Il percorso di destrutturazione dell’Europa attraverso la decostruzione dell’idea di persona umana

Lezione tenuta l’11 gennaio 2007

dott. Chiara Mantovani

Attraverso le lezioni precedenti, anche dell’anno scorso, abbiamo affrontato la crisi che ha colpito l’identità stessa di quel luogo non solo geografico, ma soprattutto culturale e spirituale, che chiamiamo Europa.

In queste cinque lezioni mi propongo di esaminare questa crisi attraverso uno sguardo particolare, quasi un mettere a fuoco uno solo dei tanti temi e ambiti nei quali questa crisi si è andata svolgendo.

Lo farò attingendo al linguaggio medico che mi è familiare.

Abbiamo infatti ampiamente compreso che la malattia, il processo morboso che affligge il nostro mondo attuale non è un malanno acuto, appena iniziato, ma ha cause e radici profonde; che non ha colpito solo un “organo” del corpo europeo (va male solo l’economia, o solo il buon costume; oppure solo l’Italia o la Francia), né che le diverse manifestazioni sono malattie differenti; ormai sappiamo che è una unica malattia, che è totale (sta male tutto il corpo, ogni più piccola articolazione è interessata), che governa tutti gli avvenimenti — non sta fuori da nulla di quel che succede —, che si va sviluppando come un processo morboso, con i suoi ritmi più o meno accelerati, le recrudescenze e le remissioni.

Dunque il quadro è così complesso che talvolta può essere utile concentrare l’attenzione su un particolare, perché lo svolgimento della crisi in quel distretto può essere illuminante, senza mai dimenticare che ciò che succede al fegato interessa, con modalità proprie ma analoghe, anche ai reni.

Il distretto particolare che mi preme esaminare è la persona umana, ciò che di se stesso pensa l’uomo e quale comportamento pratico discende dalle diverse concezioni dell’uomo.

L’antropologia diventa cartina al tornasole molto fedele del modo di costruire le società, tanto che si può dedurre che cosa l’uomo pensa di sé osservando come vive.

Questo ambito è così importante perché è il cuore del soggetto ammalato.

Percorrendo velocemente le varie tappe critiche della malattia europea, cercherò di farvi vedere quel che a me (ma non solo a me) è parso di vedere sullo stato di avanzamento della malattia: dunque, in ultima analisi, sulle possibili terapie applicabili, con l’avvertenza ovvia che l’eutanasia non rientra nel mio personale bagaglio terapeutico. E che solo nei confronti dell’Europa e della ragionevolezza cristiana nutro il profondo, tenace e indomabile convincimento della obbligatorietà morale dell’”accanimento diagnostico e terapeutico”.

Da dove traggo questa incrollabile certezza? Dalla Sacra Scrittura che indica Abramo come prototipo dei credenti perché ha sperato contro ogni speranza; e ancor più dal Signore Gesù che “non spezzerà la canna infranta, non spegnerà il lucignolo fumigante” (Mt 12,20), “uno stoppino dalla fiamma smorta” (Is. 42, 3). E noi oggi siamo stoppini ben poco luminosi.

Non mi sembra esagerato dire che la civiltà cristiana nasce con l’idea di persona: quando i padri della Chiesa si trovano a dover rendere ragione della affermazione di fede in Dio Uno e Trino, elaborano la definizione di persona. Hanno presente nel loro speculare (pensare riproducendo come in uno specchio, “speculum”, che allora come ai tempi di san Paolo non era propriamente come ai nostri: forse funzionava meno di quelli che ora diamo ai bimbi piccoli! Dunque una conoscenza per analogia, non certo per sovrapposizione!) le acquisizioni del pensiero greco e del diritto romano, che riuniscono in felice sintesi con la fede in un Uomo che è Dio, eppure si fa uomo, muore e poi risorge. Dunque Dio è diventato una persona umana. Ma se Gesù è vero Dio e vero uomo, e Dio è immutabile, e Dio è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, allora era persona anche prima di incarnarsi; per il principio di non contraddizione, se Dio è persona e l’uomo è a sua immagine, anche l’uomo è persona. La sto facendo semplice, ovviamente, ma non credo di travisare. Tutta la riflessione teologica dei Padri della Chiesa si esemplifica nella famosa icona della Trinità del santo monaco russo Andrej Rublev, nato intorno al 1365 e morto verso il 1430. in cui sono seduti tre singoli che assomigliano ad Angeli: tre Persone, un unico Dio.

L’importanza di questa che potrebbe apparire una inutile speculazione teoretica diventa evidente quando, già nei primissimi decenni, e poi per molti secoli dopo Cristo, giovani donne accettano il martirio pur di affermare il proprio diritto alla verginità consacrata, ovvero a disporre della propria persona per seguire un progetto di vita diverso da quello pianificato dalla famiglia. Ma il terreno su cui si rivela l’importanza di questa riflessione è proprio quello su cui oggi ci appassioniamo: il rapporto fede-ragione.

Nel tardo periodo romano venivano rivolte ai cristiani molte critiche: una di queste era di pregare un Dio non conoscibile dalla mente umana (in particolare proprio a causa del dogma della Trinità). La risposta offerta da Sant’Agostino a questo dilemma è: credo — e prego — per capire l’ineffabile mistero di Dio (Credo ut intellegam); e comprendendo, nella misura del possibile creaturale, Dio, posso a maggior ragione credere (et intelligo ut credam).

Quando poi si espliciterà che non si può obbedire intimamente a ciò che non si conosce (ecco l’atto di fede: una obbedienza dell’intelletto e della volontà, della testa e del cuore); che non si conosce se qualcuno non ce ne parla (fides ex auditu); che non si ama ciò che non si conosce, allora il cristianesimo avrà trovato la radice profonda della sua missionarietà. Il che, alla fine, significa la radice profonda della sua capacità di costituirsi come popolo sopra le etnie, cultura sopra le consuetudini, mentalità sopra le ideologie. Intimamente difforme, mi pare, dal proselitismo forzato dell’islàm, che in confronto appare come un dover farepiuttosto che un voler essere.

Ma per giungere a questa comprensione della natura del rapporto tra Dio e l’uomo è assolutamente necessario balbettare qualcosa dei due termini del rapporto. Dio sembra paradossalmente più facile da definire: ha tutte le perfezioni, ha la pienezza dell’essere. L’uomo, dopo la faticosa ma preziosa ricerca della filosofia greca, ora riceve una risposta luminosa, persino abbagliante (e infatti in molti si abbaglieranno!): costituzione Gaudim e spes, Concilio Vaticano II, tutto il pontificato di Giovanni Paolo II, tutte le catechesi del cardinale Caffarra: “nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” (Gaudim e spes, n. 22). Solo Cristo rivela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione.

Quando Benedetto XVI, nell’ormai più citato che capito discorso di Ratisbona, parla di de-ellenizzazione del cristianesimo, ha in mente proprio la perdita dell’ancoraggio ragionevole, della fiducia di conoscere chi è l’uomo. Nella incapacità di trovare regole condivise per edificare un sociale umano vivibile (quasi obbligatoriamente, in nome di non si sa bene quale dettato moralistico: “dobbiamo andare tutti d’accordo”, quando invece questo sforzo è ontologicamente esigito dalla ragionevolezza umana, che riconosce come vera l’affermazione antropologica che la persona è relazione), l’uomo si accontenta di comporre diversi e talora divergenti interessi.

Stessa cosa per la pace. Che bella la pace. Dobbiamo stare in pace. La pace è un dovere. In realtà la pace è un dono, da chiedere con insistenza: da rileggere il memorabile messaggio di Benedetto XVI del 1° gennaio 2007. La pace è il frutto di un adeguamento della volontà dell’uomo, espressione della sua libertà, ad acconsentire alla giustizia piuttosto che alla piacevolezza, alla convenienza, alla sensualità, all’attrazione disordinata. Ecco la parola chiave: disordine, poiché la pace è la tranquillità dell’ordine.

Certamente è fondamentale capire che cosa è la ragione dell’uomo. Senza questa comprensione ci si abbaglia e si sbaglia secondo due modalità: quella che dà alla ragione un ruolo egemone e la confonde con la capacità empirica, quella che la reputa del tutto inadatta allo scopo della conoscenza, almeno per certe realtà. Dunque inutile impiegarla per conoscere Dio, e guai a non lasciarla egemone per conoscere le cose. Ma:

“L’intelligenza, infatti, non si restringe all’ambito dei soli fenomeni, ma può conquistare con vera certezza la realtà intelligibile, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e debilitata. Infine, la natura intelligente della persona umana può e deve raggiungere la perfezione. Questa mediante la sapienza attrae con dolcezza la mente a cercare e ad amare il vero e il bene; l’uomo che se ne nutre è condotto attraverso il visibile all’invisibile. L’epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza per umanizzare tutte le sue nuove scoperte. È in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi” (Gaudium et spes, n.15).

“Ragione umile” è il contrario di “pensiero debole”, la ragione di Maria in contrapposizione alla ragione di Zaccaria.

Nel citato discorso di Ratisbona, Benedetto XVI afferma che la prima rottura con la ragione aristotelica è la rivoluzione protestante: Lutero — sola fide, sola scriptura — in fondo dice che è solo la fede a dare risposte alle domande dell’uomo (e le prime sono proprio su chi sono, da dove vengo, dove vado), e che la ragione costituisce una specie di inquinamento; ma così rimane solo la ricerca di un modo di fare i cristiani: un moralismo.

Se non c’è possibilità di definire la persona umana, se si rinuncia alla ricerca metafisica (metà tà fusicà) perché in essa non c’è possibilità del dato empirico e la ragione può occuparsi solo di questo (Kant), allora la definizione di persona cambia con le sensibilità storiche ed individuali: l’idea di persona è un flatus vocis(cfr. Caffarra), non designa una realtà da tutti riconoscibile.

Possibile che da una “bega tra monaci”, come fu definita dal papa la riforma protestante, nascano conseguenze così gravi? La riforma è Cristo sì, Chiesa no. Ma in realtà non è neppure Cristo, è “il Cristo storico”, un grande uomo, che non redime e non risorge, ma indica una modalità di comportamento, una guida spirituale: ma questi non è Cristo Signore, “che svela all’uomo la sua altissima vocazione”.

Seconda de-ellenizzazione: la rivoluzione Francese, in cui la persona è individuo, numero della massa, uno di una serie. Allora l’uno può essere sacrificato per i molti, o uno che vale meno per uno che vale di più. L’égalitè è disconoscimento della unicità (se sono uno di tanti, siamo tutti uguali, senza differenze, in realtà sono senza valore, ce ne sono già tanti come me).

La liberté è “libertà da”, non “libertà per”, ricerca spasmodica di superamento di un limite creaturale; la fraternité è un vago sentimento filantropico che non avendo un Padre comune è senza radice. Si noti anche che la fraternità senza distinguo tra vita umana e animale, porta ad una aberrazione di considerare tutte le specie viventi sullo stesso piano.

Terza de-ellenizzazione quella attuale: perdita della missionarietà. L’ellenista si sentiva civilizzatore, prima che conquistatore: e i barbari erano i non greci (e poi i non romani), cioè coloro che dimostravano con la loro struttura sociale di non pensare che l’uomo fosse ciò che è!

Le idee camminano sempre sulle gambe degli uomini: per capire ciò che pensi, sono autorizzato a guardare come vivi.

Portare la cultura della ragionevolezza a confronto con la barbarie degli istinti e delle convenienze era un caposaldo; ora offrire una conquista teoretica della ragionevolezza a qualcuno è diventata una inammissibile ingerenza. (cfr. le polemiche sull’ultimo film di Mel Gibson Apocalypto)

Uno dei passaggi teoretici dall’idea corretta di persona a quella relativista oggi imperante, è il cambio, apparentemente solo semantico, da “persona” a “individuo”. Sembra che non cambi molto, e invece cambia tutto. La persona è un unicum, non riconducibile a ciò che fa, in quanto il suo valore abita (direbbe Caffarra: dimora) in ciò che è per natura e non per circostanza.

Invece l’individuo è sì uno, ma anonimo: uno tra tanti, uno di una serie. Quando l’uomo ha perso la capacità di pensarsi come persona, si è scelto un appellativo in grado di qualificarlo univocamente: il cittadino, il lavoratore, il rivoluzionario,… Attenzione: non il poeta, l’operaio, il soldato, il prete, che sono termini che indicano il suo agire e che suppongono implicitamente l’essere personale da cui quelle azioni derivano; ma appellativi che rimandano ad una supposta essenza desumibile dalla prassi, a qualcosa che indichi chi è attraverso quello che fa. O, peggio, che faccia coincidere quello che è con quello che fa. Il che assomiglia sinistramente al “tu sei quel che mangi” di Feuerbach. Avete presente le interpellanze da comizio di Peppone (e anche dei suoi molto meno simpatici corrispettivi reali e moderni)? O i documenti burocratici? “Cittadine e cittadini” “Compagne e compagne” “Lavoratrici e lavoratori”, tutti immancabilmente esplicitanti i due sessi divisi (e quello femminile anteposto in nome non già e non certo della “cavalleria”, bensì a mo’ di mascolina autodafé).

Non a caso fu la Rivoluzione francese che abolì le distinzioni fra persone, per introdurre l’appellativo “cittadino”.

Fin qui l’analisi di Benedetto XVI. Ma è possibile dettagliare ancora più analiticamente questo itinerario, alla scuola del professor Plinio Corrêa de Oliveira.

Ci accorgiamo allora che un ulteriore passo avanti (una nuova tappa nella evoluzione della malattia, potremmo dire) nella storia è stata la Rivoluzione comunista, con il suo carico ideologico oltreché pratico: il pensiero, cioè, che, tolta ogni dimensione metafisica all’uomo, la sua essenza si riassumesse e si esaurisse nella dimensione fisica e lavorativa (“Infine il grido empio: Dio è morto, anzi, non è mai stato!“). Se la persona umana non ha più un anelito spirituale, anzi, se questa insopprimibile tensione all’oltre fosse solo il risultato di una sovrastruttura, determinata da un accecamento delle capacità razionali e materiali (ancora una fiducia davvero cieca nella ragione), all’uomo non resterebbe che vivere una vita quaggiù, nella quale i bisogni necessariamente dovrebbero essere regolamentati e limitati dallo Stato, unico arbitro dei conflitti sociali. L’abolizione della proprietà privata, la cancellazione delle prerogative dei corpi intermedi (associazioni tra persone), l’uomo a una dimensione (Marcuse) sono gli strumenti per convincere l’uomo di non essere altro che un animale tra gli altri. Ancora una volta le differenze sono abolite apparentemente per garantire più libertà, in realtà per assoggettare meglio l’uomo.

L’ultima tappa che ci è dato di aver visto è poi quella attuale, in cui l’attacco è portato fin dentro la struttura fisica e psicologica della persona; anzi, che pretende di ridefinire la persona. Con la cosiddetta rivoluzione sessuale (ciò che semplificando chiamiamo ’68), la persona viene spogliata della differenza non accidentale ma ontologica tra i sessi; la corporeità diventa accessorio della persona, non più sua dimensione costitutiva; la convivenza civile una negoziazione tra forti, con la definitiva morte del rispetto della verità. Verità che appare concretamente nella realtà.

Ecco, il rifiuto della realtà come dato di fatto (anzi, come fatto in sé, conoscibile, indagabile e giudicabile) genera le utopie, le ideologie, le coercizioni.

E l’etica, che è ricerca della verità nella faticosa assunzione delle proprie responsabilità, diventa l’esercizio del compromesso: mettiamoci d’accordo!

In questa prospettiva, ogni dettato morale sembra una imposizione arbitraria che viene dall’esterno della persona; va da sé che possa cambiare a seconda delle circostanze culturali. Si sente spesso dire: come si può avere gli stessi criteri di giudizio di decenni o secoli fa? La società è cambiata, devono cambiare le regole.

Questo sarebbe vero se la natura della persona fosse anch’essa qualcosa di variabile; ma questo presupporrebbe che non fosse propria della persona, bensì legata a ciò che di volta in volta si decide essere l’uomo.

Colgo spesso, nelle riflessioni specifiche sui temi di bioetica ma anche più in generale, una sorta di tentativo di “giustificare” i dettami forniti dalla norma.

Mi pare importante ricordare che viviamo in un’epoca particolarmente allergica a qualsivoglia supervisione degli atti umani. Il relativismo, morale ma anche inerente a ogni giudizio pratico, ha attaccato in profondità la consapevolezza della dimensione creaturale della persona umana, che rivendica un’autonomia dal reale che giunge alla negazione dei fatti e alla supremazia della percezione soggettivistica: si noti, non solo del giudizio ma della percezione.

Si è venuta così configurando una vera e propria “teoria del libertinaggio”, la negazione del valore assoluto e incondizionato dell’oggettività della norma morale divina, naturale o positiva.

Sappiamo della pretesa di usare della libertà in modo sganciato dalla verità, poiché molti sono oggi i Pilato che hanno dubbi sulla sua esistenza.

Anche per questo mi pare fondamentale ritrovare il senso della norma.

Se il cielo stellato sopra di noi è un fatto innegabile, indipendente dalla nostra capacità di numerare le stelle, altrettanto evidente è l’esistenza di una legge morale dentro di noi, indipendente dal nostro libero rispetto della stessa.

Di che natura è questa legge e che vincoli impone, se ne impone?

È un obbligo imposto da quale forza? E l’obbligo risiede nella norma o la norma lo disvela e lo formalizza, senza avere in sé la fonte della propria genesi? Il dettato del Magistero, agire in un modo piuttosto che in un altro, è vero perché il Papa lo comanda; oppure il Papa lo comanda perché è vero?

Ecco, credo che questo sia il punto cruciale. Sostengo che la norma, e più ancora la sua formulazione linguistica, è a sua volta manifestazione di altro, non trova in sé la ratio del suo esistere. Una tale legge sarebbe ideologia, fraintendimento dell’essere con il fare, moralismo anziché morale. Attenzione: è solo l’uomo che può operare un tale fraintendimento, proprio nel momento in cui non ne riconosce la natura. La legge farisaica, ovvero l’interpretazione da parte dei farisei della legge mosaica, lo è. La legge mosaica, quella che il Signore ha portato a compimento senza cancellarne né un apice né uno iota, non lo è. La legge cristiana, poiché non prescinde dall’uomo, bensì è l’uomo, anzi, quell’Uomo perfetto che è Gesù, non potrà mai contraddire l’uomo.

La legge dell’amore è l’Amore stesso, che induce, genera, disvela un essere da cui scaturisce un fare: non è un fare che obbliga con una forza estranea. Ha molto a che vedere con la giustizia, che è adeguamento del fare all’essere.

Allora la legge cristiana è cartello indicatore e non legaccio; è ciò che libera la libertà dal pericolo di ingannarsi (cfr. Caffarra). Il semaforo non trova la giustificazione del suo essere nei colori che manifesta, i suoi colori sono indicazione abbreviata di un’esigenza: che qualcuno passi mentre gli altri sono fermi. I cartelli indicatori sono palesamento di un fatto: di qui si va a Roma, di là a Milano. Il cartello non decide dove si trovano Roma e Milano, dice dove sono e il percorso più breve o agevole per raggiungerle.

Da qui, a mio avviso, la necessità di giudicare e di parlare sulla legge e i suoi precetti come di un dono.

Fino a quando non ritorneremo a “sapere” (a far passare dalla mente al cuore, cioè a volere, come accennavo all’inizio) che ogni vero avanzamento della condizione umana sta nell’approfondire chi è l’uomo, avremo sempre la sensazione di essere come dilaniati tra due possibilità, entrambe ingannevoli: di desiderare ciò che è impossibile (nascere, vivere, morire come e quando vogliamo noi) oppure essere assoggettati ai voleri del più forte (chi può decidere quando una persona, non una cosa, può/deve nascere, vivere, morire?).

Tutti i problemi della bioetica in realtà convergono qui, in questa capacità che la ragione possa giudicare.

Concludo con la conclusione del discorso di Ratisbona:

“[…]la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: “Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno”. L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. “Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio”, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori”.

 

 


Lascia un commento