sotto dei 12 anni e ai neonati, se i medici e i genitori concordano che “la morte sia più umana della continuazione della vita”. Tra i requisiti da soddisfare si legge che “la diagnosi e la prognosi devono essere certe” , devono configurare una situazione di “sofferenza insopportabile e disperata” ed essere “confermate da un medico indipendente” . Vi è l’obbligo di mettere per iscritto tutte le fasi del processo decisionale ed è prevista un’assistenza per i genitori, di natura non specificata.

L’accordo medico-giudiziario è stato possibile perché la legge che regola l’eutanasia si applica a quei casi ritenuti “estremi” per cui è accolta l’eccezione rispetto all’ omicidio. Una vita di sofferenza che non può essere alleviata è considerato uno di questi casi estremi, anche se il soggetto è un neonato per il quale non è possibile stabilire il livello di dolore reale e la sua tollerabilità, si può prevedere solo parzialmente l’evoluzione della malattia e le sue conseguenze e nulla si può dire su come il bambino affronterà la sua condizione di vita.

Repubblica Italiana

In base alla legislazione vigente, l’eutanasia non è mai consentita. La forma indiretta è considerata omicidio doloso e sanzionata secondo l’articolo 575 del codice penale. La forma diretta è assimilata all’omicidio del consenziente e punita meno gravemente secondo l’articolo 579 del c.p.. Vi è una valutazione negativa dell’ordinamento anche nei confronti del suicidio: non viene punito il suicida, nell’ipotesi in cui un suo gesto non raggiunga l’obiettivo, ma viene sanzionata l’istigazione al suicidio in base all’art. 580 del c.p.. In base al cosiddetto “consenso informato”, chiunque ha diritto di decidere se vuole essere curato per una malattia o sottoposto a una determinata terapia o esame diagnostico, dopo essere stato informato dal medico sugli effetti degli stessi; tale diritto è garantito dall’art. 32 della Costituzione secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

In Commissione Sanità al Senato è iniziato l’esame di vari disegni di legge aventi a oggetto le cosiddette “dat” – dichiarazioni anticipate di trattamento; al momento, non è stato ancora adottato un unico testo di riferimento e si sta procedendo ad audizioni di tecnici o di rappresentanti di associazioni. Il quadro appare a volte confuso in quanto si fanno coincidere le “dat” con il rifiuto dell’accanimento terapeutico, per il quale non è necessaria una legge, essendo possibile, e anzi garantito già oggi.

 

APPENDICE: Articolo pubblicato sulla rivista “Sacerdos”

Chiara Mantovani

L’eutanasia: se questa è morte “buona”…

Come raccomanda Giovanni Paolo II, al n. 65 dell’Evangelium Vitae, “per un corretto giudizio morale sull’eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla”. Si può partire da qui, dalla necessità — che oggi è impellente — di definire il significato dei vocaboli di cui le pagine dei quotidiani sono piene.

Con un’avvertenza: che la difficoltà di ben chiarire il senso delle parole è spesso utilizzata con arte, strumentalizzata, e raramente affrontata con lo scopo di ridurla, bensì con l’intento di esasperare le percezioni emozionali. Puntare sui sentimenti, insomma, anziché sull’uso anche faticoso della ragionevolezza. È la tattica, ben conosciuta e usata, della evidenziazione dei cosiddetti “casi limite”, efficace in un’epoca come quella contemporanea, nella quale la ragionevolezza e la prudenza stentano già, per loro debolezza, a essere strumenti consueti del giudizio. Anche la recente interpellanza di Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica va in questo senso: un uomo sofferente rende pubblica e clamorosa la propria angoscia personale per farne un caso emblematico, sottoponendo la pubblica sensibilità a un forte impatto emotivo. Già nel 1999 un grido di dolore analogo era stato rivolto a un Presidente della Repubblica (allora Carlo Azeglio Ciampi) da una giovane donna, Germana Lancia, in modo altrettanto clamoroso, ma senza alcuna strumentalizzazione. Sia detto per inciso, Germana è stata aiutata, ha cambiato idea sull’eutanasia e ora ha scritto una lettera piena di comprensione e sincerità a Welby: ci ripensi, la vita può riservare ancora gioie e sorprese, si lasci aiutare davvero.

Per eliminare più possibile la confusione, proviamo allora a definire: “Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. “L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”” (E.V., 65). Proprio questa collocazione rende così arduo il parlarne: come si fa a catalogare le intenzioni? Soprattutto quando la linea di confine su ciò che lecitamente si desidera (la fine della sofferenza) non combacia con un’altrettanto lecita speranza: la guarigione dalla malattia.

Inizio dunque a circoscrivere l’ambito: quello della sofferenza. È ormai chiaro che ogni malattia dell’uomo, sia essa fisica o spirituale, causa sofferenza: e questa è una considerazione importante, talvolta occasione di un fraintendimento drammatico, perché sarebbe pericoloso non distinguere una sofferenza psicologica e/o spirituale da una malattia organica. Pur nella consapevolezza della loro costante coesistenza, fino talora all’interdipendenza, va posta attenzione a coglierne i rispettivi motivi scatenanti e, dunque, rintracciare i rimedi appropriati, ma senza confonderli: questo è il compito di ogni operatore sanitario, attento e rispettoso della propria professionalità. Perciò, se si vuole tenere l’argomento nell’ambito della competenza medica, per parlare di eutanasia in senso proprio bisogna che vi sia una malattia che causa un dolore non più sopportabile. Inoltre è necessario compiere oppure omettere determinate azioni, dalle quali consegue la morte del paziente. Ma ancora non basta: è necessario che chi agisce o omette di agire abbia come fine voluto la morte: ecco il livello intenzionale!

La morte, cioè, non è un effetto collaterale non cercato, un “male” che si sopporta pur di ottenere il ben-essere. Una tale prospettiva assomiglierebbe molto alla rassegnazione cristiana davanti alla morte: “se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura”, recita il prefazio della Messa delle esequie. No, nella difesa d’ufficio della liceità dell’eutanasia sta proprio la convinzione che è la morte il bene da ricercarsi, l’unica terapia adeguata alla situazione. Il che, medicalmente parlando, equivale ad affermare che la morte è lo strumento terapeutico per eccellenza: morto il paziente, cessano malattia e sofferenza. Indubbiamente efficace, decisamente drastico.

Ora, bisogna ribadire con vigore che nel bagaglio professionale di un medico capace vi è (e deve esservi e, se non vi è, bisogna che con umiltà si ricorra alla consulenza di colleghi più esperti) tutto il necessario per gestire l’agonia. Parola censurata, eppure la più adatta a descrivere in modo corretto lo stato di un paziente che si trovi in quella situazione, così equivocamente perifrasata, nella quale si collocherebbe un’azione eutanasica per risparmiare ulteriore dolore.

“Paziente in fase terminale”, “stato irreversibile di sofferenza”, “di fronte ad una fine prossima”, ed espressioni simili, o significano “agonia”, o sono grimaldelli per far passare ben altra prospettiva esistenziale. In questo caso, le considerazioni da farsi sono di ordine filosofico e non più medico: non si lasci ai medici, dunque, la responsabilità di agire, né ci si nasconda dietro le loro spalle, ancorché robuste e consenzienti.

Se dunque si volesse, come il più delle volte affermato a parole (ma, altrettanto spesso, smentito da una indagine appena un po’ approfondita sul senso dato alle parole usate), restringere il campo di applicazione dell’eutanasia all’agonia, bisognerebbe subito rilevare che una tale situazione non abbisogna di un’accelerazione della morte, bensì del rispetto dei tempi: qualcuno ha felicemente detto che ciascuno ha diritto di giungere vivo al momento della propria morte! Per gli operatori sanitari è importante anche aver cura che la frustrazione del limite raggiunto non sia vista come il fallimento della capacità personale e scientifica: “anche la sofferenza e la morte, in realtà, fanno parte dell’esperienza umana, ed è vano, oltre che fuorviante, cercare di censurarle e rimuoverle” [E.V., 97] . Se è vero che le moderne tecniche di rianimazione consentono di salvare molte vite e ne condannano altre a una esistenza poco cosciente, è altrettanto vero che il quadro terminale di ogni vita è un passaggio ben conosciuto dall’arte medica. Su questo punto l’accordo è unanime: è lecito lenire la sofferenza quando il corso della vita sia giunto al termine, anche per mezzo di farmaci che abbiano come effetto collaterale non voluto un accorciamento della vita. Non si può minimamente parlare, in tale caso, di eutanasia. Diciamo ancor più chiaramente: non si tratta di ammettere limitate possibilità di eutanasia, dal momento che non si tratta proprio di eutanasia.

Non sfugga la sottile ma decisiva differenza: posso usare morfina per togliere dolore o, nella stessa dose e quantità, per togliere la vita. Uguale è il mezzo usato (antidolorifico), uguale l’effetto (analgesia e contemporanea inibizione della capacità respiratoria), diversa l’intenzione. Il primo atto è gestione dell’agonia: soppressione del dolore in un paziente che non trarrebbe giovamento da nessun’altra cura. Il secondo è eutanasia: accelero l’avvenimento della morte in un paziente che sta vivendo una vita indegna. Dove sta il confine etico? Nell’intenzione, che potrebbe essere conosciuta solo dalla coscienza personale, e nel giudizio sul valore della vita, che ogni operatore ha in sé. Ecco perché sostenevo, all’inizio, la oggettiva difficoltà di giudizio, che si traduce, anche, in una diffidenza profonda nei confronti di qualsivoglia legge — come le “direttive anticipate”, o “testamenti biologici”, o “testamenti di vita”, o all’inglese “living will” — che presuma di codificare e rendere obbligatori i comportamenti professionali di medici e infermieri: se i sanitari sono professionalmente e umanamente capaci sanno che cosa fare per evitare la sofferenza inutile, sanno accompagnare malato e famiglia, sanno accettare il proprio limite. Ma se già non lo sanno fare, non sarà un decreto legge a insegnarlo, quanto piuttosto una seria preparazione che sia attenta a non proporre scorciatoie.

La diffidenza si accentua quando si consideri la possibilità di stilare un testamento biologico (questa è l’espressione oggi più spesso usata) che stabilisca con largo anticipo quali trattamenti sarebbero accettabili e quali da rifiutare, documento che diventerebbe operativo proprio nel momento in cui il paziente non è più in grado di mutare il proprio giudizio: in questi casi, le leggi o i progetti di legge di solito prevedono la figura del fiduciario, una persona che vigili sulla esatta interpretazione ed esecuzione delle volontà precedentemente espresse. Alla pari di un esecutore testamentario, anziché disporre del patrimonio delle cose, dispone del patrimonio della vita: compito arduo, dal momento che spesso non si è sicuri nemmeno del proprio pensiero e che il progresso medico potrebbe, già dopo pochi mesi dalla redazione delle volontà, mettere in serio imbarazzo il fiduciario.

I protocolli operativi stabiliti per legge sono sempre carichi di minacce: la legge ha un compito organizzativo e pedagogico e non può sottovalutare la sua rigidità. Nessuna legge può tenere sufficiente conto delle eccezioni, né delle emozioni che possono variare i giudizi espressi in situazioni differenti; per questo la legge è chiamata a esprimersi su questioni generali. Nell’odierno contesto sociale, segnato da una drammatica lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”, occorre far maturare un forte senso critico, capace di discernere i veri valori e le autentiche esigenze” [E.V., 95]. Dunque è un’azione educativa quella che rende possibile comprendere ciò che è giusto, momento per momento, persona per persona: se è arrivato il tempo di accettare la inevitabile conclusione della vita, evitando di aggravare dolore e sofferenza, cessando di “applicare terapie ed esami diagnostici inefficaci” (ecco una ragionevole definizione di accanimento!); oppure se vi è ancora margine per un miglioramento delle condizioni o per una precisazione della diagnosi che apra nuove prospettive.

La difficoltà di comprensione diventa ancora più drammatica quando si cerchi di far passare l’idea che l’alternativa al temuto accanimento terapeutico possa essere solo l’eutanasia. Il termine stesso, accanimento, suscita orrore e predispone all’accettazione di una qualsiasi soluzione alternativa. Ma le cose si complicano quando si guardi a che cosa è inteso come accanimento: perché Terri Schiavo è stata lasciata morire di fame, di sete e con i devastanti effetti collaterali da questo derivati (in parte, ma solo in parte, alleviati da farmaci di cui nel suo stato morboso non avrebbe avuto bisogno), in nome della cessazione di un accanimento paragonabile al comportamento di una mamma nei confronti del suo neonato. Fornire cibo, bevande, calore e protezione a chi non è in grado di procurarselo da solo è considerato un atto dovuto all’essere umano da qualche millennio; se ora qualcuno reputa che arrivi un momento in cui questo atto non solo non è più dovuto, ma che si trasformi in una non meglio precisata forma di crudeltà, non è perché cambi il giudizio sul fatto, quanto piuttosto il giudizio sul valore della vita. Allora si ammetta, con onestà intellettuale, che il vero problema è il concetto di “qualità della vita”, coincidente con “vita di qualità”: solo in certi casi, in presenza di requisiti specifici (coscienza, padronanza di sé, capacità operative) la vita umana sarebbe una vita degna. In assenza di questi requisiti non vi sarebbe alcuna necessità di salvaguardarla, anzi, s’insinua che ciascuno dovrebbe rendersi conto da sé quando la propria esistenza fosse di peso, d’ingombro, d’imbarazzo. Se la china dell’eutanasia e delle disposizioni anticipate dovesse essere imboccata, a poco a poco s’inizierà a lodare il vecchietto previdente: “caro, il nonno, non ha voluto disturbare, aveva già la sua età e tanti acciacchi”. E nascerà quella che è già stata definita una “sensibilità sociale” per l’eutanasia: sarà un cattivo cittadino colui che non provvederà a togliersi di torno. Sebbene oggi si parli ufficialmente solo di libera scelta, la cronaca ci mostra che la “pietà” di altri agisce anche in assenza di richieste dirette: come inquadrare dunque questi comportamenti, se non capovolgendo un assioma finora assoluto (ciascuno vuole vivere) con un altro relativo (ciascuno può vivere se qualcuno decide che ne vale la pena)? Si potrà in futuro applicare a rovescio la legge del silenzio-assenso: senza disposizioni contrarie, decideranno i medici e/o i parenti se si soffre troppo e se applicare eutanasia? Non sembri una battuta: non abbiamo forse nel nostro ordinamento giuridico l’aborto eugenetico, mascherato da aborto terapeutico? Ogni volta che un medico firma un certificato di aborto per una donna che, avendo avuto responso di probabile malformazione fetale, dichiara che da ciò ne deriva un trauma e uno stress psicologico ritenuto insopportabile, in realtà firma una eutanasia prenatale: non si può vivere malformati, e avendo “pietà” delle sofferenze familiari e del bambino si elimina il difetto(so). E feti ed embrioni, come ognun sa, non sanno firmare moduli di consenso.

In Europa le situazioni legislative sono variegate, ma tendono a uniformarsi all’idea di autodeterminazione individuale, dichiarando legali sia l’eutanasia che il suicidio assistito. In Olanda l’eutanasia è legale dal 2000 per gli infermi maggiorenni capaci d’intendere, di volere, e di farne richiesta scritta. Approvata la legge, i promotori hanno subito fatto notare che anche i minorenni possono soffrire in modo atroce. Così, nel 2002 la possibilità di chiedere l’eutanasia è stata estesa agli adolescenti sopra i dodici anni, ritenuti capaci di consenso. Fra parentesi, quando i tribunali olandesi hanno dichiarato legittima la costituzione di un “partito dei pedofili” (quello che chiede libertà di relazioni sessuali con gli adulti per i minori che abbiano compiuto i dodici anni) hanno ragionato, non senza una certa logica, proprio a partire dalla legge sull’eutanasia del 2002. Se il legislatore olandese ritiene una persona dodicenne abbastanza matura per decidere di vivere o morire, come non ritenerla capace di scelte sessuali?

È anche da sottolineare che con la moderna definizione di salute, elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), come “completa assenza di sofferenza fisica o psichica”, i margini di intervento eutanasico si allargano a dismisura e “giustificano” dal punto di vista logico, ma non ragionevole, la distribuzione della morte a richiesta: ecco uno dei motivi per cui è così frequente sentir rivendicare il presunto diritto anche al suicidio assistito. Se, infatti, dovesse essere valida quella definizione di salute, ogni parametro oggettivo perderebbe consistenza e ciò che a molti oggi sembra una valutazione accettabile (si può ricorrere all’eutanasia per dolori insopportabili) diventerebbe un criterio molto labile: chi avrebbe il diritto di giudicare il grado di disagio soggettivo?

Resta fondamentale comprendere che ogni richiesta di eutanasia è, di fatto, un grido di dolore e di domanda: aiutami a sopportare la mia sofferenza e dimmi con i fatti, non con parole di circostanza, quanto vale per te la mia vita, dolorosa, segnata dalla malattia o carica di una angosciante incognita sul suo valore. A questa drammatica domanda, la risposta non può essere l’indifferenza: fai ciò che vuoi, per me è uguale che tu viva o che tu muoia; né, tantomeno, può essere l’affermazione che sì, solo la morte è la soluzione.

La morte scelta e non accettata diventa, in questo caso, la risposta alla domanda di senso sulla vita; la morte è stata trovata degna dell’uomo e l’uomo ha stretto con lei alleanza, reputandola “degna” di sé: di più, reputandola la parola decisiva e qualificante sulla vita. E questa è la sconfitta definitiva della ragione, quella ragione che suggerisce a ogni persona il valore incalcolabile della vita umana.

 


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