Storia della economia del Novecento — seconda lezione

Lezione tenuta dal dott. Mario Gallotta l’8 febbraio 2001

Mario Gallotta

Contributi per la comprensione del Novecento:
Storia della economia del Novecento — seconda lezione

 

Riprendiamo il discorso dal punto in cui l’avevamo interrotto l’altra volta. Come ricorderete, accennammo ad una periodizzazione della storia economica per avvicinarci al Novecento, cercando di collegare e correlare le varie fasi della storia dell’economia alle tappe della Rivoluzione. Secondo l’insegnamento di Plinio Corrêa de Oliveira, noi abbiamo grosso modo una prima Rivoluzione che è quella Protestante, una seconda Rivoluzione che è quella Francese, una terza Rivoluzione che è quella Comunista. Dopodiché il De Oliveira parla, sia pure in maniera sommaria ma certamente profetica, di una quarta Rivoluzione, cioè di quella Rivoluzione che tende ad insidiare l’uomo nella profondità del suo essere, che aggredisce l’essere umano in interiore homine. Circa la Rivoluzione Protestante, l’altra volta parlammo del Calvinismo e della novità che la dottrina calvinista introdusse nelle relazioni socio-economiche tra gli uomini. In particolare, da un testo di storia che si usa all’Università, lessi ed ora rileggo per chi non c’era questo passo: “Per volontà imperscrutabile di Dio alcuni eletti erano predestinati da sempre alla salvazione, tutti gli altri erano dannati. La salvezza non dipendeva dai meriti dell’individuo, ma dalla Grazia divina. L’individuo, però, non doveva rassegnarsi passivamente al proprio destino, ma ricercare continuamente dentro di sé i segni della sua appartenenza alla schiera degli eletti. Questa ricerca attiva e incessante si attuava anche nella vita di ogni giorno, nella quale l’eletto era chiamato ad impegnarsi: il successo personale, il dovere compiuto, il lavoro ben eseguito, erano quasi un rito religioso celebrato in onore di Dio. Per il Calvinismo la vocazione di ognuno e dunque anche il suo ruolo sociale e professionale si legava così in positivo alla predestinazione, dando vita ad una nuova etica del lavoro. Per quanto riguarda il denaro, esso doveva essere impiegato, oltre che per il proprio sostentamento e per quello dei poveri, in attività produttive che generassero a loro volta nuovi guadagni. Anche negli affari, il successo era segno della predestinazione divina. In un’etica come questa, nella quale trovavano un ruolo eminente anche attività come quella del mercante e del banchiere e più in generale le attività di chiunque maneggiasse denaro, tramontava veramente l’etica medioevale”. E quindi abbiamo concluso l’altra volta che effettivamente questo aspetto è importante perché si introduce un elemento di rottura rispetto all’etica medievale, etica che ovviamente riguardava anche gli aspetti economici. Abbiamo poi anche citato Max Weber, che nel suo saggio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” sostenne che le chiese protestanti e in particolare quella calvinista avevano contribuito a creare una concezione della vita che incoraggiava il risparmio e lo spirito di impresa. Weber sosteneva che la nuova etica della riforma aveva incoraggiato ulteriori sviluppi del capitalismo, perché coloro che credevano in essa pensavano che l’accumulazione di capitali fosse sanzionata da un disegno divino. I vecchi scrupoli del Medioevo verso l’usura e il profitto svanivano così di fronte ad una dottrina che poteva giustificare l’arricchimento con i più alti principi morali. Il capitalismo aveva trovato i suoi ideologi: da allora in poi la borghesia calvinista fu la grande promotrice dell’avanzata capitalistica e i circoli commerciali di Inghilterra ed Olanda divennero i suoi alfieri.

Se dunque la Rivoluzione Protestante incide sulla storia economica cercando di liberare l’umanità dai doverosi scrupoli che venivano tenuti in gran conto durante il Medioevo, passando alla seconda grande tappa del processo rivoluzionario – la Rivoluzione Francese – tra gli altri aspetti negativi che incisero sulla vita religiosa, sociale e politica, essa ne ebbe anche uno che non viene considerato particolarmente rilevante rispetto agli altri, ma che indubbiamente segnò una frattura con il passato: mi riferisco alla legge Le Chapelier del 1791 che abolì le Corporazioni, ed abolendo le Corporazioni diede via libera al gioco della domanda e dell’offerta senza più alcuna regola. Le Corporazioni funzionavano come sindacati professionali o di mestiere (apolitici però): erano società di mutuo soccorso fra gli iscritti alle Corporazioni e avevano anche il compito di calmierare il mercato perché non ci fosse la svendita del proprio sapere o della propria opera. Ovviamente quando la legge della domanda e dell’offerta sono totalmente libere, quando non c’è nessun intervento regolatore, quando la mano invisibile di cui parlava Adam Smith fa quello che le pare, succede poi che c’è una rincorsa verso il basso che non tutela più nessuno. Facendo un paragone rispetto all’attuale società, se noi pensassimo che non devono esservi limiti a questo gioco della domanda e dell’offerta voi capite bene che cosa accadrebbe: uno va a fare l’operaio e si sente dire: “Ti diamo un milione e 700 mila lire”, ad esempio. Poi si fa avanti un altro che dice “Io per un milione e sei sono disposto a lavorare”, poi un altro che dice: “Io anche per un milione e due”, poi arriva l’extracomunitario che dice “Io anche per 800 mila lire”. In questa corsa al ribasso alla fine che cosa succede ? Che che non essendovi alcun intervento regolatore, il più debole rischia di soccombere. Ora, questo duello, questo scontro, questo gioco della domanda e dell’offerta hanno una giustificazione quando vi è una sufficiente parità di forze, un accettabile equilibrio di forze fra i gareggianti. Entro certi limiti, è chiaro che quando le imprese si contendono un mercato è giusto che ci sia la concorrenza, ma quando vi è un forte squilibrio nei rapporti di forza, è inutile fingere che il gioco sia libero. Si tratta in realtà di qualcos’altro, perché quando la libertà diventa eccessiva sconfina in licenza e favorisce semplicemente il più forte e il più violento. L’altra volta abbiamo fatto il paragone della circolazione stradale o di una partita di calcio: se in una partita di foot-ball non vi fossero regole, anziché il più bravo vincerebbe il più violento, che azzopperebbe l’avversario, lo porrebbe nella condizione di non nuocere. E se dovessimo circolare nelle strade senza regole, alla fine trionferebbero quelli che fossero in grado di utilizzare autoblindo o carri armati, schiacciando gli latri. Il riferimento dottrinale che abbiamo citato in particolare è stato quello della Quadragesimo Anno, laddove Pio XI fa riferimento alla necessità che la libera concorrenza, che la libertà economica non si trasformi in predominio da parte di qualcuno, perché l’egemonia economica non solo non porta nulla di buono, ma è un prodromo poi di egemonia sociale e politica. Ad esempio, ad un certo punto il citato Pontefice dice, nella Quadragesimo Anno: “E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento”. Dice poi in un altro punto: “A ciò si aggiungano i danni gravissimi che sgorgano dalla deplorevole confusione delle ingerenze e servizi propri dell’autorità pubblica con quelli dell’economia stessa, quale, per citarne uno solo tra i più importanti, l’abbassarsi della dignità dello Stato che si fa servo e docile strumento delle passioni e ambizioni umane, mentre dovrebbe assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni passione e intento al solo bene comune e alla giustizia”. Poi denuncia, con parole anche queste davvero profetiche, “l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro per cui la patria è dove si sta bene”. Pio XI denuncia cioè lo sradicamento, ad opera dell’ideologia collegata al denaro, dell’uomo dalle sue vere radici: dalla famiglia, dalla patria e da tutte le altre comunità nelle quali l’uomo svolge la sua attività.

La Rivoluzione Francese dunque, in nome della famosa liberté, ha provocato dal punto di vista economico il trionfo della borghesia, perché non dobbiamo mai dimenticare che la Rivoluzione Francese è una rivoluzione borghese, che poi nel processo dialettico porta in sé il germe di quella che sarà la rivoluzione proletaria. Se infatti la Rivoluzione Comunista riesce a trionfare, ciò è dovuto anche (non certamente solo, ma anche) al fatto che, come denunciava Pio XI, l’egemonia economica, il potere dispotico di pochi, le condizioni veramente sciagurate in cui molti vivevano hanno predisposto il terreno al successo del verbo socialista e comunista. Noi sappiamo bene che agli ideologi del comunismo poco importava delle condizioni miserevoli degli operai e dei proletari durante la Rivoluzione Industriale : mi pare infatti ci sia una frase, non ricordo di chi e sto citando a memoria, che suona così: ” …Marx cercando la Rivoluzione incontrò il proletariato”. L’affermazione è esatta e comprovata dalla storia, tant’è vero che abbiamo visto come, in particolare dopo il 1945, nelle nazioni, negli stati, nei territori in cui non c’era materialmente il proletariato, i comunisti hanno cercato di mettere razza contro razza, tribù contro tribù , paese contro paese : dove non c’erano le classi sociali hanno comunque raccolto gli elementi di contrapposizione dialettica per scatenare la Rivoluzione e quindi se c’era divisione etnica si scatenava il conflitto etnico, se c’era una contrapposizione economica si scatenava quella economica e così via. Abbiamo quindi visto le popolazioni delle colonie aizzate contro gli stati colonizzatori e poi – una volta che la colonia era divenuta indipendente – la lotta dei partiti contro altri partiti , delle etnie contro altre etnie e così via. Se questo è vero, è però altrettanto vero che indubbiamente, come denunciava Pio XI, se non ci fosse stata una certa situazione, il verbo socialista e comunista avrebbero trovato parecchia difficoltà ad attecchire. D’altronde, queste sono considerazioni anche un po’ elementari, se vogliamo esprimerci in maniera semplice. E’ infatti evidente come una persona che sta abbastanza bene, che ha qualcosa da perdere, prima di rischiare, prima di scendere in piazza ci pensa, e se poi deve rischiare anche la galera o la vita riflette ancora di più. Di contro, quando un uomo si trova in una situazione per cui vive nella fame, nel freddo e nella miseria e non sa come sfamare i propri figli, a quel punto veramente rischia di trovarsi nella situazione – descritta da Marx e da Engels – dello schiavo, che nel ribellarsi non ha che da rimetterci, eventualmente, le proprie catene. Quindi se il comunismo certamente ha approfittato di questa situazione, bisogna anche dire che c’è chi l’ha creata, questa situazione. Situazione che ha favorito o creato l’humus ideale perché il verbo socialista e il verbo comunista potessero attecchire. D’altronde con una ideologia come quella che trionfò durante la Rivoluzione Francese si erano poste le premesse per lo stadio successivo, poiché nel momento in cui la liberté consente ai più forti di affermarsi, questi ultimi, traendo profitto dalla nuova condizione tendono ad aumentare sempre più il loro potere economico, generando una massa di proletari che poi fatalmente è portata, a causa dello sfruttamento, a ribellarsi. Abbiamo delle encicliche in cui si denuncia il fatto che i lavoratori non avevano neppure il tempo di dedicarsi alle pratiche religiose. Vi sono al riguardo affermazioni assai decise di Leone XIII – e molto illuminanti – nella Rerum Novarum. D’altronde, ripeto, quando non ci sono regole e quando non c’è libertà vera è chiaro che il profitto lasciato a se stesso è come un animale che si lancia nella corsa e non si ferma più. Il profitto è utile allo sviluppo della società a condizione che vi siano delle regole che lo frenino, perché è ovvio che un imprenditore a cui si dà la possibilità di aumentare a dismisura il profitto senza regole che cosa fa ? Cerca di aumentarlo finché può, ma questo è normale, è fisiologico, non è tanto colpa dell’imprenditore, ma è colpa dello Stato e della società che non pongono giusti limiti per evitare che si sviluppi un siffatto fenomeno. L’altra volta abbiamo anche citato un importante passo di Pio XI — importante perché spesso ci si sente dire: voi parlate di una società che è tutto sommato accettabile anche se non perfetta, ma questa società ce l’avete nel libro dei sogni, non è mai esistita, di cosa stiamo parlando?

Orbene Pio XI, sempre nella Quadragesimo Anno, scrive che “Vi fu un tempo in cui vigeva un ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte irreprensibile riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione, secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Quindi, come dice Pio XI, non ci sono da inventare dei modelli , perché è già esistito un esempio concreto, forse non perfetto, ma almeno accettabile, di società cristiana. E il riferimento alla cristianità medioevale è del tutto evidente. Aggiungo che, nelle discussioni intorno a questo tema, c’è sempre qualcuno che afferma: va bene, così si esprimeva Pio XI, ma ci sono altre fonti che confermano la sua descrizione della realtà? Questa è la parola di un Pontefice, che potrebbe anche essere facilmente contestabile dai non cattolici…

A questo punto noi potremmo rispondere, se conoscessimo bene anche gli scritti dei nostri avversari e dei loro ideologi , che la conferma ce la dà nientemeno che Carlo Marx. Egli infatti , nel suo Manifesto del Partito Comunista scritto insieme ad Engels, così afferma: “Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali: in Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e per di più anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. Dai servi della gleba del Medioevo sorse il popolo minuto delle prime città, da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia, la scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa, crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto e con ciò impressero un rapido sviluppo all’elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione. L’esercizio dell’industria, feudale o corporativo, in uso fino allora, non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura, il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani, la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni scomparve, davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa, ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre, neppure la manifattura era più sufficiente, allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All’industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna, al medio ceto industriale subentrarono i milionari dell’industria i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni. La grande industria ha preparato quel mercato mondiale che era pronto dalla scoperta dell’America, il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra, questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie si è sviluppata la borghesia, che ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal Medioevo. La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudale, patriarcale, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale [n.d.r.: allora vien da dire che Marx stesso riconosceva che ci fosse un superiore naturale, se le parole hanno un senso…] e non ha lasciato, tra uomo ed uomo, altro vincolo che il nudo interesse, il freddo pagamento in contanti, ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate ed onestamente conquistate [n.d.r. :allora c’erano anche delle libertà onestamente conquistate?] ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli”. Si nota poi, nel passo successivo, quella che è l’ammirazione marxiana per la borghesia: “solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo; essa ha compiuto ben altre meraviglie che piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate, la borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali”. Prosegue dicendo che “con l’azione della borghesia si dissolvono tutti i rapporti stabili ed irrigiditi con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare, si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione ed i propri reciproci rapporti”.

Questo testo per me è illuminante, poiché conferma ciò che dice Pio XI e di solito – se si partecipa a un dibattito – pone l’avversario in un certo imbarazzo.

È interessante infatti notare che il Manifesto del Partito Comunista da un lato contiene l’ ammissione che è esistita una società, un modo di vivere che aveva evidentemente dei valori che sono quelli nei quali noi ci riconosciamo, dall’altro rivela prova una grande ammirazione per la borghesia. Perché se la borghesia non avesse lacerato tutti i vincoli feudali non si sarebbero poste le premesse per lo sviluppo successivo, cioè se la rivoluzione che Marx ha in mente è la rivoluzione che vede il proletariato come protagonista, come non ringraziare la borghesia che ha creato il proletariato? Qualcuno doveva operare perché si realizzasse una situazione in cui il proletariato avesse potuto fungere da leva per la rivoluzione: lo ha fatto la borghesia, e Marx ringrazia quindi la borghesia. In un altro passo si parla della borghesia come di quel ceto che produce la stessa corda con la quale sarà poi impiccata.In effetti, se pensiamo poi a quello che è avvenuto in tutti i paesi nei quali i comunisti sono andati al potere, la previsione si è tragicamente avverata. Dunque in sequenza : Rivoluzione Protestante, Rivoluzione Francese, Rivoluzione Comunista.

Il verbo di Marx viene raccolto da Lenin , che poi lo porta al successo anche grazie all’aiuto dei Tedeschi. Penso sappiate infatti che il successo di Lenin fu favorito dalla Germania che era in guerra con la Russia durante la prima guerra mondiale. Gli imperi centrali si trovavano in conflitto con la Russia zarista, la Gran Bretagna la Francia e poi l’Italia ed erano alleati con l’Impero Ottomano. Per farla breve è chiaro che i Tedeschi avevano l’interesse contingente di togliersi dai piedi la Russia. Quale mezzo migliore, quindi, perché si sfaldasse l’esercito russo che non l’infiltrazione in territorio nemico di un rivoluzionario come Lenin? Certo probabilmente i generali del Kaiser non pensavano che poi sarebbe successo quello che è avvenuto, però c’è stata una responsabilità della Germania anche in questo… Comunque Lenin, a seguito di varie vicende a voi note riesce a prendere il potere e una volta che ha preso il potere ovviamente cerca di realizzare il comunismo. Abbiamo così quello che poi è passato alla storia come socialismo reale, cioè quel tipo di società nel quale la proprietà privata e l’iniziativa privata vengono del tutto annullate, salvo in momenti particolari, nei quali per sopravvivere è necessario dare un po’ di respiro a questo tipo di attività. Ci siamo poi soffermati anche l’altra volta, ricordate, sul crollo del comunismo, del socialismo reale laddove realizzato, riflettendo sul fatto che non sono arrivati i marines sulla piazza rossa c’è stata un’esplosione che è stata piuttosto un’implosione. Abbiamo cioè visto il castello del potere sovietico che si è sgretolato dal di dentro, perché quando si tenta di realizzare un’utopia forzando quelli che sono i principi naturali, richiamati da Pio XI, sui quali si fonda l’umana convivenza, poi questo volere forzare le cose, questo volere violentare la natura dell’uomo e della società produce un crollo che si può manifestare nella storia in tanti modi diversi.

Per quanto riguarda il comunismo si è manifestato con modalità che tutti abbiamo potuto osservare tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta : modalità tra l’altro non previste da nessuno, perché … tutti i cremlinologi e gli esperti non avevano certo profetizzato né per quella data né in quel modo un possibile crollo del comunismo, soprattutto tenendo presente che l’Unione Sovietica disponeva di un esercito che se non era il primo al mondo era comunque il secondo, armato fino ai denti. Per tal motivo c’è anche, per chi guarda le cose in maniera superficiale e non possiede le nostre categorie, un po’ un mistero nel crollo di questo regime che disponeva di vastissimi appoggi internazionali, di complicità diffuse ed insospettabili, di una polizia efficientissima, di forze armate moderne ed agguerrite…

Dal punto di vista dell’analisi della società abbiamo poi fatto riferimento, nella precedente lezione – dopo aver parlato del crollo del comunismo – alla Quarta Rivoluzione. Esaminata cioè la prima Rivoluzione – quella Protestante – la seconda – quella Francese – la terza, quella Comunista, ci siamo chiesti che cosa sia successo dopo. Ebbene, è accaduto che ci siamo trovati di fronte ad un’altra fase della Rivoluzione, perché se la Rivoluzione, come insegna Plinio Corrêa de Oliveira, è un processo, questa rivoluzione non si arresta, può mutare le spoglie sotto le quali si presenta, può cambiare uomini, metodi, tattiche, ma porta avanti sempre il suo discorso, perché la Rivoluzione, almeno secondo il nostro modo di vedere, parte dal ‘non serviam’ di Lucifero. La prima rivoluzione in assoluto è il peccato, cioè il rifiuto dell’ordine naturale voluto da Dio. E siccome questo rifiuto costante nel corso della storia si manifesta anche nell’ordine sociale, il processo rivoluzionario ovviamente è andato avanti. È andato avanti con la Quarta Rivoluzione, quella cioè che tende a colpire l’uomo nelle sue più intime profondità, trovando (almeno secondo, me, perché Plinio Corrêa de Oliveira non c’è più e quindi non abbiamo più a disposizione le sue intuizioni profetiche) il suo humus ideale nella società post-industriale, della quale parlammo anche l’anno scorso, cioè la società nella quale le gerarchie tipiche della società industriale sono venute meno. Quest’ultima aveva certamente i suoi difetti, però era un tipo di società nella quale il concetto di gerarchia esisteva mentre ad essa è succeduto un modello di società nuova nella quale il concetto di gerarchia tende addirittura a sparire. Voi capite bene, a questo punto, che ci troviamo di fronte ad un possibile peggioramento, ad un peggioramento tout court perché nel momento in cui c’è una scala gerarchica posso anche proporre – visto che quella scala gerarchica è mal strutturata – di sostituirla con un’altra rettamente ordinata, ma quando è in pericolo lo steso principio di gerarchia, quando esso tende a scomparire, a diluirsi nel fluire delle vicende sociali, diventa poi difficile anche recuperare il principio stesso di gerarchia e ricostituire una scala gerarchica accettabile.

Circa la società post-industriale, leggo alcuni passi di un mio articolo nel quale si dice: “La società industriale, caratterizzata dai grandi opifici popolati da immense masse di operai, dall’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor ed applicata innanzitutto da Henry Ford, dalla ferrea gerarchia aziendale, dalla verticalità dei rapporti e dalle città satelliti lascia dunque il posto ad una società maggiormente creativa, più bisognosa di servizi che di beni, disposta a cerchi concentrici anziché a piramide, più orizzontale e meno legata ai vincoli del passato”.

Già nel 1996 Domenico De Masi — sociologo del lavoro che si è dedicato molto allo studio della società post-industriale — notava che, mentre all’epoca di Marx su cento lavoratori nelle fabbriche novantasei erano operai e quattro impiegati “… oggi in molte aziende novanta sono impiegati e dieci sono operai. Il lavoro manuale dentro le aziende viene sempre più affidato alle macchine perché conviene economicamente e in più diminuisce la conflittualità. Con la società industriale vengono meno anche i valori che la sorreggevano, nel bene e nel male”.

Alla società industriale si sostituisce un modello di vita e di lavoro, o meglio ancora un modo completamente diverso di vivere che può essere efficacemente descritto nel seguente modo: essere svegliati alla mattina da un “giornale radio” che offre notizie da tutto il mondo, farsi la doccia sotto un rubinetto tedesco e con un sapone francese, andare in ufficio con un automobile disegnata in Italia ma che ingloba pezzi giapponesi e coreani, gareggiare sui mercati mondiali con capitali joint venture, vendere merci e informazioni su tutte le piazze del pianeta, ascoltare un disco registrato negli studi di vari paesi e mixato in altri ancora, sapere che un virus può fare il giro del mondo e infettarlo in pochi giorni, vivere in una città, lavorare in un’altra, fare le ferie in un’altra ancora raggiungendo ognuna di esse in un batter d’occhio; dialogare in tempo reale attraverso la posta elettronica, parlarsi e vedersi attraverso gli oceani e i continenti.

Questo è un quadro che descrive in maniera abbastanza efficace la società post-industriale, la società in cui viviamo, la società nella quale c’è un’evidente tendenza – che si sta realizzando – alla confusione e allo sradicamento. Voi sapete che secondo la lezione di De Oliveira la Rivoluzione procede in questo modo: prima vi sono le tendenze, poi vi sono le idee, quindi abbiamo i fatti. Dunque le tendenze non devono assolutamente essere sottovalutate perché quando noi vediamo che vi sono certe tendenze in atto dobbiamo poi pensare che dopo queste verranno le idee, cioè la codificazione ideologica delle tendenze stesse : poi seguiranno i comportamenti concreti, cioè i fatti.

Ora la società post-industriale, cioè la società nella quale il principio di gerarchia, le grandi fabbriche, un certo modo di concepire i rapporti umani riconoscendo i ruoli di ciascuno è scomparsa. Non c’è niente da fare. Ci sono ancora alcune isole, ma quel tipo di società non c’è più. Se uno andasse a visitare oggi la Pirelli o la Fiat, in queste grandi fabbriche non vedrebbe nulla delle caratteristiche che erano ad esse proprie grosso modo fino agli anni Settanta. Possiamo anche dire che la società post-industriale, che già costituisce l’humus più adatto all’attecchimento della Quarta Rivoluzione, o di virus tipici della Quarta Rivoluzione, ha avuto poi uno sviluppo a mio avviso pericoloso anche se tutto da studiare, perché i fatti accadono sotto i nostri occhi e si sviluppano con una velocità tale per cui è anche difficile seguire gli avvenimenti e cercare di inserirli in un ordine accettabile Indubbiamente, tuttavia, l’affermazione della cosiddetta new economy ha avuto un’importanza notevole, ha dato un colpo di acceleratore allo sviluppo della società post-industriale. Noi viviamo in tempi di new economy, tutti ci parlano di new economy, ma non si riflette molto su che cos’è la new economy, su quali sono i problemi che essa comporta, quali sono i vantaggi eventuali e gli svantaggi che essa produce. Certo occorre tener presente che non si può ragionare considerando neutri gli strumenti. Quando noi parliamo per esempio di new economy (con questo termine si intende, per brevità, soprattutto l’economia basata sui computer, su internet e sulla telematica in generale. Non è una definizione esaustiva ma “in soldini” questo è il concetto) dobbiamo tener presente che l’utilizzo degli strumenti non è mai neutro. È inutile dire che l’automobile può essere usata bene o usata male: l’automobile cambia la vita. Oggi non si può più vivere come se l’automobile non ci fosse, anzitutto perché subiamo anche passivamente la presenza delle automobili, poi per certe attività, per molte attività, se uno rinuncia all’automobile rinuncia anche a svolgere un determinato lavoro. Pensate ad un imprenditore del settore trasporti: se dice “io ho i cavalli e i carri” chi gli affida le sue merci? Chi lo sceglie come corriere? Se un giovane che intende lavorare come agente di commercio si presenta ad un colloquio e dice “io non ho l’automobile”, lo scartano subito! Potremmo proseguire con altri esempi similari. Lo stesso vale per ulteriori strumenti come il computer e il cellulare ( il cosiddetto telefonino, che sta producendo tutta una serie di problemi, perché certe funzioni sono scomparse, ed è aumentato il carico di lavoro poi dei soggetti che utilizzano questi nuovi mezzi) Voglio dire: mentre un tempo l’avvocato dettava la lettera alla segretaria, adesso che cosa fa normalmente: si mette lui al computer e se deve spedire una e-mail provvede egli stesso a scriverla e a spedirla; in forma diversa compie quello che una volta faceva la segretaria: ora lo fa lui.

E questo è ancora un aspetto marginale, tutto sommato; perché qualcuno potrebbe dire: ma non ci sono solo aspetti negativi. Prendiamo l’esempio del telefonino. Parlavo con una persona che mi diceva: io non posso più dire “non ci sono”, perché quando mi cercano, il cliente dice all’impiegata: “mi dia il numero di cellulare”. È chiaro che l’impiegata può anche dire: “non mi è possibile”, come può anche dire la moglie, però poi che cosa succede ? Succede (parliamo ad esempio di due avvocati) che c’è anche il cliente il quale vuole poter raggiungere l’avvocato comunque. Nel momento in cui l’impiegata, la moglie, la segretaria non fornisce il numero del cellulare, il cliente si rivolge ad altro avvocato che invece è sempre disponibile. Si è cioè innescata una rincorsa per cui solo chi è disponibile ventiquattro ore su ventiquattro è accettabile. Ovviamente è chiaro che a tutti piace avere sempre a disposizione una persona che ci può servire; è anche ovvio, poi, che nel momento in cui io trovo qualcuno che è effettivamente disponibile, io scelgo quello. Cioè se io ho bisogno di consultare un commercialista, fra uno che si fa trovare anche alle undici di sera al cellulare e mi risolve un problema che io ho, e uno che invece spesso non c’è, preferisco naturalmente quello che si fa trovare anche alle undici di sera. Però a questo punto se scelgo quello che si fa trovare alle undici di sera abbandono quell’altro e allora voi capite che diventa difficile in molti campi e in molte professioni mantenere dei ritmi accettabili, perché si rischia di perdere la clientela. Clientela che poi fatalmente ovviamente viene portata a scegliere chi è disponibile il più a lungo possibile, idealmente ventiquattr’ore su ventiquattro.

Voglio dire che gli strumenti, lungi dall’essere neutri, cambiano poi la nostra vita. Certo, la cambiano di più in alcuni settori e professioni, la cambiano meno in altri , però ci sono delle avvisaglie che sono preoccupanti da questo punto di vista, senza poi contare che c’è tutto il grosso discorso legato a internet. Ovvero : chi è poi che governa la rete delle reti, chi c’è dietro a questo mondo? Si tratta di un discorso non facile, non semplice da affrontare. Indubbiamente anche lì abbiamo visto delle cose che ci hanno lasciato sbalorditi, dai siti dei pedofili al fatto che si può ordinare praticamente tutto. Un grosso colpo alla sovranità effettiva degli Stati è dato anche da internet perché dal momento che è possibile ordinare le pistole e i medicinali, c’è gente che acquista il Viagra su internet: clicca, lo ordina ad esmpio negli Stati Uniti e lo riceve a casa per posta. A questo punto a che cosa serve che lo Stato ti dica: ci vuole la prescrizione medica quando tu puoi aggirare tranquillamente il problema? E poi c’è tutto un complicatissimo intreccio tecnico e giuridico per cui (chi è esperto lo sa meglio di me) andare a oscurare un sito è una cosa assai complessa, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista legale, perché se il sito è in Norvegia, lo Stato italiano ha dei grossi problemi ad intervenire. Non mi addentro tanto nell’aspetto tecnico che conosco poco, ma molti esperti mi dicono che ci possono essere anche delle grosse difficoltà pratiche nell’impedire ad un malintenzionato di offrire sui siti internet immagini o servizi illeciti.Poi c’è anche l’aspetto giuridico, perché sono saltati tutti i criteri ai quali eravamo abituati. Uno degli aspetti rivoluzionari è indubbiamente questo: ci troviamo di fronte ad una fase di sviluppo della società ben difficilmente governabile, e voi sapete che quando ci sono delle fasi di sviluppo della società difficilmente governabili, di solito chi approfitta di queste fasi non è chi è ben intenzionato, ma chi è mal intenzionato. Nella storia è sempre capitato così.

A proposito poi della new economy, ho letto di recente un libro di Federico Rampini, giornalista economico collaboratore de Il sole 24 ore e de La Repubblicache contiene alcune indicazioni interessanti e che possono aiutare a meditare sugli aspetti dei vari problemi che la new economy ha portato con sé. Già il sottotitolo del libro di Rampini: “New economy: una rivoluzione in corso” , può metterci – diciamo – sull’avviso; poi leggendo questo libro si comprende che l’avviso è fondato.

È chiaro che nella società di oggi non c’è niente di male ad avere il personal computer e ad usarlo (ci mancherebbe pure : anzi se può essere utile e ci può risolvere dei problemi, ben venga). Il problema non è la fruizione a livello individuale del bene. Il problema è generale e complessivo. Lo stesso discorso vale per l’automobile. La diffusione massiva dell’automobile ha prodotto delle conseguenze negative, ma non è in virtù di queste considerazioni che dovremmo privarci dell’uso dell’automobile. Certo dovremmo cercare di usarla senza esagerazioni e solo nei casi di necessità, ma non è il nostro comportamento individuale che poi alla fine può condizionare lo sviluppo della società.

Ma vi dicevo, a proposito della new economy, che mi ha colpito un passo di questo libro, pubblicato da Laterza, nel quale Rampini così scrive: “Il sociologo Manuel Castel, a tutt’oggi il più acuto teorico della società dell’informazione, forse il Marx o il Marcuse della new economy, ha analizzato anche le precondizioni culturali della nuova rivoluzione industriale. E Castel individua nella contestazione studentesca scoppiata nel ’67 all’Università californiana di Barkley, con un anno di anticipo sul maggio parigino, quel rigurgito di anarchismo libertario che ha poi formato il terreno di coltura ideale per la new economy. Nei movimenti antiautoritari della West Coast c’era il germe dell’individualismo, della creatività esplosa poi nelle migliaia di aziende fondate nella Silicon Valley dai neolaureati o dai giovani accademici. Castel individua nella rottura libertaria avvenuta con la rivolta presessantottesca di Barkley il retroterra etico e ideologico su cui è germogliata la Silicon Valley“.

Sono parole che dovrebbero indurre a una certa riflessione. Poi, sempre in questo testo ci sono altre osservazioni che volevo sottoporre alla vostra attenzione. Ad esempio: “All’inizio del Novecento il magnate dell’auto, Henry Ford, inventò gli alti salari perché voleva che i suoi operai fossero in grado di acquistare le vetture che fabbricavano. Anche per questo il fordismo ebbe una carica innovativa e fu un punto di forza del capitalismo americano. Suo nipote William, oggi presidente della casa automobilistica, in quanto a lungimiranza non è da meno: nel febbraio del 2000 la Ford ha deciso di regalare a tutti i suoi trecentocinquantamila dipendenti un personal computer da portarsi a casa, provvisto di stampante a colori, modem e accesso a internet. Lo ha fatto perché vuole che i suoi dipendenti padroneggino le tecnologie e l’abc culturale della nuova economia. È una lezione esemplare”. Evidentemente non è un regalo disinteressato; certe forme di progresso sono tutt’altro che disinteressate; anzi leggendo questo passo mi è venuta in mente una battuta di Renato Cirelli a proposito delle campagne: parlava di quell’imprenditore che radunò i suoi braccianti, i suoi contadini e disse: adesso che abbiamo portato la luce nelle campagne… potrete lavorare anche di notte! Molti regali sono interessati: come quell’imprenditore della battuta aveva interesse a che la luce elettrica fosse presente nelle campagne non per i propri braccianti ma perché potessero lavorare anche nottetempo, anche questi regali sono evidentemente molto sospetti. Come sempre : TIMEO DANAOS ET DONA FERENTES.

Il sospetto poi aumenta quando si analizza, sia pure sommariamente, l’incidenza che ha la new economy nel campo sociale, etico, culturale e politico. Scrive Rampini ad esempio che “la new economy è una rivoluzione appena agli inizi, non possiamo sapere quanto durerà né dove ci porterà”, e questo è un pensiero che possiamo anche sottoscrivere. Peraltro, dal punto di vista etico, ad esempio, scrive Rampini: “Tra le conseguenze meno positive della new economysull’etica del lavoro c’è il fatto che il boom economico ha intaccato tutte quelle forme di prestigio professionale legate alla carriera e allo status diverse dal denaro”. Rampini parla prevalentemente degli Stati Uniti, ma voi sapete che ciò che accade negli Stati Uniti poi fatalmente arriva anche da noi. “Nell’era del mercato il guadagno diventa l’unico criterio legittimo per misurare il valore delle persone. Se i più bravi professori della Stanford University sono diventati multimiliardari creando delle imprese e quotandole in borsa, chi rimane legato ad una carriera puramente accademica rischia di essere giudicato un cretino. Troppi adolescenti, ha scritto Mark Steinberg sul Los Angeles Times, puntano solo ad un arricchimento rapido. Rischia di essere controproducente anche l’esempio di Bill Gates, che ha fondato la Microsoft senza essersi laureato ed è l’uomo più ricco del mondo. Certi giovani si convincono che non serve finire gli studi universitari”.

Dal punto di vista etico indubbiamente l’esaltazione del “dio denaro” e dei vantaggi che esso può fruttare lascia indubbiamente molto perplessi. Un altro aspetto che lascia dubbiosi riguarda, dal punto di vista sociale, il fatto che la new economy tende a far sì che la società attuale diventi ancora più multietnica. È chiaro che chi è a favore di una società multietnica non può che gioire, ma noi che abbiamo molte riserve contro questo tipo di società (basti pensare all’allarme lanciato dal Cardinale Biffi, ad esempio), noi che non amiamo il meltnig pot il “mescolone” in cui tutto si confonde e in cui una tradizione vale l’altra, in cui la verità viene ridotta a opinione personale, quando leggiamo: “L’America insegna: vince la società multietnica”, evidentemente abbiamo qualche dubbio e qualche timore per il futuro. Scrive sempre Rampini: “È il mercenario indiano l’arma segreta che fa vincere la guerra della new economy. Lo ha capito il Cancelliere Schroeder studiando l’esempio americano, ed ha sfidato la Germania a seguire lo stesso modello multietnico. Nel marzo del 2000, nonostante le numerose contestazioni e polemiche, il governo tedesco ha aperto le frontiere all’immigrazione qualificata. Il suo obiettivo è di importare ogni anno decine di migliaia di matematici dall’India, da tutta l’Asia, dall’Est europeo. Con un decreto-lampo il Cancelliere ha stabilito un primo contingente di ventimila visti per l’anno 2000, permessi d’ingresso riservati ai diplomati e laureati nelle discipline tecniche provenienti dai paesi extracomunitari. La nuova “tratta degli immigrati” parte da Bangalore, la capitale scientifica dell’India, e dalle avanzatissime università politecniche fondate quarant’anni fa per affrancare il Paese dal colonialismo inglese. I sedicimila neolaureati in ingegneria che l’India sforna ogni anno sono la ricchezza più ambìta da chi ha bisogno di buone competenze professionali a basso costo per lanciarsi alla conquista di internet. Su questo capitale umano ha già messo da tempo le mani l’America. Su pressione dell’industria californiana bisognosa di cervelli ogni anno il Congresso di Washington alza la quota di visti d’ingresso per immigrati qualificati. Nel 1998 l’ammontare di questi permessi speciali era di sessantacinquemila, nel ’99 è stato quasi raddoppiato a quota centoquindicimila, ma l’ufficio federale per l’immigrazione aveva già esaurito tutti i visti a sua disposizione nel mese di giugno. Il Congresso dovrà aumentarli ancora. Nel ’99 il 46% di quei permessi è stato concesso a giovani indiani, un altro 10% erano cinesi, il resto dei superlaureati stranieri affluisce da Canada, Filippine, Corea del Sud, Giappone, Regno Unito, Pakistan e Russia. Così l’industria americana si rafforza di anno in anno attirando verso di sé un’élite planetaria. La sua attenzione verso il serbatoio asiatico è tale che ormai organizza in India vere e proprie fiere del reclutamento: vi partecipano decine di società americane… Vanno a prenotare sul posto i laureati in informatica prima ancora che abbiano concluso gli studi”.

Riparla della Germania Rampini, e a proposito di quella situazione e riferendosi ai Tedeschi dice: “La loro cultura, come quella di tutti i popoli europei, non è ancora proiettata verso la società multietnica: fino agli anni Novanta valeva in Germania lo ius sanguinis, il diritto del sangue: era più facile concedere la nazionalità ai lontani discendenti di emigrati tedeschi in Polonia e in Russia che ai figli dei turchi nati in Germania. È stato proprio Schroeder a cambiare quella antica legge, ma il suo governo rosso-verde ha dovuto superare forti opposizioni a cominciare dalla campagna ostile della destra democristiana. E ancora nel 2000 contro la proposta di Schroeder di aprire le frontiere ai superlaureati si sono scatenate le profonde resistenze”. La mescolanza etnica è un fenomeno sconvolgente che mette a dura prova le identità culturali e la coesione del tessuto sociale”. Quindi, se dal punto di vista etico abbiamo l’esaltazione del denaro, dal punto di vista sociale possiamo dire che indubbiamente la new economy tende per forza di cose a favorire la mescolanza etnica. Allora qualcuno potrebbe chiedersi: “È un fatto accidentale? È un fatto legato semplicemente a necessità economiche?”. Dice Rampini parlando dell’aspetto politico (notate che Rampini è un esaltatore del fenomeno: “È interessante osservare come l’ascesa della new economy abbia coinciso [ma guarda un po’]con un crescente attivismo ideologico di Bill Clinton, teso ad influenzare le sinistre riformiste al governo in Europa. I passaggi salienti di questa operazione di “evangelizzazione” sono stati i celebri “Seminari sulla terza via” voluti dal presidente americano. Il primo si tenne il 21 settembre del ’98 alla New York University con Tony Blair e Romano Prodi, il secondo fu il 26 aprile ’99 a Washington, in piena guerra, del Kossovo con Blair, Schroeder, Massimo D’Alema e il premier socialdemocratico olandese… il terzo venne ospitato il 21 novembre 1999 a Firenze da D’Alema che vi invitò anche Lionel Jospin. L’influenza del clintonismo sui leader della sinistra riformista è solo uno dei tanti fattori che promuovono l’americanizzazione dell’Europa”.

Facendo il punto della situazione,abbiamo parlato dell’influenza generale della new economy , degli effetti della new economy, sul piano etico (l’esaltazione del denaro), sul piano sociale (la mescolanza etnica, che indubbiamente viene favorita), sul piano politico (Clinton, Blair ecc.) e poi c’è anche quella – che è sotto i nostri occhi – relativa al piano culturale. Come afferma Rampini, “l’influenza del clintonismo sui leader della sinistra riformista è solo uno dei tanti fattori che promuovono l’americanizzazione dell’Europa. Ce ne sono ben altri, potentissimi e noti, uno di questi è l’egemonia mondiale dell’industria culturale americana, tv, cinema, musica e la sua capacità di plasmare mode, consumi e valori, soprattutto fra le giovani generazioni”.

Quando io ho letto queste righe, anche se il fatto in sé ci è noto – tutti vediamo qual è l’influenza dell’industria culturale (perché di ciò si può parlare) americana – in particolare mi sono soffermato sul termine “egemonia mondiale” e sulla capacità dell’industria culturale americana “di plasmare mode, consumi e valori, soprattutto delle giovani generazioni”. Mi è venuto in mente il discorso di De Oliveira sulle tendenze, cioè sull’industria culturale che plasma mode, consumi e valori crea comunque delle tendenze. E se le tendenze generano delle idee, e le idee poi generano i fatti, siamo di fronte ad una operazione gigantesca che non può che suscitare allarme in tutti noi.

Ovviamente, come scrive lo stesso Rampini, non sappiamo dove ci porterà con esattezza questa rivoluzione, non possiamo prevedere con precisione quali sviluppi avrà, quali saranno gli stadi, quale sarà la conclusione finale, ma certo la mia impressione è che comunque non porterà ad alcunché di buono. A mio modesto parere la new economy e la società postindustriale sono tipiche realtà di Quarta Rivoluzione, cioè sono realtà che Plinio Correa de Oliveira in maniera davvero profetica aveva intravisto prima di morire, lasciando perplessi anche i suoi ammiratori. Abituati ad immaginare la Rivoluzione configurata storicamente in maniera ben precisa, cioè o la Rivoluzione Protestante, o la Rivoluzione Francese, o la Rivoluzione Comunista — tenendo anche presente che non essendo il comunismo ancora crollato sentivamo tutti quel problema (adesso si fa presto a parlare in un certo modo, ma un tempo il discorso era un tantino diverso…) — questa Quarta Rivoluzione, che non si capiva bene che cosa fosse, che aggrediva l’uomo nella sua interiorità, non dico che non ci convincesse, anche perché chi parlava era un maestro riconosciuto, quindi certo c’era tutta l’attenzione per queste parole di Plinio Correa de Oliveira, però insomma eravamo tutti (me compreso) un pochino dubbiosi. Solo successivamente abbiamo potuto renderci conto di come quelle parole fossero in realtà ben fondate, di quanto quelle previsioni, purtroppo, avessero un ben preciso radicamento. Credo che il crollo della società industriale, l’avvento della società post-industriale e la new economy che abbiamo visto nascere e svilupparsi rapidamente (pensate che fino al ’97 non si parlava di new economy; siamo agli inizi del 2001 e adesso sembra che la new economy sia una realtà che si mangia come il pane tutti i giorni, ma la prima volta che l’espressione è stata usata in senso tecnico, ha voluto cioè rappresentare un qualche cosa di ben preciso, questa prima volta si è verificata nel ’97). Vediamo come il tempo scorre in maniera estremamente veloce. Eppure anche la new economy fa parte di questa situazione. Ovviamente, ripeto, non ho la presunzione di illustrare dei giudizi definitivi; ho cercato, soprattutto per quanto riguarda la società post-industriale e new economy, di cercare di collocare queste nuove realtà, che segnano l’economia, in un quadro che è quello caratterizzato dai parametri che noi contro-rivoluzionari usiamo utilizzare per spiegare gli avvenimenti storici.

Come ultima cosa ricordo sempre che, come dice Pio XI, la Chiesa ha una dottrina sociale, non ha una dottrina economica ma esiste un’etica, esiste un ordine naturale, e quindi anche l’attività economica deve essere ricondotta ai princìpi dell’ordine naturale e cristiano. Laddove l’attività economica viene svincolata dai princìpi, dai retti princìpi dell’ordine naturale e cristiano, produce dei guasti, guasti che si riflettono poi sul piano etico, sul piano sociale, sul piano politico. Quindi l’errore più grande che noi potremmo fare come cristiani e come contro-rivoluzionari sarebbe quello di considerare l’economia alla stregua di una disciplina neutra per cui sarebbe indifferente che un affare si svolgesse in un certo modo secondo determinate regole o in un altro secondo diverse regole. No! Anche le scelte di natura economica (macroeconomica e microeconomia), hanno uno stretto legame con la morale, per cui anche ciò che compiono gli uomini, ciò che compiono le società, le scelte che vengono compiute dagli stati nel campo dell’economia devono essere valutate con attenzione perché le opzioni che vanno contro l’ordine naturale e cristiano contribuiscono a far progredire la Rivoluzione e a far sì che quel che resta dell’ordine naturale e cristiano subisca ulteriori colpi. Indubbiamente in una società sempre più secolarizzata e sempre più scristianizzata anche i colpi inferti da una economia disancorata dai princìpi morali producono danni rilevanti che si affiancano agli altri guasti che sono già sotto i nostri occhi.

Questo è il contributo che volevo offrirvi, non parlandovi in maniera asettica della storia della economia del Novecento ricollegandola ai secoli precedenti, ma cercando di inquadrare questa storia della economia in un quadro di riferimento che possa aiutarci a comprendere il significato degli avvenimenti che si sono verificati – soprattutto nel Novecento – dal punto di vista contro-rivoluzionario. Spero di essere riuscito a raggiungere l’obiettivo che mi ero proposto. Grazie.


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