Prima lezione: “Premesse, definizioni e criteri per un approccio cattolico alla Letteratura”

23 novembre 1995

Prof. Leonardo Gallotta
Letteratura italiana

 

Ciò che andrò a proporvi nel Corso di quest’anno non sarà una lettura estetica di alcuni testi, non ci metteremo a leggere poesie o passi di romanzi, cercheremo invece di focalizzare la nostra attenzione su importanti testi e autori che hanno fatto la Storia della nostra letteratura secondo un’ottica che andrò successivamente a precisare. Questa sera sarà dedicata ad alcune riflessioni preliminari che considero tutt’altro che superflue, perché volte ad illustrarvi il cammino che intendo percorrere, le sue modalità e soprattutto le categorie interpretative a partire dalle quali testi e autori saranno analizzati e giudicati. Fin da ora voglio comunque fissare i limiti entro i quali si svilupperà il Corso. Non tratterò infatti di letteratura mondiale, ma di quella occidentale in genere e più precisamente di quella italiana in sé e nei suoi rapporti con quella europea. Posso anche già anticiparvi che la prossima volta partiremo da considerazioni sulla realtà letteraria del Novecento, esamineremo cioè le dominanti di questo nostro secolo che vien detto anche “secolo della crisi”. E allora, partendo dalle linee di tendenza della letteratura contemporanea – vi posso dire comunque che non arriveremo sicuramente a parlare dell’ultimo Campiello – vedremo se è possibile risalire ad una identità della cultura italiana ed europea. In una società sempre più multietnica, in una società in cui i termini mondialismo e globalizzazione sono sulla bocca di tutti, perché mai non dovremmo andare alla ricerca della nostra identità, delle nostre radici e chiederci: esiste una civiltà italiana nel contesto di una civiltà europea? E qual è questa civiltà italiana, quali sono queste radici? Ecco, questo è lo scopo che, attraverso la Letteratura e la sua storia, mi sono prefissato: riscoprire le radici culturali della nostra identità. Torniamo a tema. Che cos’è la Letteratura? La risposta a questa domanda potrebbe apparire veramente molto semplice. Quando usiamo il termine “Letteratura” – con la maiuscola – abbiamo in mente, grosso modo, di che cosa si tratta. Non c’è nessuno che, anche minimamente acculturato, non si ricordi una poesia, un racconto o un romanzo letto e che non possa dire: sì, quella è Letteratura! Il problema non è tuttavia di così semplice soluzione e, se volessimo tentare di giungere ad una formalizzazione definitoria, le cose ci si complicherebbero notevolmente. Dice Rinaldo Rinaldi, curatore della voce “Letteratura” nel primo volume de Gli strumenti del sapere contemporaneo, edito dalla UTET, che oggi “la nozione di letteratura ha perduto buona parte della sua trasparenza, della sua ovvietà…essa è diventata sempre più…un insieme non strutturato di elementi e di motivazioni eterogenee che sembra incapace di indicare, una volta per tutte,e universalmente,la sua funzione, i suoi fondamenti, i suoi procedimenti“. Sull’inadeguatezza di ogni sforzo definitorio insistono, tra molti altri, Jacques Dubois, Pierre Bourdieu, Tzvetan Todorov ed anche Marshall Mc Luhan. Mi pare evidente che, stando così le cose, dovrei dichiararmi sconfitto in partenza e quindi abbandonare ogni tentativo che avrebbe solo le caratteristiche della velleitarietà. Pensate che il Rinaldi, nel suo studio, cita ben centocinquantatre autori che si sono interessati di problemi generali inerenti alla Letteratura. Non ho nessuna pretesa e tuttavia – quid temptare nocebit? – non posso esimermi dal cercare di dare una risposta. Che cos’è la Letteratura? Non farò analisi sofisticate – rimarremmo sul punto per tutto l’anno – e non chiamerò nemmeno in causa la filosofia estetica. Arriveremo ad una possibile, anche se non esaustiva, definizione? Per rispondere alla domanda dobbiamo inevitabilmente porcene un’altra: è possibile definire un testo come “letterario”? La prima grande e importante distinzione da farsi è quella fra un testo in versi e un testo in prosa. Il primo è facilmente riconoscibile come testo letterario, in quanto l’autore, anonimo o collettivo o individuato, con il solo fatto di scrivere in modo inconsueto rispetto alla normale comunicazione, manifesta con chiarissima evidenza la sua intentio letteraria. Non è infatti questione di un giudizio di valore – sono qui ben lontano dalla distinzione tra poesia e non poesia fatta da Benedetto Croce – non si tratta cioè di giudicare sulla maggiore o minore bellezza di un testo poetico, perché anche il più modesto e improvvisato e popolare versificatore produce, per il solo fatto di esprimersi in versi, un testo poetico e quindi letterario. Ho prima parlato di “normale comunicazione” e qui il discorso da fare, sulle modalità cioè con cui l’uomo comunica con i propri simili, sarebbe veramente smisurato. Diciamo che si può operare una fondamentale divisione, quella tra comunicazione orale e comunicazione scritta, ma che esiste anche una comunicazione – di sterminata ampiezza e diversa da paese a paese – che si avvale di segni e che potrebbe essere definita comunicazione non verbale. Riprendiamo tuttavia il nostro discorso. Se, per ciò che ho detto, un testo in versi è facilmente identificabile come “letterario”, le cose si complicano per un testo in prosa. Facciamo un esempio “al limite”. Una lettera, un’epistola può essere considerata un testo letterario? Sì e no. Essa, che rientra nel grande ambito della comunicazione scritta, per essere considerata un testo “letterario”, abbisogna dell’individuazione di alcune caratteristiche. Il problema relativo alla “letterarietà” di un testo e non solo – anche quello ad esempio concernente la funzione della Letteratura – è di tale importanza che ogni docente dovrebbe almeno porselo e porlo ai propri allievi, cosa che avviene assai di rado. Facciamo un’altra considerazione. Se avessimo tra le mani una Storia della Letteratura greca o latina e decidessimo di intraprenderne lo studio, ci imbatteremmo in storici come Erodoto o Livio o addirittura in filosofi come Aristotele, Platone o Seneca. E allora potremmo chiederci: come mai questi autori che sono degli storici, che sono dei filosofi, sono collocati in una Storia della Letteratura? La Letteratura è una cosa, la Storia e la Filosofia sono un’altra cosa. La risposta è che un’opera storica, un’opera filosofica e addirittura un’opera scientifica, nell’antichità venivano considerate “opus rhetoricum”. Che cosa significa “opus rhetoricum”? Significa che l’opera veniva composta utilizzando tutta una serie di strumenti, tutta una serie di tecniche retoriche che consentissero di ottenere un determinato risultato dal punto di vista della forma, una forma però non fine a se stessa. L’autore di un’opera storica, ed anche filosofica, anzitutto voleva convincere – o entusiasmare – il proprio lettore a una sua tesi. Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per autori più vicini a noi. Anche scrittori “politici” come Machiavelli o Guicciardini sono trattati nelle Storie della Letteratura italiana e così pure, nel Seicento, Galileo Galilei che dovrebbe essere forse considerato più scienziato che letterato ed essere quindi collocato in un manuale di Storia della Scienza. Anche in questi casi vale lo stesso discorso. Sulla scia della concezione dell’opera letteraria degli antichi, pure questi autori considerano l’opera, anche attinente a discipline non strettamente letterarie, comunque “opus rhetoricum”. Intendiamoci, è fuor di dubbio che esistono anche testi non letterari sia nell’antichità sia in tempi più vicini a noi, ma l’opera storica o filosofica o scientifica comincia a diventare specificatamente “saggio”, “trattato” o”manuale” – non sempre, non in tutti i casi e con prodromi secenteschi – a partire dal Settecento, quando il sapere non è più considerato un sapere globale – l’Encyclopédie è una catalogazione di saperi – ma comincia ad essere un sapere specialistico, settoriale. Tale tendenza si accentuerà sempre più fino ai giorni nostri. Torniamo agli antichi, ad un autore che mi ha fornito qualche importante spunto per tentare di definire un testo come “letterario”. Si tratta di Lucrezio, autore del famoso poema De rerum natura, titolo identico – tradotto in Latino – a quello dell’opera del suo maestro, il Perì fyseos di Epicuro che non ci è peraltro giunto. Premetto, a scanso di equivoci, che la mia visione del mondo è al tutto lontana da quella di Lucrezio e quindi di Epicuro, atomista materialista, posto in Inferno come eresiarca da Dante: “Suo cimitero da questa parte hanno / con Epicuro tutti suoi seguaci, / che l’anima col corpo morta fanno” (Inferno, X, 13-15). Non è però questo che deve ora interessare il nostro discorso. Quello di Lucrezio è un poema filosofico, scritto quindi in versi e lontano quindi dalle necessità di rigorosa formalizzazione concettuale della filosofia. Perché questa scelta da parte sua? Teniamo presente che lo scopo dichiarato di Lucrezio è proporre – al dedicatario Gaio Memmio in primis – la filosofia di Epicuro. Tra l’altro sappiamo che Epicuro condannava la poesia, in particolare quella amorosa, poiché la riteneva un ostacolo al raggiungimento dell’atarassia. L’accettava soltanto a patto che si risolvesse in un piacevole trattenimento per l’anima, poesia insomma come divertimento, come lusus. L’entusiasmo lucreziano per la propria poesia sembrerebbe pertanto contraddire l’ideale di equilibrio interiore proprio di Epicuro. Lucrezio stesso, però, in un famoso passo, ripreso anche da Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata, spiega i motivi della sua scelta. Occorre dire che Lucrezio riteneva la filosofia epicurea – intesa come ascesi che avrebbe dovuto portare al raggiungimento dell’atarassia – piuttosto difficile da comprendere e anche da praticare. Sicuramente non ne dava l’interpretazione lasciva e godereccia che molti – a causa della teoria epicurea del piacere – assumevano. Si pensi ai famosi versi di Orazio coi quali, facendo la caricatura di se stesso in quanto seguace di Epicuro, chiudeva l’epistola ad Albio Tibullo: “Me pinguem et nitidum bene curata cute vises / cum ridere voles, Epicuri de grege porcum“. Traduzione: “Verrai da me, se vorrai ridere, e mi troverai con la pelle ben curata, lucido e grasso come un maiale del gregge di Epicuro”. Lucrezio, dopo essersi vantato per la novità del genere da lui trattato – un poema filosofico – e per il fatto di comporre versi chiari riguardo ad una dottrina difficile, toccando ogni cosa col fascino delle Muse, fa un paragone. Cito ora un po’ liberamente e sintetizzando dai versi 935-950 del I Libro: “Come i medici, quando debbono dare delle medicine amare cospargono di miele i bordi della tazza in modo che i fanciulli siano ingannati dalla prima sensazione di dolcezza, così faccio io con il miele delle Muse per poter esporre dottrina e metodi piuttosto ostici e aborriti dal volgo”. Insomma, Lucrezio vuole veicolare idee, ma se lo facesse in modo filosoficamente molto formale, il suo uditorio sarebbe ridotto ad una strettissima cerchia di persone. Tramite il miele delle Muse, cioè tramite un testo poetico, egli ritiene invece di poter allettare e attrarre alla filosofia epicurea una cerchia più larga di possibili seguaci. Questa considerazione è a mio avviso molto importante, in quanto ci fa capire che il testo poetico, e quindi letterario, insiste primariamente sul modo di sentire dell’uomo, ossia lo attrae, lo appassiona, parlando prima al cuore e poi alla mente, veicolando quindi, ma in secondo momento, anche idee. Certamente un testo letterario non sempre veicola idee – il caso di Lucrezio è molto specifico, anche perché non è facile imbattersi in poemi filosofici – ma potremmo pensare anche a Platone che, ad esempio, utilizza uno strumento diverso, un altro tipo di genere letterario che è il dialogo. Intendiamoci, i dialoghi di Platone sono di livello molto elevato e tuttavia la scelta di Platone è sulla stessa linea che abbiamo individuato in Lucrezio, per cui i dialoghi, anche solo a causa del contenitore, cioè il genere letterario, rivelano l’intentio – letteraria – del grande filosofo. Abbiamo detto che un testo letterario deve innanzitutto attrarre e pertanto insiste sulle sensazioni e sui sentimenti dell’uomo per appassionarlo. Il termine passione non deve essere inteso in senso spregiativo, ma in modo neutro. Esiste la passione per il male e la passione per il bene e questo in ogni campo. Quindi quando dico che il testo letterario vuole appassionare, non intendo assolutamente che ciò sia negativo. E’ solo un dato di fatto. Facevo riferimento, all’inizio del mio intervento, all’epistola. L’epistola è un genere letterario? Che cosa è un genere letterario? Esso è una cornice, un contenitore, già codificato o eventualmente da codificare, da cui si ricava – unitamente al materiale retorico utilizzato che andrà a dare corpo allo stile – l’intentio letteraria dell’autore. L’epistola è un genere letterario? Sì e no, anche perché sto parlando di casi limite. Ebbene, nell’antichità, troviamo alcune raccolte di lettere – penso ad esempio alle Epistulae ad Lucilium di Seneca – che rivelano chiaramente l’intentio letteraria, in primo luogo perché sono state scritte con l’esplicito proposito della pubblicazione e in secondo luogo perché l’autore utilizza tutti quegli strumenti retorici che rivelano una così evidente preoccupazione formale che non possiamo non ricavare, in modo inequivocabile, la presenza di tale intentio. Un caso a sé e veramente al limite è costituito dall’epistolario di Cicerone. Le epistole furono raccolte in gran parte dallo stesso Cicerone in vista di una futura pubblicazione che non avvenne però mai. Ci troviamo dunque di fronte a testi che sono stilisticamente lontani dal resto della sua produzione, anche perché non rivisti dal punto di vista formale. Certo se Cicerone avesse potuto provvedere personalmente alla pubblicazione, avrebbe con tutta probabilità escluso molte di queste lettere, spesso assai confidenziali e riservate alle persone più fidate. Sono lettere dunque in cui la comunicazione informativa prevale e la cifra stilistica non è quella del sermo litterarius, ma quella del sermo cotidianus. Che poi questo sermo cotidianus sia spesso gradevole, deriva dal fatto che non è proprio di un comune mortale, ma di una persona che anche nella normale comunicazione fa comunque sempre sentire, anche linguisticamente, il peso della sua cultura. Tale essendo il materiale pervenuto, avrei francamente difficoltà a considerare testo letterario le epistole ciceroniane. Non è il caso delle Epistole del Petrarca che son scritte col dichiarato intento di produrre un’opera letteraria. Basterebbe pensare all’inconclusa e autobiografica Epistola Ad Posteros che non è precisamente una lettera comunicante informazioni spicciole! Per concludere potremmo dire che un testo letterario è un testo scritto che insiste sulle sensazioni, sui sentimenti e sulle passioni dell’uomo facendo uso allo scopo di tutti quegli strumenti tecnici che vanno sotto il nome di retorica e utilizzando un genere letterario codificato o suscettibile di codificazione. E’ infatti da ciò che si evince l’intentio letteraria dell’autore. La Letteratura allora può esser definita come l’insieme dei testi letterari che sono stati prodotti e sono prodotti nella Storia. Nella definizione che ho dato di testo letterario non ho parlato di contenuti, anche perché se ci si dovesse basare su di essi a livello definitorio, la soggettività regnerebbe sovrana. Perché infatti dovrebbe essere più letterario un testo che parla d’amore piuttosto che di guerra, di storia, di religione o di problemi sociali? Un testo letterario non ha limiti quanto ai contenuti, ai messaggi, alle idee che vuole trasmettere, certamente in via secondaria – altrimenti non sarebbe letterario – ma non per questo meno importanti. A questo punto dobbiamo andare a vedere come affrontare questo testo letterario che ho cercato di definire. E se noi andiamo a vedere come si interviene oggi sul testo letterario, scopriamo che vi sono molti e diversi approcci. Se prendiamo ad esempio un testo come I metodi attuali della critica in Italia di Maria Corti e di Cesare Segre notiamo che la suddivisione comprende critica sociologica, critica simbolica, critica psicanalitica, critica stilistica, critica linguistica, critica formalistica, critica strutturalistica ed anche la disciplina critica più recente, quella semiologica. Altri testi, come L’analisi letteraria di Angelo Marchese esaminano anche altri tipi di critica, quella storicistica, ad esempio di Luigi Russo e dei suoi seguaci, e poi quella marxista – presente anche in Corti-Segre, ma nel capitolo dedicato alla critica sociologica – dal momento che il marxismo ha fornito categorie interpretative che sono state applicate anche alla Letteratura. Quando poi la critica si esprime con modalità ideologicamente dichiarate e fuori dai tradizionali canali accademici, si parla anche di critica militante. A questo punto rilevo e mi chiedo: se viene indicata una critica marxista, come mai non è indicata una critica cattolica? Mi sembra di poter dire che oggi non esiste una critica cattolica – o almeno dichiarata come tale – alla Letteratura. Certamente ci sono alcuni critici che sono cattolici, ma quanto del loro cattolicesimo entra in questo tipo di critica? Quali le loro categorie interpretative? Leggendo testi di critica, specialistica e scolastica, faccio veramente fatica a trovare – singoli e sparsi interventi sicuramente non fanno “corrente critica” – una critica cattolica che sia chiaramente inquadrabile e che soprattutto abbia una qualche influenza culturale. Questa sera, dunque, cercherò di farvi comprendere qual è il tipo di critica che io intendo svolgere nell’affrontare i testi, anche perché sono i testi che fanno la Letteratura. E’ vero che essi non ci sarebbero se non ci fossero gli autori, ma gli autori muoiono, mentre i testi restano e parlano e continuano a parlare. Il compito del critico è quello di interrogarli. Non l’autore, ma il testo. Diciamo Dante, ma intendiamo la sua opera. Ho detto poco fa che la Letteratura è l’insieme dei testi letterari che sono stati prodotti e sono prodotti nella Storia. Ora, in ogni processo storico – secondo quanto suggerisce Plinio Correa De Oliveira – si possono osservare tre tappe: tendenze, idee, fatti. Esse “non si differenziano sempre nitidamente le une dalle altre” e “il grado di chiarezza varia molto da un caso concreto all’altro”. Mi pare comunque palese una cosa e cioè che la Letteratura attiene al campo delle tendenze. La Letteratura infatti – se è vero che i testi letterari insistono sulle sensazioni, sui sentimenti e sulle passioni dell’uomo – induce con ogni evidenza atteggiamenti che producono tendenze. Se dunque andiamo a leggere la Storia, notiamo che prima che si produca un fatto c’è sempre stata un’azione culturale che ha prodotto tendenze e idee o viceversa. La Rivoluzione francese non si è prodotta per caso. Prima di arrivare ai fatti – l’incessante “lavoro” della ghigliottina – c’è stata una insistente e penetrante azione culturale degli Illuministi che ha prodotto un modo rivoluzionario di essere e di pensare. La Letteratura, abbiamo detto, attiene al campo delle tendenze e agire sulle tendenze significa “fare” cultura, dal momento che cultura non significa solo erudizione. Cultura è infatti anche il modo di atteggiarsi e di comportarsi. A questo punto i contenuti, i messaggi, le idee che trasmette la Letteratura non possono più lasciarci indifferenti. Una cosa è Tanto gentile e tanto onesta pare di Dante, un’altra cosa un sonetto lussurioso di Pietro Aretino. Una cosa i Promessi sposi di Alessandro Manzoni, un’altra cosa un romanzo del marchese De Sade. La mia sarà dunque una critica sociologica oppure sociologia della Letteratura? L’una e l’altra, ma sarà anche critica storica, sarà anche critica morale. Vorrà essere soprattutto una critica cattolica militante. La Letteratura parla all’uomo e dell’uomo, parla all’uomo singolo e dell’uomo singolo, parla all’uomo associato e dell’uomo associato, parla alle passioni e delle passioni dell’uomo. Come non ricordare il terenziano Homo sum, humani nil a me alienum puto? Relativamente ai testi in sé potremo parlare di maggiore o minore validità ed efficacia,ma relativamente ai comportamenti indotti dovremo giudicare dove e a che cosa essi portano. Il mio sarà dunque un apporto critico settoriale alla più ampia azione culturale che ci siamo proposti con la Scuola di Educazione Civile., un’azione volta a descrivere la crisi del mondo moderno e ad indicarne poi la possibile via di superamento, a partire da quei valori perenni che saldano l’humanitas classica alla visione cristiana del mondo. Certo, in un mondo sempre più condizionato dai mass-media, l’interesse e lo studio della Letteratura del passato e del presente sembrano ormai cosa per pochi cultori. Non è vero del tutto – c’è anche una letteratura di consumo i cui testi sono molto letti e mai citati nei manuali – ma è sicuramente vero che ci sono oggi altri e potenti mezzi della comunicazione – musica, cinema, televisione, internet – che inducono modi di essere e di agire dell’uomo contemporaneo. Anche per questi settori vi sarebbe necessità di intervenire criticamente, ma non a tutto si può arrivare, almeno per ora. A difesa dello studio e dell’interesse per la Letteratura – tenuto conto che all’inizio ho affermato di volervi condurre alla ricerca delle nostre radici culturali – mi pongo e vi pongo questa domanda: se vogliamo scoprire l’anima di un popolo, volgiamo la nostra attenzione a un testo storico, filosofico, scientifico oppure a un testo letterario? La risposta a tale quesito – come è ormai evidente – l’ho già data da tempo.


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