Comunismo, religione e… persecuzioni

Lezione tenuta il 29 ottobre 2015

Prof. Leonardo Gallotta

Corso «I cristiani sono la minoranza più perseguitata del mondo ma quella di cui si parla di meno. Perché?»
Perché non si fanno i conti con il comunismo /1

 

Comunismo, religione e… persecuzioni

E’ opinione diffusa  che parlare oggi, nel 2015, di comunismo sia cosa abbastanza inutile, essendo crollata l’URSS con tutti i paesi satelliti, compresa la Germania dell’Est con il suo famigerato Muro. La Cina, nonostante lo sfavillìo a Pechino di famose vetrine a marchio occidentale, è però a guida comunista e se chiedessimo ad un cattolico cinese non “patriottico” che cosa pensa del governo cinese forse dovremmo ricrederci. E così per altri paesi del mondo. Nel Venezuela di Chavez, quando il Cardinale Arcivescovo di Caracas, poiché si parlava di una via venezuelana al comunismo, chiese di avere della documentazione per sapere in che cosa consistesse questa via,  gli fu inviata l’opera omnia di Marx e di Lenin. Nihil sub sole novi, per cui penso che occorra proprio parlarne, come occorre parlare delle persecuzioni passate e di quelle presenti. Ancor oggi si stenta a parlare delle atrocità commesse, anche se escono film, saggi e romanzi, perché sembra quasi di offuscare con queste testimonianze la purezza degli ideali comunisti di uguaglianza e giustizia sociale. Il fatto è che non si tratta di puri, semplici e nobili ideali, in quanto sono gli stessi Marx e Lenin che considerano il comunismo una completa visione del mondo in cui tutti gli aspetti non possono essere tra loro slegati, per cui dire ad esempio “accetto l’analisi economica del marxismo, ma non la filosofia” rivelerebbe una fondamentale incomprensione del carattere globale del marxismo.

Dunque il sistema comunista è il materialismo – vedremo tra non molto perché è definito dialettico e storico – portato alle sue estreme conseguenze. Il marxismo afferma che esiste solo la materia. Non vi sono né angeli né demoni; non vi sono né anima spirituale né Dio. Addirittura, ci dice Lenin, le proprietà della materia sono quelle stesse di Dio, l’ eternità e l’infinità. L’uomo è pura materia. Una forza misteriosa spinge questo universo materiale in un processo di sviluppo incoercibile, in una evoluzione inarrestabile. Come dice Engels, il movimento è il modo di esistere della materia, non un movimento qualunque, ma un movimento dialettico che si sviluppa – hegelianamente –  con un processo triadico di tesi-antitesi  e sintesi, in cui ogni sintesi diventa la tesi di una nuova triade e così via all’infinito. Dalla materia inorganica emerse la vita; dalla pianta nacque l’animale. Tra gli animali si ebbe un perfezionamento lento e costante, finchè apparve l’animale attualmente più perfetto, il cui cervello presenta il più alto grado di sviluppo. Questo animale si chiama uomo, ma lo stadio della sua animalità non è definitivo, perché la materia si evolve e tale evoluzione non ha limiti.

Il materialismo marxista è definito non solo dialettico, ma anche storico. Perché? Perché estende i princìpi del materialismo dialettico allo studio della storia e della società. L’elemento fondamentale dell’evoluzione storica è l’elemento materiale, economico. Dicono Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca: “La forma fondamentale dell’attività degli individui è quella materiale, dalla quale dipende ogni altra forma intellettuale, politica e religiosa”. Le relazioni fondamentali di ogni società umana sono quindi i rapporti di produzione che costituiscono la struttura essenziale su cui si impianta la sovrastruttura ideologica – vale a dire la morale, il diritto, l’arte, la religione – che non ne è che il riflesso. Sono i rapporti di produzione a determinare le classi sociali, che si presentano come dato costante della storia da quando esiste la proprietà privata. La storia, dunque, è storia di classi. Ma è a partire dalla Rivoluzione industriale che la lotta di classe si è semplificata perché non esistono più che due classi, quella dei borghesi e quella dei proletari. E’ così che, con l’aggravarsi delle condizioni del proletariato, quest’ultimo con la forza dell’unione (“Proletari di tutti i paesi unitevi!” si dice alla fine del Manifesto del partito comunista) giungerà alla “dittatura del proletariato” che non sarà tuttavia eterna, perché alla fine si dovrà giungere ad una società senza classi. Se è vero, come si dice nel Manifesto, che “la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classe”, quella attuale può, anzi deve, subire una accelerazione per giungere al trionfo del proletariato e realizzare uno Stato comunista. E compito di questo Stato sarà quello di abbattere i tre capisaldi di ogni società tradizionale: la proprietà privata, la famiglia, la religione.

Marx ed Engels nel “Manifesto” hanno affermato: ”I comunisti possono riassumere la loro dottrina in questa unica espressione: abolizione della proprietà privata”.  La proprietà privata è per il marxismo una realtà storica e non naturale. Sono esistite, è vero, diverse forme, in passato, di proprietà. Ma quella attuale è la proprietà privata basata sul capitale e sull’industria moderna. Per Marx “la proprietà è la tesi di cui la classe proletaria è l’antitesi”: producendo il proletariato, la proprietà ha segnato la sua fine. La Rivoluzione comunista sarà un atto di appropriazione. Dice Engels: “La proprietà privata dovrà essere abolita e sostituita dall’uso in comune di tutti i mezzi di produzione e dalla distribuzione di tutti i prodotti secondo un’intesa generale, cioè dalla comunanza dei beni. L’abolizione della proprietà privata è la più significativa sintesi della trasformazione dell’intero ordinamento sociale”.

Anche la famiglia è per il comunismo una realtà di storia e non di natura. Secondo Engels la famiglia monogamica è nata con la proprietà privata e col diritto del padre di trasmettere il capitale. Nell’epoca primitiva ogni gruppo sociale viveva non solo nel comunismo primitivo, ma anche nella completa promiscuità sessuale. Soltanto successivamente, nella società di classi nata con la proprietà privata, nasce la famiglia, dove la donna è la vittima e l’uomo lo sfruttatore. Da qui la necessità di liberare la donna dallo sfruttamento. E allora ecco che cosa dice Engels: il comunismo sopprimerà “la duplice base dell’odierno matrimonio – la dipendenza della donna dall’uomo e dei figli dai genitori”. Le due soppressioni sono collegate: emancipare la donna per il marxismo vuol dire emanciparla dal lavoro domestico e toglierle l’educazione dei figli che sarà effettuata integralmente dallo stato socialista.  Tutto questo dovrebbe portare all’abolizione del matrimonio e al libero amore. Dice Engels: “I rapporti fra i due sessi diventeranno rapporti del tutto privati che riguarderanno soltanto le persone direttamente interessate e nei quali la società non avrà minimamente di che immischiarsi”.

Il marxismo, presentandosi come materialismo e negando quindi l’esistenza di Dio, nega di conseguenza la religione come rapporto necessario che lega, attraverso il rito, l’uomo alla Divinità. La religione è dunque una sovrastruttura. Ecco alcune affermazioni di Marx: “L’uomo fa la religione e non la religione l’uomo”, “la religione è la realizzazione fantastica dell’essenza umana” e infine “essa è l’oppio del popolo”. La religione è dunque un male sociale che la rivoluzione comunista deve combattere. Dice Lenin in Socialismo e religione: “la nostra propaganda comprende necessariamente anche la propaganda dell’ateismo, perché il marxismo non è un materialismo che si limiti all’abbiccì. Il marxismo va oltre. Esso dice: bisogna saper lottare contro la religione, far scomparire le radici sociali della religione”. Nonostante nella costituzione sovietica vi fosse equiparazione tra libertà di culto e libertà di propaganda religiosa per tutti i cittadini, di fatto la propaganda religiosa e l’insegnamento religioso erano proibiti, perché la religione, dice Marx “è soltanto il sole illusorio che si muove attorno all’uomo, finchè questi non si muoverà  attorno a se stesso”. E ancora: “La critica della religione porta alla dottrina secondo la quale l’uomo è per l’uomo l’essere supremo. L’uomo è Dio all’uomo e l’utopia del paradiso che la rivoluzione creerà sulla terra sostituirà la fede nella vita eterna”.

Detto ciò ben si comprende come il comunismo indichi una redenzione dell’uomo ben diversa, anzi completamente opposta a quella del cattolicesimo, tant’è che Pio XI, nell’enciclica Divini Redemptoris, definì il comunismo “intrinsecamente perverso”. Data questa opposizione, vediamo ora quali sono i mezzi utilizzati normalmente da un partito marxista leninista che sia giunto al potere e che voglia instaurare appieno un regime comunista. Ci soccorre al riguardo Plinio Corrêa De Oliveira che nel suo volumetto su La libertà della Chiesa nello Stato comunista elenca in quattro punti i il compito che tale partito si prefigge per estirpare la religione nel territorio sotto la sua giurisdizione:

-in un lasso di tempo maggiore o minore, a seconda della malleabilità della popolazione, chiudere tutte le chiese, eliminare tutto il clero, proibire ogni culto, ogni professione di fede, ogni apostolato.

-nella misura in cui non sia stato possibile raggiungere completamente questo risultato, mantenere verso i culti ancora non soppressi un atteggiamento di tolleranza ostile, di spionaggio di vario genere e di limitazione continua della loro attività.

-infiltrare comunisti nelle gerarchie ecclesiastiche sopravviventi, trasformando dissimulatamente la religione in veicolo del comunismo.

-promuovere con tutti i mezzi a disposizione dello Stato e del partito marx-leninista al potere la ”ateizzazione” delle masse.

E’ chiaro che per realizzare simili piani ogni Stato comunista doveva e deve avere una organizzazione che sappia come agire e una polizia segreta che sappia individuare le sacche di resistenza. E non c’è regime comunista che non abbia avuto ed abbia la sua polizia politica segreta. Si pensi al KGB sovietico, alla STASI della Germania dell’Est, alla SIGURIMI albanese, al SANTEBAL e alla famigerata “organizzazione” cambogiana di Pol Pot, l’ANGKAR. Potrei fare, a questo punto, una carrellata sulle persecuzioni nei diversi stati comunisti, ma per molti esiste già una buona informazione generale. Per il KGB basterebbe leggersi Arcipelago Gulag di Alexandr Solzeniçyn, per la STASI guardarsi il film Le vite degli altri diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, per SANTEBAL e ANGKAR il film Urla del silenzio diretto da Roland Joffré. Se dovessi tuttavia indicare i due paesi dove la ferocia repressiva ha raggiunto livelli inauditi, direi sicuramente la Cambogia di Pol Pot e l’Albania di Enver Hoxha. Per ciò che riguarda la Cambogia, Cristianità nella seconda metà degli anni Settanta, fu una delle poche riviste a divulgare le atrocità dei Khmer rossi, tant’è che un sacerdote cambogiano rifugiatosi in Italia inviò una lettera di ringraziamento alla nostra rivista per aver ricordato il martirio dei suoi connazionali. Credo che Giovanni Cantoni abbia conservato l’originale di tale lettera negli archivi di Alleanza Cattolica. Quanto a vittime, quelle cambogiane sono molto superiori – si parla di un numero tra 1 ml e mezzo e 2 ml – a quelle albanesi e tuttavia il tentativo di estirpazione di ogni credo religioso da parte di Hoxha fu così spietato che, complice anche il volume Il sangue di Abele, di cui parleremo fra poco, ho scelto questo paese per esemplificare le persecuzioni anticristiane da parte comunista. Va poi ricordato che la liberazione dei fratelli Popa – rifugiatisi nella Ambasciata italiana di Tirana nel 1985, fu anche merito di Alfredo Mantovano di Alleanza Cattolica che in quel di Lecce, di fronte alle coste albanesi, fece un grande battage – radiofonico e di stampa – tant’è che, come abbiamo saputo dopo, due funzionari della SIGURIMI erano andati a Lecce per vedere che cosa stava succedendo e chi fosse Alfredo Mantovano.

Il Partito Comunista Albanese prese il potere nel 1944, dopo l’occupazione italiana e tedesca.  Elaborato fin da subito un piano di ateizzazione forzata realizzato con i mezzi più biechi, nel 1967 Enver Hoxha dichiarò trionfalmente che la nazione albanese era il primo paese dove l’ateismo di Stato era scritto nella Costituzione. In quella successiva del 1976, l’articolo 37 recitava: “Lo Stato non riconosce alcuna religione e sostiene la propaganda atea per inculcare alle persone la visione scientifico-materialista del mondo”. L’articolo 55 del Codice Penale del 1977 stabiliva una pena da tre a dieci anni per propaganda religiosa. Furono confiscate chiese, monasteri, moschee e sinagoghe,  edifici trasformati tutti in musei e uffici pubblici, oppure in cinema, officine meccaniche, magazzini o stalle. Ai genitori fu proibito dare nomi cristiani ai figli. E i villaggi con nomi di Santi furono rinominati con nomi non religiosi.

Ed eccoci al libro il sangue di Abele di Zef Pllumi. E’ un libro che ha fatto parlare di sé forse più per la prefazione di Silvio Berlusconi che per il suo contenuto e poi perché alla prima presentazione a Roma, accanto a Berlusconi, c’era anche il nostro Arcivescovo Monsignor Negri. A Ferrara, precisamente alla sala San Francesco, il libro è stato presentato dalla curatrice Keda Kaceli, il cui nonno paterno, Januz Kaceli non volle arrendersi al sopruso, fu preso, torturato e fucilato dai comunisti perché intellettuale e imprenditore liberale. Dopo aver fatto visionare il testo da ben dieci case editrici e avendo sempre ottenuto un rifiuto, solo una piccola casa editrice – precisamente DIANA edizioni – lo  ha infine pubblicato. In quella occasione, il nostro Arcivescovo disse che dopo averlo letto, per una settimana, alla sera, non era riuscito a prendere sonno. Mi aspettavo che si leggessero alcune pagine illustranti le torture subite dal protagonista e dai suoi confratelli, ma a parte qualche cenno da parte della curatrice, il Coordinatore della serata sviò l’attenzione dei presenti chiedendo a Keda Kaceli notizie dell’attuale Albania e le speranze che nutriva per il futuro. Dopo quella presentazione, a dire il vero, io riuscii a dormire tranquillamente. Quando si tratta di descrivere la ferocia e gli orrori comunisti, si tenta sempre, chissà perché, di portare il discorso altrove. La necessità e Il dovere di ricordare valgono solo per L’Olocausto?

L’autore è un frate francescano di Scutari che ha vissuto personalmente il calvario delle persecuzioni ai cattolici. E’ morto nel 2007 a Roma al Policlinico Gemelli ed ora è sepolto nella piccola Cappella dei frati presso il Convento del Grande Noce a Scutari.

Cercherò di riassumere alcuni momenti importanti del libro. Nel 1944, sulle montagne del Nord, i rastrellamenti partigiani alla ricerca di latitanti produce terrore presso le cosiddette “grandi famiglie”. I sospettati di avere dato rifugio ai nemici del popolo vengono torturati e uccisi. Alcune donne vengono messe in sacchi assieme a dei gatti e bastonate. La loro pelle è completamente sfigurata. Alcuni pastori che non danno informazioni su alcuni latitanti si ritrovano con le gambe fratturate e le unghie dei piedi strappate con tenaglie. Nel 1945-46 c’è il processo per l’Unione Albanese. Alcuni alunni del seminario in occasione delle elezioni indette per il 2 dicembre 1945 avevano stampato a ciclostile dei volantini che criticavano il governo e firmati Unione Albanese. Poiché era proibita la propaganda, vengono arrestati assieme a tre loro insegnanti, tutti frati francescani. Per diciannove giorni dal carcere alla sede del processo gli imputati percorsero le strade tra due ali di giovani comunisti che gridavano bestemmie e insulti, sputavano, spingevano e minacciavano. Dice Zef Pllumi: “Sembrava un’impressionante rievocazione della scena svoltasi quasi duemila anni prima lungo le strade di Gerusalemme, dal pretorio di Pilato fino al Calvario. Le stazioni della nuova Via Crucis finivano sul palco del cinema teatro Rozafat, dove sedeva la corte marziale”. La lunga requisitoria fu pronunciata da Aranit Çela.  Si tenga presente che, prima procuratore e poi ministro, il suo nome compare in tutti gli archivi statali come torturatore ed esecutore di prima linea ed è tuttora in vita. Il 22 febbraio sentenza di morte per fucilazione per Padre Gjon Shllaku, Padre Giovanni Fausti, Padre Daniel Dajani, Mark Çuni, Gjergj Bici, Gjelosh Lulashi, Fran Miraka, Qerim Sadiku. All’alba del 4 marzo 1946 al cimitero cattolico vicino al fiume Kir si svolsero le esecuzioni. Poi accorse gente e ci fu qualcuno che bagnò un fazzoletto bianco nel sangue di padre Gjon Shllaku. I partigiani del plotone quel giorno vennero ricompensati con una doppia razione di rancio. In gran segreto uno di loro confidò ad un giovane cattolico: “Mai avevo visto in vita mia uomini così coraggiosi. Sono tutti morti gridando a voce alta: viva Cristo! Lo scopo dei comunisti non era però la semplice eliminazione d un piccolo gruppo di persone. Lo Stato comunista si prefiggeva l’obiettivo di cancellare ogni forma di azione e di organizzazione della Chiesa Cattolica in Albania. Lo stesso giorno infatti venne emanato l’ordine governativo di chiusura delle scuole cattoliche. Furono chiusi il Seminario Pontificio, il Collegio francescano, la Casa dei Gesuiti, il Collegio saveriano, il Liceo Illyricum, il convento delle suore adibito a scuola materna ed elementare. Il decreto fu applicato non solo a Scutari, ma anche a Tirana, Elbasan, Durazzo, Korça e in tutti i villaggi dove gli istituti religiosi svolgevano le loro attività educatuive e caritative. Tanto nelle scuole quanto per le strade cominciò la guerra contro la Croce, dichiarata simbolo reazionario. Le ragazze che portavano la Croce al collo erano aggredite e così anche i ragazzi che frequentavano la Chiesa.

Torniamo a frate Zef. Dopo che furono trovati e denunciati all’autorità  quattro vecchi fucili arrugginiti nel Convento francescano, la SIGURIMI  fece trovare in una stanza fucili nuovi di zecca ed anche delle bombe a mano, per poter accusare i frati. Così avvenne, i frati furono costretti a firmare dichiarazioni ovviamente false e furono ripresi e fotografati vicino a tutte quelle armi. Le foto finirono esposte in tutti gli uffici della SIGURIMI e addirittura nel Museo dell’Ateismo di Scutari, l’unico al mondo di questo genere. Ovviamente anche frate Zef fu arrestato e cominciò così il suo calvario. Dal luogo dell’arresto al Comando militare di Scutari fu legato non con manette, ma con del fil di ferro stretto ai polsi, per trenta ore non riuscì ad urinare e finalmente arrivò nella stanza  dell’ufficiale Dul Rrjodhi che gli fece firmare una dichiarazione preconfezionata. Affidato poi ad un giovane ufficiale, Nesti Kopali, questi diede ordine di appenderlo ad un pesco che si trovava in mezzo al cortile, per “meditare” sui suoi peccati contro il “regime”. Vi rimarrà tutta la notte, una notte gelida di dicembre.  Frate Zef considererà sempre quel pesco come la “Colonna nel patio di Pilato”. Portato e legato al corrimano delle scale, di fronte al WC, lo colpisce una scritta che rimarrà impressa nella sua memoria per tutta la vita: Io Dom Vlash Muçai qui il 28 luglio bevvi la mia urina per non morire di sete. Seguirono diversi interrogatori con il sadico Nesti Kopali che voleva una confessione dei suoi presunti misfatti. Viene picchiato in tutto il corpo, poi con l’attizzatoio rovente della stufa subisce ustioni su spalle, schiena, cosce e gambe, viene ripetutamente legato al pesco e con i fili di un vecchio apparecchio telefonico riceve scariche elettriche che gli producono tremori terrificanti. Ci sarebbe  poi da raccontare quello che capitò ad altri poveri disgraziati, come il rimanere chiusi in un armadio per diversi mesi o  essere buttati in una botola oscura. Ci fu alla fine il processo con accuse che in realtà erano rivolte più alla Chiesa in genere che agli imputati. Tranne un sacerdote che vomitò veleno sulla Chiesa ed evidentemente passato dall’altra parte, tutti argomentarono sulla loro innocenza e si dichiararono innocenti, ma la sentenza era già scritta. Pena di morte per Monsignor Frano Gjini, Padre Matì Prendushi, Monsignor Nikollë Deda. Carcere a vita per Don Tom Laca e Padre Donat Kurti e poi diversi anni di carcere a Don Ndoc Sahatçija, Padre Mehill  Miraj, Don Mark Hasi, Zef Haxhia, Don Nikollë Shelqeti, Frate Zef Pllumi  condannato a tre anni di carcere da scontare anche con lavori forzati passati inizialmente nelle insalubri terre del Beden. Dopo di che venne trasferito nel cosiddetto Grande Carcere, prima nella strettissima stanza numero 5 e poi in quella più confortevole – si fa per dire – la numero 7. E’ qui che l’autore descrive un episodio che mi ha particolarmente toccato le corde più profonde dell’anima, per cui desidero riportarlo per intero. E’ tratto dal capitolo “Cristo nel Grande Carcere”.

Per la Santa Pasqua del 1949 la stanza numero 7 ricevette una gioia indescrivibile: venne da noi Gesù Cristo per rafforzarci nella fede.    Padre Leon Kabashim, durante una visita chiese alla sorella un paio di pantofole. Insieme con la sorella c’era anche Dava, una suora che andava in mezzo al popolo a cercare l’elemosina per i frati sacerdoti in carcere. A questa, approfittando del  frastuono generale, Padre Leon disse: ‘Nelle pantofole portami il debito di Pasqua’.    A Pasqua Padre Leon incontrò sua sorella e suor Dava. La sorella gli portò abiti e generi alimentari, mentre Dava gli disse:’Non ho potuto portarti che questo paio di babbucce, penso di averle fatte come piacciono a te’.    Finito il colloquio Padre Leon mi portò le babbucce e disse: ‘Fai il possibile’.    In carcere era proibito qualsiasi taglierino, coltellino, metallo, finanche gli aghi. Nel più assoluto segreto però tenevo da parte un ago e un pezzettino di metallo affilato. Presi le babbucce per scucirle. Usai la punta dell’ago come un coltellino. Pazientemente riuscii a scucire le babbucce. All’interno vi trovai la corporale nella quale erano avvolte cinquanta ostie. Mi inginocchiai. Pensai a San Tarcisio, martire della Comunione ai tempi delle catacombe. Consegnai la corporale con le cinquanta ostie consacrate a Padre Leon. Egli adorò Cristo sollevando l’ostia. Cristo non era venuto per nascondersi, quindi disse: ‘Fratelli sacerdoti! Cristo è venuto a stare in mezzo a noi. E’ venuto Cristo risorto per risvegliare i nostri cuori. E’ venuto per darci forza e coraggio e per affrontare il diavolo. Stasera Cristo è qui in mezzo a noi in questa cella. Ognuno prepari il proprio cuore, così domani potrà ricevere il Cristo risorto’.    Durante quella notte ci confessammo e  preparammo i nostri cuori per ricevere Cristo. Quei cuori avvelenati dalle sofferenze e dalle torture. La rabbia, l’odio, il desiderio di vendetta: erano questi i grandi nemici di Dio, che è Amore.    Padre Leon mi disse: ‘Prendi le ostie consacrate e nascondile. La notte è del diavolo e delle tenebre: tutto può succedere. Proteggi Cristo e te stesso e fai attenzione. In caso di imprevisto consuma le ostie!’. Quella notte dormii con Gesù Cristo sul cuore. Mi chiedevo: sono degno di essere come San Tarcisio?      Al mattino del lunedì si fecero le solite cose e fu distribuita la razione di pane. Prima che iniziassimo a mangiare Padre Leon prese le ostie nel più assoluto riserbo. Le diede a Don Tom Laca e pronunciò poche parole: ‘Fratelli, Cristo è in mezzo a noi, accogliamo nel cuore Colui che si è sacrificato per noi, e che possano le nostre vite sacrificarsi per Lui’.    Tutti prendemmo l’Eucaristia  dalle mani di Don Tom Laca.

Stavamo rivivendo nel XX secolo le stesse scene delle catacombe romane.  Dopo esserci comunicati, Padre Leon mi disse: ‘Fra’ Zef, sono avanzate delle ostie, come facciamo a portarle nella stanza numero 5 dagli altri fratelli?’    ‘Ci penso io. Dammele!’  E presi le ostie. Quando uscimmo in cortile per l’ora d’aria, con attenzione le misi in tutta fretta nelle mani di Padre Donat Kurti, pronunciando Sacramenda. Capì subito. Gli feci segno affinchè non le nascondesse fra i vestiti , ma di tenerle in mano insieme con gli occhiali, poiché quel che si vede è meno sospetto. Agì così e sfuggì al controllo. L’ Ultima Cena rivisse anche nella stanza numero 5 ”.      

Dopo il Beden, altri lavori forzati nell’area paludosa del Myzeqe e dell’Oman Pojan di Maliq. Torna a casa sua, ma si accorge che può mettere a rischio anche la sua famiglia essendo ormai schedato. Torna allora al convento dove i pochi frati rimasti conducono una vita di stenti, anche perché i fedeli hanno paura di fare offerte e di farsi vedere in chiesa. Lì comunque rimane perché, semplice diacono, vuole diventare sacerdote. Nel 1967 L’Albania si dichiara Paese Ateo. Padre Zef (Padre perché è finalmente diventato sacerdote) è di nuovo arrestato e costretto a scontare 23 anni di carcere e di torture. E’ liberato nel 1990 poco prima della caduta del regime.  Mi piace ricordare infine le parole che Il Superiore del Convento, Marin Sirdani, rivolse a frate Zef: “Noi vecchi abbiamo già coltivato il nostro giardino, ma voi giovani dovete vivere. Anche se non dovessi essere capace di fare nulla, vivi! Qualcuno ha il dovere di rimanere in vita, altrimenti non ci sarà nessuno a raccontare ciò che stiamo patendo, non vi sarà testimonianza! Fra’ Zef, io sono il Padre Superiore dei Francescani e ti ordino di vivere per testimoniare!”. Padre Zef lo ha fatto ed è quello che anche noi abbiamo cercato di fare.


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