Fede e ragione nella scienza del ’900

Lezione tenuta dal dott. Luciano Benassi l’11 maggio 2000

Luciano Benassi

I luoghi comuni della propaganda anticattolica:
“La Chiesa soffoca l’indagine scientifica e si oppone al progresso”

Seconda lezione
Gli amici ritrovati, ovvero
Fede e ragione nella scienza del ’900

 

1. La fisica del XX secolo

Stanley L. Jaki ricorda che “La fisica […] giunse alla maturità nel secolo di Galileo e Newton in seguito alla rinuncia da parte dei fisici a preoccuparsi a qualsiasi titolo, nella propria disciplina, della teleologia che, in un certo senso, è un genere di animismo. Il bando all’origine voleva essere un metodo, non un dogma: una volta trasformato questo metodo in dogma ad opera della teoria di Copenhagen non era possibile salvare la coerenza del lavoro dei fisici tranne che attribuendo alla natura la capacità di scegliere con un fine; ecco uno dei corni tremendi che la fisica separata da un’epistemologia realistica doveva affrontare” (1).

L’affermazione dello storico della scienza è doppiamente efficace ai fini di quanto verrò dicendo:

  • anzitutto costituisce una descrizione felicemente sintetica di ciò che è accaduto durante lo sviluppo dell’avventura scientifica strictu sensu considerata, cioè a partire da Galileo.
  • in secondo luogo essa evoca, con il suo riferimento alla Scuola di Copenhagen, uno dei nodi cruciali del contenzioso che si è aperto all’inizio del XX secolo con la nuova visione del mondo offerta dalla meccanica quantistica. L’altro nodo è quello inerente la teoria della relatività generale e la nascita della cosmologia come disciplina autonoma.

1.1 Tre secoli di “preparazione”.

Per quanto riguarda il primo tema, l’iniziale pretesa di neutralità del “fare scienza” si è concretizzata in un atteggiamento antimetafisico e poi in una vera e propria opzione antirealista. Nel linguaggio galileiano si potrebbe dire che il libro della natura, scritto da Dio in caratteri matematici, diventa a poco a poco un libro di autore anonimo, poi un testo di cui si rinuncia a cercare un messaggio che non esiste, a capire una grammatica che risulta inconoscibile. In ultimo, secondo un programma genuinamente hegeliano, saranno gli uomini, in questo caso gli uomini di scienza a dare un senso al libro. Questo itinerario può essere descritto da quelli che solitamente compaiono nei testi di storia come aneddoti o curiosità:

  • poco più di centocinquant’anni dopo la morte di Galileo, sul finire del XVIII secolo, Pierre Simon de Laplace (1749-1827), rispondeva a Napoleone Bonaparte (1769-1821), che gli chiedeva perché Dio non compariva nella sua teoria sull’origine del sistema solare,: “Sire, non ho bisogno di questa ipotesi“;
  • qualche decennio più tardi, il positivista Ernest Renan (1823-1892), in pieno clima di entusiasmo per le strabilianti scoperte scientifiche e per le portentose innovazioni tecniche derivate dalla ricerca, annunciava l’avvento di un’era in cui “la scienza organizzerà Dio stesso“;
  • infine, nel 1934 Niels Bohr (1885-1962), il padre della teoria atomica nella sua veste moderna e, per certi versi definitiva, scriveva che la nuova teoria quantistica era arrivata “ad una caratteristica fondamentale del problema della conoscenza e dobbiamo renderci conto che per la natura stessa dell’argomento dovremo sempre fare ricorso, alla fine, ad un’immagine verbale le cui parole non vengano più analizzate” (2).

Si può affermare che, in meno di trecento anni, la strada della scienza e le vie verso Dio, anziché costituire un unico percorso intellettuale a doppia corsia, si sono separate per tracciare due percorsi radicalmente alternativi. Ma il prezzo pagato a questa “autonomia” è stato altissimo. Mons. Angelo Scola, Rettore della Pontificia Università Lateranense, si chiede se, alla fine, l’esito non sia stato quello di “[…] cadere nella dottrina della doppia verità e quindi di nessuna verità []” (3), da cui consegue “necessariamente la negazione del valore ultimo sia della conoscenza scientifica che di quella teologica” (4) e l’avvento di uno “strumentalismo assoluto” (5).

1.2 L’avvento della “Nuova Fisica”.

Il secondo tema dice riferimento a quanto avvenuto nel campo della fisica a partire dall’inizio del XX secolo. Per usare le parole di Paul Davies, “[…] in tutta la comunità scientifica sono sorte all’improvviso idee nuove e stupefacenti sullo spazio e sul tempo, sulla mente e sulla materia“(6), idee che “[…] solo ora cominciano a raggiungere i non addetti ai lavori“(7). Questo insieme di idee, nate dallo sviluppo della teoria della relatività generale e della meccanica quantistica, costituisce quella che lo stesso Paul Davies chiama la “Nuova Fisica”. Nuova, perché, a differenza di quanto avvenuto nei secoli precedenti, “Quasi subito i fisici hanno capito che le nuove scoperte richiedevano una riformulazione radicale degli aspetti anche più fondamentali del reale“(8). Non solo, ma “Filosofi e teologi”, continua il fisico inglese, “cominciano solo ora a cogliere i frutti di questa rivoluzione“(9) e la ragione risiede nel fatto che ora, “[…] le idee fondamentali della fisica ci indicano un nuovo modo di valutare l’uomo e il posto dell’uomo nell’universo. Come ha avuto inizio l’universo? Come finirà? Che cos’è la materia? E la vita? E la mente? Non sono certo domande nuove: di nuovo c’è che forse siamo sul punto di trovare le risposte“(10). In altri termini: “[…] ciò che importa è che oggi è possibile concepire una spiegazione scientifica di tutto il creato“(11).

La descrizione dello “stato dell’arte” scientifico descritto da Paul Davies è corretto. Come scrive Alberto Strumia, “[…] ci troviamo di fronte ad una tappa della storia delle scienze in cui questioni filosofiche non vengono poste alla scienza dall’esterno, imposte come regolative, ma nascono dall’interno come questioni proprie e non eludibili del metodo scientifico e appaiono di una portata che pone problemi seri anche alla filosofia stessa“(12).

In queste condizioni, quale deve essere la posizione di un uomo di fede? E’ possibile ricostruire un corretto rapporto fra scienza e fede? In che cosa consiste, precisamente, nel contesto della ricerca scientifica apertasi nel XX secolo, il rapporto fra scienza e fede?

L’impressionante potere esplicativo dimostrato dalle nuove teorie – sembra suggerire l’idea che l’approccio metafisico e religioso alle questioni collegate appaia superato:

  1. la cosmologia scientifica, delineatasi dall’inizio del ‘900 come disciplina autonoma nel grande corpus dell’astronomia, è oggi in grado di fornire ipotesi plausibili sull’origine e l’evoluzione dell’universo, cioè sull’insieme di tutte le cose fisicamente interagenti. L’immagine che ne risulta non corrisponde a nessuna delle cosmogonie religiose tradizionali. Si tratta di un universo dinamico fin dalle sue prime fasi, un cosmo in continuo mutamento, caratterizzato da una fenomenologia e da fattori di scala, per quanto riguarda distanze, tempi ed energie in gioco, lontanissimi dall’esperienza quotidiana. In questo “universo violento” è difficile reperire alcunché di stabile; al contrario ne escono rafforzate le idee di mutamento continuo e di incertezza;
  2. anche la teoria quantistica, i cui risultati sono meno conosciuti dal grande pubblico, è collegata, nella sua interpretazione “ufficiale”, ad una visione della realtà materiale sfuggente e sostanzialmente acausale, privata di ogni base ontologica. In una delle formulazioni più radicali, come quella di Werner Heisenberg (1901-1976) e di Pascual Jordan (1902-1980), si afferma che è lo stesso soggetto sperimentatore a costringere il sistema microscopico oggetto della misura ad assumere quel valore definito rilevato dallo strumento;
  3. tutto questo si svolge in un clima politico-culturale particolarmente propizio a sviluppare il potenziale di relativismo contenuto nelle scoperte e nelle idee della cosmologia scientifica sull’origine dell’universo e della meccanica quantistica sulla realtà del mondo microscopico, quando esse non siano innestate in un corretto quadro filosofico, premessa razionale all’integrazione con la rivelazione. Gian Paolo Prandstraller, ordinario di Sociologia all’Università di Bologna, descrive con straordinaria lucidità l’impatto esistenziale di quelle scoperte avvenute nell’ultimo mezzo secolo. Secondo il sociologo, “confermando l’espansione cosmica” esse danno “un colpo mortale al concetto di assoluto, perché da esse deriva che tutta la realtà è in divenire, e dunque soggetta a una serie illimitata di ‘condizioni’. Non si dà nessuna realtà constatabile che incorpori i caratteri attribuiti dal pensiero umano all’assoluto. L’interpretazione attuale del cosmo suggerisce, col sostegno di evidenze empiriche, che niente nell’universo è assoluto, tutto è al contrario relativo, evolutivo, condizionato“(13).

Che fare, dunque? Fra l’ostinazione di un grottesco concordismo e la via comoda di un tranquillo parallelismo, credo che l’atteggiamento più corretto sia quello suggerito da mons. Angelo Scola: “assumere le provocazioni“(14) del sapere scientifico, ma anche constatare che “Inaspettatamente […] la fede trova oggi nelle scienze un alleato“(15) ogni volta che i risultati della ricerche più fondamentali sono interpretati e valutati come immagini di una realtà, misteriosa sì, ma esistente e “vera”, oggettiva ed evocatrice di un ordine più alto.

Assumere le provocazioni” delle moderne teorie scientifiche significa, anzitutto, fare conoscenza con i fatti, con i dati sperimentali che tali teorie spiegano. E si scoprirà, come nel caso della cosmologia scientifica, figlia della teoria della relatività, che è possibile avviare il recupero di una cultura fortemente radicata nella nozione di Dio creatore.

2. Lo sviluppo della cosmologia scientifica e la teoria del Big Bang. (16)

La cosmologia scientifica è una scienza recente perché la consapevolezza che l’universo sia accessibile all’indagine scientifica matura definitivamente all’inizio del ‘900. E’ interessante ripercorrere brevemente le tappe principali che hanno portato a questo risultato.

2.1 La scoperta della nostra galassia e i primi dati strutturali.

A partire dalla seconda metà dell’ ‘800 si accende, fra gli astronomi, la discussione sulla natura di oggetti non stellari, di forma nebulare, noti fin dal secolo precedente. In particolare, il dibattito verteva sull’appartenenza o meno di tali oggetti alla Via Lattea, e si accentuò con due scoperte importanti:

  • la nebulosa a spirale, catalogata M51, nella costellazione dei Canes venatici, nel 1846, per opera di Lord Rosse, alias Charles Parsons (1800-1867)
  • la bellissima nebulosa di Andromeda, catalogata M31, nel 1887, per opera di Isaac Roberts (1829-1904).

La questione poteva essere risolta soltanto con la determinazione della distanza di tali oggetti. Nel 1912, Henrietta Swan Leavitt (1868-1921) scopre una relazione precisa fra il periodo di variazione di luminosità e la luminosità assoluta in alcune stelle, dette Cefeidi, nelle nubi di Magellano. Precisamente:

Questa scoperta, e gli studi successivi, contengono le prime valutazioni delle dimensioni della Via Lattea, il cui quadro strutturale si può dire definitivamente acquisito intorno al 1930:

  • la galassia è costituita da 1011 stelle, prevalentemente concentrate sul piano galattico
  • il sistema è in moto rotazionale differenziale (alla distanza del sole la velocità tangenziale di ca. 250 Km/sec
  • circonda la galassia un sistema di ammassi globulari che non partecipano al moto
  • il diametro è dell’ordine di 105 anni-luce, mentre l’estensione massima del rigonfiamento centrale è di ca. 104 anni-luce
  • il sole si trova a circa un terzo dal centro della galassia, ovvero a 3 × 104 anni-luce
  • la massa totale è valutabile in 1.4× 1011 M· (masse solari)
  • la densità media r risulta dell’ordine di 10-24 g cm-3 (il Pb ha 11.5 g cm-3)

Una tale struttura deve essere probabilmente simile a quella delle altre galassie esterne di cui si era riconosciuta l’esistenza. Alla fine degli anni Venti, il concetto di “universi-isola” (le galassie) comincia ad incrinarsi, mentre si fa strada l’idea di una correlazione gravitazionale fra le galassie o almeno fra gruppi (ammassi) di galassie. Ciò obbliga gli astronomi a prendere in considerazione regioni sempre più vaste del cosmo e questo contribuisce ad avvicinare l’universo “come un tutto” all’indagine scientifica: se i telescopi e la fisica newtoniana hanno permesso il superamento degli universi-isola, è con la teoria della relatività generale che l’universo come tale diventa oggetto di ricerca.

2.2 La teoria della relatività generale e il suo esito cosmologico.

La teoria della relatività generale (T.R.G.), proposta nel 1915 da Albert Einstein (1879–1950), costituisce una riformulazione dei concetti fondamentali della meccanica newtoniana – i concetti di spazio, tempo, massa, velocità e gravitazione -. In campo astronomico, la teoria permette di riconsiderare il moto dei pianeti intorno al sole, e il moto degli astri in generale, secondo una prospettiva “geometrica”, nella quale non lo spazio e il tempo, ma lo spazio-tempo incurvato dalla presenza di una massa determina il movimento dei corpi, così come un lenzuolo teso, al cui centro sia deposta una sfera pesante, si deforma in un avvallamento che “attira” altre sfere vicine. Solo in assenza di masse la fenomelogia fisica appare secondo la comune percezione newtoniana.

Il successo della T.R.G. si manifesta immediatamente nella capacità di spiegare con una serie di fenomeni attinenti la propagazione luminosa: il red-shift della luce in uscita da un campo gravitazionale e l’incurvamento della traiettoria dei raggi luminosi che lambiscono la superficie del sole.

Nel 1917 Einstein estende la T.R.G. da un punto dotato di massa a una distribuzione continua di materia di densità assegnata e pubblica il lavoro – Considerazioni cosmologiche sulla teoria generale della relatività – che segna il primo passo “ufficiale” verso la cosmologia come scienza dell’universo. La storia di questa ricerca è ricca di aneddoti che, se da un lato rivelano il valore intellettuale dei suoi protagonisti, dall’altro, raccontando di difficoltà, di errori e di sviste, testimoniano i limiti perenni dell’intelletto umano di fronte alla sapienza del creato.

Einstein perviene ad un modello di universo definito statico, chiuso nello spazio e illimitato nel tempo, sulla base della duplice assunzione che la densità media di materia e il raggio di curvatura fossero costanti nello spazio e nel tempo. Matematicamente ottenne un risultato incongruente che dovette “aggiustare” con l’introduzione di un termine algebrico (L=4pGr=1/R2) del quale non riusciva a spiegare il significato fisico. Nonostante questo, e sulla scorta delle misure cosmologiche dell’epoca, egli giunge a quantificare le dimensioni del “suo” universo:

  • raggio R @ 1028cm
  • massa totale M @ 1055 g. (con il valore di densità r @ 10-30 g cm-3)

Si trattò di risultati di grande suggestione, soprattutto se visti come il risultato dello sviluppo logico della T.R.G., e il cui impatto sulla scena della cultura fu grande. Ma Einstein era assillato proprio da quel termine algebrico che non riusciva a spiegare dal punto di vista fisico, mentre garantiva coerenza matematica alle sue equazioni. Si può dire che la teoria del Big Bang abbia origine qui, in una svista del grande fisico tedesco che, come ha scritto Alberto Masani

[…] proprio mentre presentava il prodotto più maturo e più alto del suo lavoro teorico, si precluse la possibilità di prevedere il grandioso fenomeno dell’espansione universale: non venne neppure sfiorato dall’idea che l’universo potesse essere in evoluzione […]“(17).

Nel 1922 il matematico russo Aleksandr Friedmann (1888-1925) apporta una variante alle equazioni di Einstein dalla quale consegue che il termine correttivo Lpuò anche essere considerata nullo. Le equazioni di Friedmann ammettono soluzioni non statiche, cioè dipendenti dal tempo. Ma, sempre secondo Alberto Masani,

Forse, il primo ricercatore ad avere la sensazione che la teoria della relatività costituisce un’effettiva rappresentazione dell’universo reale fu G. Lemaitre, il quale nel 1927 il quale studiò le equazioni di Einstein da un punto di vista assai simile a quello di Friedmann: secondo tale studio fra le soluzioni delle equazioni se ne possono individuare alcune per le quali l’universo statico di Einstein può essere considerato come un momento che segue e precede una fase non statica vera e propria“(18).

All’inizio degli anni Trenta, il modello dell’Atom primitif di Georges Lemaitre (1894-1966), belga, professore a Lovanio, prete cattolico e futuro presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, fu assai discusso e costitusce il padre dell’attuale cosmologia del Big Bang.

2.3 Hubble e Humason. Gli indizi dell’espansione e l’età dell’universo.

Negli anni 1926-27, al termine di un pluriennale ciclo di osservazioni, gli astronomi statunitensi Edwin P. Hubble (1889-1953) e Milton L. Humason (1891-1972) giungono alla conclusione che lo spostamento verso il rosso delle righe di assorbimento spettrale della luce proveniente da nebulose lontane deve attribuirsi all’effetto Doppler. L’effetto Doppler è il fenomeno di variazione di lunghezza d’onda percepito da un osservatore quando la sorgente di onde è in movimento rispetto all’osservatore. Il fenomeno è verificabile facilmente con le onde sonore, quando il suono appare più acuto o più grave all’avvinarsi o all’allontanarsi di una sirena. Nel caso della luce emessa da una stella o da un insieme di stelle è necessario riferirsi alle righe spettrali degli elementi – p.es. Fe, Ca o H – che sono presenti nella sua composizione: in laboratorio, dove l’osservatore e la sorgente sono in quiete relativa, le righe spettrali hanno una posizione definita. Ma le righe dello stesso spettro ricavato da oggetti celesti lontani presentano degli spostamenti e l’unico fenomeno fisico conosciuto che possa spiegare in modo esauriente tale spostamento è, appunto, l’effetto Doppler.

Hubble e Humason stabilirono una semplice relazione per collegare entità dello spostamento, velocità di fuga e distanza:

Z(spostamento) = Dl/l = K× r

con K = costante e r = distanza. Per velocità di fuga v<< c (= velocità della luce), l’effetto Doppler fornisce Dl/l = v/c e, quindi, ne deriva che la velocità di fuga è proporzionale alla distanza dell’oggetto:

v = H× r

Le conseguenze di queste ricerche, che sembravano indicare una reale espansione del cosmo, hanno un impatto non meno potente della T.R.G.. In particolare, il moto di fuga verso l’esterno di tutte le galassie – moto di cui ogni galassia appare essere il centro -, mette in crisi uno degli assunti della filosofia scientifica dell’epoca, quello dell’eternità universale. Infatti, se l’attuale fase espansiva era interpretabile come un intermezzo fra due fasi statiche (ed eterne), era possibile anche un’altra interpretazione: l’universo poteva aver cominciato la sua esistenza da uno stato molto compatto, dal quale avesse iniziato subito il processo espansivo.

Con l’idea di nascita dell’universo – e la possibilità di stabilire l’età dell’universo stesso – fanno inevitabilmente il loro ingresso, nel dibattito cosmologico, elementi ideologici e schieramenti “culturali” pro o contro l’ipotesi dell’espansione, a testimonianza del fatto che fin da subito ci si accorge che l’accettazione o il rifiuto di questa ipotesi costituisce – in un certo senso – una “scelta di campo”: schierarsi per l’eternità universale o per un universo con un’origine è infatti una scelta che si collega in modo naturale ai più profondi e decisivi orientamenti in campo religioso, morale, culturale.

Ma, prima di affrontare questi aspetti, è necessario chiudere il quadro storico dello sviluppo della cosmologia. Ricostruendo a ritroso il fenomeno espansivo, si può valutare quanto tempo fa l’universo era raccolto in un volume minimo dal quale prese il via l’espansione attuale. Con i dati in possesso alla fine degli anni Venti, il risultato fu 6.2 × 1016 sec @ 2× 109 anni, un risultato in contraddizione con quanto già noto a proposito dell’età della Terra e del Sole. Solo nel 1952 Walter Baade (1893-1960), rivedendo la relazione periodo-luminosità intrinseca delle cefeidi, giunse ad un ridimensionamento, nel senso dell’aumento, di tutte le distanze cosmiche extragalattiche: ne risultò, in conseguenza dell’espansione, che l’universo doveva essere più vecchio di quanto stabilito da Hubble e dati fornirono un valore di circa 4 miliardi di anni, in accordo con le età geologiche.

2.4 1965-1973: le grandi scoperte a favore della teoria del Big Bang.

In questi anni, una serie di straordinarie scoperte viene a chiudere lo scontro fra i sostenitori della teoria dello stato stazionario – di cui parleremo fra poco – e i sostenitori dell’universo del Big Bang a favore di questi ultimi. La scoperta che più contribuisce a tale conclusione è quella relativa alla radiazione di 3 °K che permea uniformemente tutto l’universo. La radiazione fu subito interpretata come il residuo elettromagnetico dello stato di altissima temperatura e densità da cui è uscito l’universo, residuo previsto nei lavori cosmologici di Ralph A. Alpher (n. 1921), Hans A. Bethe (n.1906) e George Gamow (1904-1968) fin dagli anni ’50. Gli studi compiuti su questo fenomeno fino ai nostri giorni hanno confermato la sua esistenza e la sua omogeneità.

Nel 1970, i principali elementi osservativi che la teoria del Big Bang (a L = 0) si dimostra capace di spiegare sono:

  • l’espansione cosmologica con H0 @ 50 Km sec-1 Mpc-1 e q0>0
  • i conteggi delle radiosorgenti
  • la radiazione di fondo a 3 °K
  • l’abbondanza cosmica del D (se r0 < 10-30 g cm-1)
  • l’abbondanza cosmica dell’He
  • la coincidenza fra l’età degli ammassi globulari (i più vecchi oggetti della galassia), l’età degli elementi radioattivi a più lunga vita media e l’età dell’universo, stimabile ora in 1.5× 1010 anni.

Arrivando ai nostri giorni si può affermare che la teoria del Big Bang

[…] può considerarsi ben delineata sia teoricamente che osservativamente […]” (19)

anche se non si potrà mai pretendere, da essa come da altre ipotesi alternative, quel grado di certezza e di verificabilità ottenibile in altri ambiti. Negli ultimi anni la ricerca si è sviluppata nella direzione dei primi istanti di vita del cosmo, risalendo con ipotesi plausibili fino ad un tempo dell’ordine di 10-43 sec, in condizioni di densità di 1090 g cm-3 e a temperature di circa 1032 °K. L’importanza di questi studi non risiede tanto nel fatto che provano che le cose siano andate realmente così, quanto nel fatto che è possibile, attraverso l’ipotesi evolutiva e con le leggi della fisica a noi note, risalire in modo coerente la catena temporale degli eventi.

3. I falsi miti della cosmologia scientifica.

E’ dall’apparire dell’ipotesi evolutiva negli anni Trenta che, nella ricerca cosmologica, si manifestano chiaramente i due aspetti che sempre più la connoteranno: da un lato il lavoro scientifico di ricerca, osservativa e teorica, con l’apporto dei dati sperimentali e il coinvolgimento sempre più spinto delle diverse branche della fisica; dall’altro, l’affermarsi di una mentalità, di una “filosofia cosmologica”, tendente a forzare i dati e i modelli teorici all’interno di scenari nei quali fosse neutralizzato anche il più remoto richiamo alla specificità e alla contingenza dell’universo. Questo sviluppo, storicamente erede del panteismo materialista del XVII secolo – che ebbe in Edmund Halley (1656–1717) uno dei suoi esponenti maggiori -, si svolge secondo la negazione di questi due fatti che emergono dalla teoria del Big Bang come un prepotente richiamo “metafisico“:

 

    1. la negazione della specificità dell’universo: l’universo è qualcosa di semplice, anzi di talmente semplice da non avere bisogno di spiegazioni estranee all’universo stesso. Di più: di universi ce ne sarebbero in numero enorme, prodotti di fluttuazioni quantistiche di un campo di forze fondamentale. Il nostro universo, quindi, non avrebbe niente di speciale

 

  1. la negazione della contingenza dell’universo: ovvero la comparsa dell’universo può essere spiegata facendo ricorso ad una Teoria del tutto, in grado non solo di unificare tutta la fenomenologia fisica, ma di giustificarne appunto anche la sua apparizione; l’universo sarebbe, quindi, qualcosa di inevitabile.

Consideriamo il primo punto: l’universo, si dice, è semplice, quindi non si devono cercare ragioni particolari per la sua esistenza. In proposito ci sono svariate dichiarazioni di illustri scienziati e, in generale, quello della semplicità dell’universo è uno dei temi conduttori in molta saggistica divulgativa sull’argomento:

  • Richard Dawkins: “Le entità originali fondamentali che dobbiamo postulare per comprendere l’origine dell’esistenza di tutto, consistono letteralmente di niente (secondo certi fisici), o (a parere di altri fisici) sono estremamente semplici, di gran lunga troppo semplici per richiedere qualcosa di così grandioso come una creazione libera […] il problema dei fisici è il problema delle origini ultime delle leggi naturali fondamentali” (20)
  • Martin. A. Bucher e David N. Spergel: “La cosmologia ha la reputazione di scienza difficile, ma per molti versi spiegare l’intero cosmo è più semplice che capire un animale unicellulare“(21).

Tutti questi autori non tengono in considerazione il messaggio più interessante del Big Bang, che risiede nel suo significato globale: l’universo del “grande scoppio” è un universo specifico, cioè un universo fatto di

“[…] stati cosmici invariabilmente non-omogenei, specifici, e leggermente asimmetrici, via via che una fase iniziale dell’universo viene ricondotta ad un’altra ancor precedente” (22).

In altri termini, il modello evolutivo, lungi dal manifestarsi come un movimento che travolge ogni nozione di stabilità, suggerisce una domanda fondamentale: “Perché questo universo e non un altro?”.

In un libro, ormai diventato un classico della divulgazione cosmologica, I primi tre minuti (23), il fisico Steven Weinberg descrive i “fotogrammi” dei primi istanti di vita del cosmo, a partire dal primo centesimo di secondo, anche se dedica un capitolo alle “epoche” precedenti. Il racconto è estremamente suggestivo, ma il suo insegnamento più profondo è proprio il fatto che l’universo è, in ogni istante, un oggetto definito, completo, che si può descrivere in modo plausibile con le leggi fisiche a noi note. Il libro potrebbe concludersi con il passo della Sapienza (11,20) “Hai disposto tutto con misura, calcolo e peso“. Invece, alla fine del libro, il suo geniale autore, dopo avere evidenziato la precisone della costruzione cosmica in ogni sua fase, non ricava che un’impressione di assurdità:

Quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo” (24).

Altri aspetti di questo approccio si trovano nel filone di ricerca che si appella al “caso”, al “caos” per giustificare la comparsa dell’universo. I presupposti matematici di queste teorie sono gli stessi che stanno a fondamento di quella branca della fisica denominata meccanica quantistica, che descrive il comportamento dei sistemi atomici e subatomici. Uno dei principi di questa disciplina, il “principio di indeterminazione”, afferma che esiste una soglia minima al di sotto della quale non è possibile effettuare con precisione misure di grandezze fisiche fra loro collegate, come, p.es., la posizione e la velocità oppure l’energia scambiata e il tempo impiegato per lo scambio. Questo fatto, dovuto alla estrema facilità con cui, durante una misura, si perturba il microsistema oggetto della misura stessa, ha dato il via a una serie di considerazioni sul mondo subatomico che, per usare le parole di Jaki, si possono così riassumere:

“[…] un’interazione che non può essere misurata esattamente, non può avvenire esattamente” (25).

Da qui ad affermare che un’interazione che “non avviene esattamente” può non avere una causa il passo è stato breve e la negazione del principio di causalità costituisce ancora oggi l’interpretazione dominante della meccanica quantistica. In campo cosmologico questa dottrina, filosofica e non scientifica, ha prodotto

  • negli anni Cinquanta, la teoria dello stato stazionario, che prevede la creazione ex nihilo di materia (1 protone /103 dm3 /109 anni)
  • ai nostri giorni, le teorie sull’emergenza, dal “nulla” e per “caso” di microuniversi, incomunicanti l’uno con l’altro e ciascuno con una sua probabilità di evoluzione.

Il nostro universo, quindi, non sarebbe nient’altro che un “free lunch“, un pasto gratuito, come si è espresso uno dei più prestigiosi cosmologi contemporanei, Alan H. Guth, o anche una cosa che “può avere avuto inizio in qualche cantina” (26), a sottolineare come, in ultimo, questo mondo sia solo il prodotto fortuito di un caso pasticcione.

Per quanto riguarda la contingenza dell’universo, si dice che prima o poi sarà possibile arrivare ad una megateoria, o teoria del Tutto, in grado di rispondere alla domanda: “Come, quando e perché l’universo ha avuto origine?”.

John D. Barrow risponde così:

[…] Oggi i fisici credono di essersi imbattuti in una chiave capace di guidarci al segreto matematico che sta al cuore dell’universo: una scoperta che punta a una teoria del tutto, una sorta di quadro onnicomprensivo di tutte le leggi di natura dal quale deve derivare, in modo logicamente ineccepibile, l’inevitabilità di tutto ciò che ci circonda. Una volta in possesso di questa stele di Rosetta cosmica, potremmo leggere il libro della natura in tutta la sua estensione temporale, e intendere ogni cosa che sia stata, che è e che sarà” (27).

Presso il pubblico interessato alle questioni scientifiche si instaura facilmente un equivoco fra le teorie di grande unificazione e le teorie del Tutto. Le prime sono tentativi legittimi nell’ambito della ricerca tendenti a stabilire e a descrivere le condizioni in cui le interazioni fondamentali di natura erano indistinte, ciò che probabilmente si verificò nei primi istanti dell’universo. Le seconde, invece, come si deduce dalla definizione di John D. Barrow, hanno l’obbiettivo di instaurare una forma definitiva di fisica-matematica, incorporante tutti i vari rami di queste discipline, vera esclusivamente sulla base della consistenza interna dei loro postulati. Questo lavoro costituisce, sostanzialmente, il tentativo di negare quello che Jaki definisce “né più né meno, il significato metafisico della contingenza dell’universo“(28), ovvero il fatto che, potendo l’universo essere, o essere stato, diverso da quello che è, allora

deve […] essere il risultato di una libera scelta meta-fisica, che implica a sua volta che l’universo non aveva neppure bisogno di esistere del tutto” (29).

3. Conclusioni.

La prospettiva di non-senso di una certa cosmologia scientifica è un aspetto del nostro “mondo in frantumi” – la definizione è di papa Giovanni Paolo II -: in frantumi perché la ragione umana, rinunciando al dialogo con la sapienza eterna di Dio e assumendo il primato sulla verità, non è più in grado di trovare l’unità del reale. La cultura dell’assurdo, il nichilismo aggressivo, l’insoddisfazione per l’esistente e l’esistenza che caratterizzano il nostro tempo, sono insieme l’indice di un malessere e il richiamo alla necessità di una conversione di cui la “nuova evangelizzazione” è il modo di attuazione che il regnante pontefice indica ai cristiani per il millennio che viene.

Anche la scienza può diventare strumento di questa conversione. E dovrà farlo piegandosi sul creato naturale con l’atteggiamento che sant’Agostino (354-430) ci rivela nel decimo libro delle Confessioni: “Ho interrogato la mole del mondo circa il mio Dio e mi ha risposto: ‘Non sono io, ma Egli mi ha creato’’“(30).

NOTE

(1) Stanley L. Jaki, La strada della scienza e le vie verso Dio, trad. it., Jaka Book, Milano 1981, pp.298-299. La sottolineatura è mia.
(2) Cit. in ibid., p.293.
(3) S.E. mons. Angelo Scola, Interpretazione scientifica del reale: verifica e prospettive, in AA.VV., L’interpretazione scientifica del reale: verifica e prospettive, con presentazione di Alessandro Finazzi Agrò, Urbaniana University Press, SCV 1998, p. 11.
(4) Ibidem.
(5) Ibidem.
(6) Paul Davies, Dio e la nuova fisica, trad. it., Mondadori, Milano 1984, p.9.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) Ibid., p.10.
(11) Ibidem
(12) Alberto Strumia, Difendere le ragioni della scienza oggi, in AA.VV., op. cit., p. 97.
(13) Gian Paolo Prandstraller, L’universo e noi. Cosmologia ed esistenza alla fine del XX secolo, Franco Angeli, Milano 1994, p.35. Le sottolineature sono nel testo.
(14) S.E. mons. Angelo Scola, op. cit., p. 12.
(15) Ibidem.
(16) Per tutto il paragrafo e, in generale, per un approccio alla storia della cosmologia, cfr. Alberto Masani, Storia della cosmologia, Editori Riuniti, Roma 1980. L’opera, che dal punto di vista strettamente tecnico costituisce un felice tour d’horizon sullo sviluppo della cosmologia scientifica dalle origini a tutto il decennio 1970, nasce, dichiaratamente, con un intendimento interdisciplinare, ” […] inteso a presentare alcuni elementi fondamentali con i quali persone dotate di una cultura generale possono comprendere, in termini scientifici appropriati, lo sviluppo storico secondo cui la problematica cosmologica ha percorso le tappe fondamentali fino alla sua moderna formulazione” (p. IX). L’autore, dunque, non trascura i collegamenti fra le scoperte in campo cosmologico e la loro ricaduta sul piano culturale, anche se tutto è improntato ad una visione progressiva e storicista.
(17) Ibid., p.150.
(18) Ibid., p.151.
(19) Idem, Il cosmo, Editori Riuniti, Roma 1993, p.129.
(20) Cfr. Stanley L. Jaki, Il Salvatore della scienza, trad. it., LEV, Città del Vaticano 1992, p.114, n.38.
(21) Martin. A. Bucher e David N. Spergel, L’inflazione in un universo a bassa densità, in Le Scienze, n. 367, marzo 1999, anno XXXII, p.55.
(22) Stanley L. Jaki, Il Salvatore della scienza, cit., p.113.
(23) Steven Weinberg, I primi tre minuti. L’affascinante storia dell’origine dell’universo, trad.it, Mondadori, Milano 1993.
(24) Ibid., p.170.
(25) Stanley L. Jaki, Il Salvatore della scienza, cit., pp.118-119
(26) Cfr. Ibid., p.119, n.44
(27) John D. Barrow, Teorie del Tutto. La ricerca della spiegazione ultima, trad.it., Adelphi, Milano 1991, pp.19-20
(28) Stanley L. Jaki, Il Salvatore della scienza, cit., p.112.
(29) Ibidem. Le sottolineature sono nel testo.
(30) Sant’Agostino, Le Confessioni, traduzione e commento del P. Anselmo Bussoni O.S.B., Parma – Abbazia di S. Giovanni Evangelista 1973, Libro X, cap. VI, p. 340.

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