La “Ratio atque institutio studiorum Societatis Jesu”

Lezione tenuta dal dott. Ignazio Cantoni venerdì 21 novembre 2003

Ignazio Cantoni

La “Ratio atque institutio studiorum Societatis Jesu”

 

A partire dalla fine del XIV secolo in Occidente accadde un mutamento culturale la cui portata è certamente dell’entità di una svolta epocale.

Le lettere antiche — mai veramente abbandonate nello studio e nella cura dei colti medievali, cresciuti alla scuola del Padre e Dottore della Chiesa san Basilio di Cesarea, nell’odierna Turchia (330 ca.-379) (cfr. Basilio 1990) — presero a essere considerate in una prospettiva culturale ed esistenziale completamente diversa. L’essenza dell’Umanesimo, appunto, non è minimamente nella quantità di opere classiche lette o rese ora disponibili, ma nel posto valoriale, paradigmatico e sempre più esclusivo, che in quel tempo occupavano. Lo storico della filosofia e filosofo francese Étienne Gilson (1884-1978), in uno studio sull’umanesimo medievale e il Rinascimento, dopo aver mostrato come i classici fossero ben presenti nel pensiero medievale, afferma conclusivamente che “la differenza tra Rinascimento e Medioevo non è una differenza per eccesso, ma per difetto. Il Rinascimento, così come si continua a descriverlo, non è il Medioevo più l’uomo, ma il Medioevo senza Dio” (Gilson 1995, 522). Il pensatore e uomo d’azione brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), parlando dell’Umanesimo e del Rinascimento come inizio della Rivoluzione, cioè della crisi dell’uomo occidentale e cristiano, esprime sinteticamente lo spirito generatore di tale nuova prospettiva: “Nel secolo XIV si può cominciare a osservare, nell’Europa cristiana, una trasformazione di mentalità che nel corso del secolo XV diventa sempre più chiara. Il desiderio dei piaceri terreni si va trasformando in bramosia. I divertimenti diventano sempre più frequenti e più sontuosi. Gli uomini se ne curano sempre più. Negli abiti, nei modi, nel linguaggio, nella letteratura e nell’arte, l’anelito crescente a una vita piena dei diletti della fantasia e dei sensi va producendo progressive manifestazioni di sensualità e di mollezza. Si verifica un lento deperimento della serietà e dell’austerità dei tempi antichi. Tutto tende al gaio, al grazioso, al frivolo. I cuori si distaccano a poco a poco dall’amore al sacrificio, dalla vera devozione alla Croce, e dalle aspirazioni alla santità e alla vita eterna” (Corrêa de Oliveira 1977, 71-72). E poco oltre, proseguendo, afferma che “questo nuovo stato d’animo conteneva un desiderio possente, sebbene più o meno inconfessato, di un ordine di cose fondamentalmente diverso da quello che era giunto al suo apogeo nei secoli XII e XIII.

“L’ammirazione esagerata, e non di rado delirante, per il mondo antico, servì da mezzo di espressione a questo desiderio. Cercando molte volte di non urtare frontalmente la vecchia tradizione medioevale, l’Umanesimo e il Rinascimento tesero a relegare la Chiesa, il soprannaturale, i valori morali della religione, in secondo piano. […] Gli sforzi per un Rinascimento cristiano non giunsero a distruggere nel loro germe i fattori dai quali derivò il lento trionfo del neopaganesimo” (Corrêa de Oliveira 1977, 72-73). Tale modalità soft, questo tentativo di “salvare capra e cavoli”, di “servire a due padroni” (Mt. 6, 24), non fu l’unica espressione della crisi, che divenne in alcune nazioni radicale: “L’orgoglio e la sensualità, nel cui soddisfacimento consiste il piacere della vita pagana, suscitarono il protestantesimo.

“L’orgoglio diede origine allo spirito di dubbio, al libero esame, alla interpretazione naturalistica della Scrittura. Produsse la rivolta contro l’autorità ecclesiastica, espressa in tutte le sette con la negazione del carattere monarchico della Chiesa universale, cioè con la rivolta contro il papato. Alcune, più radicali, negarono anche quella che si potrebbe chiamare l’alta aristocrazia della Chiesa, ossia i vescovi, suoi prìncipi. Altre ancora negarono lo stesso sacerdozio gerarchico, riducendolo a una semplice delegazione del popolo, unico vero detentore del potere sacerdotale” (Corrêa de Oliveira 1977, 73).

All’interno di tale quadro storico-culturale si muove l’opera del nobile basco sant’Ignazio di Loyola (1491-1556). Egli vuole essere in modo esplicito al servizio della Chiesa cattolica e del papato. Consapevole che la crisi a lui contemporanea non aveva origine da un puro errore mentale, ma da un’esplosione d’orgoglio quale non si era mai manifestata a partire dalle origini del cristianesimo, egli si rende conto che il combattimento va condotto non solo politicamente o militarmente, ma anche e soprattutto nel cuore di ogni uomo. I suoi Esercizi Spirituali ruotano attorno al Principio e Fondamento: “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e mediante questo salvare la sua anima; e le altre cose sopra la faccia della terra sono create per l’uomo, e perché lo aiutino nel conseguimento del fine per cui è creato. Donde segue, che l’uomo tanto deve usare di quelle, quanto lo aiutano per il suo fine, e tanto deve ritrarsene, quanto esse lo impediscono” (Ignazio di Loyola, 1967, 86).

La Compagnia di Gesù, da lui fondata, non ha nessun altro scopo se non quello di educare le persone secondo questi principi, preparandoli alla sfida culturale dell’Umanesimo, del Rinascimento e della Riforma protestante, le cui premesse ultime, metafisiche, sono confutate dal brano appena riportato.

Per fare ciò, la Compagnia di Gesù comincia a fondare collegi, e nell’arco di pochi decenni si assiste a una loro crescita esponenziale, visto che da ogni parte d’Europa e del mondo giungono sempre più richieste d’impegno educativo per tutte le fasce sociali.

 

II. La storia della “Ratio atque institutio studiorum Societatis Jesu”

Per organizzare la rete di collegi, la Compagnia di Gesù raccoglie le riflessioni suggerite dalle esperienze educative che in quegli anni essa veniva compiendo in tutto il mondo. A tale scopo viene costituita una commissione con l’incarico di collazionare una regola unitaria e nello stesso tempo versatile: infatti, è necessario che l’impronta educativa gesuitica sia unitaria in tutto il mondo, sia per un’esigenza di sostanza, sia per favorire la migrazione e la conseguente incorporazione degli studenti — fenomeno non infrequente — fra i vari collegi; d’altra parte, dal momento che le esperienze educative in tutto il mondo avevano grandi differenze fra loro, una regola troppo rigida rischiava di non cogliere le occasioni specifiche che nascevano dalle consuetudini e dai costumi di ciascun luogo. Appena tale testo acquisiva una forma tendenzialmente definitiva, veniva consegnata a tutti i collegi, con l’ordine di testarla e di far pervenire le ulteriori considerazioni. Finalmente, nel 1599, padre Claudio Acquaviva S.J. (1543-1615), quinto superiore generale, pubblica la Ratio atque institutio studiorum Societatis Jesu, ossia l’Ordinamento degli studi della Compagnia di Gesù (cfr. Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu 2002, d’ora in avanti RS, seguita dal numero di pagina). Esso si compone di 467 canoni, che regolamentano l’operato di tutti coloro che, a titolo diverso, fanno parte del collegio: superiore provinciale, rettore del collegio, prefetto degli studi, professori, bidelli, studenti della Compagnia ed esterni. Tale testo verrà in epoche successive sempre modificato, ma a partire da tale data la sostanza non verrà più cambiata radicalmente.

 

III. Le caratteristiche essenziali

1. Fine di ogni studio

L’espressione che ricorre più frequentemente all’interno del testo è la divisa della Compagnia, “ad maiorem Dei gloriam”: tutto deve essere fatto per la maggior gloria di Dio. D’esordio, essa recita: “Uno dei compiti principali della nostra Compagnia è quello di trasmettere agli altri tutti gli insegnamenti propri del nostro Istituto, in modo che essi siano animati alla conoscenza e all’amore del nostro Creatore e Redentore” (RS 85). Ciò viene ricordato sistematicamente a tutti i vari professori; per esempio, ai professori delle classi inferiori viene raccomandato che ciascuno di loro […] istruisca i fanciulli che sono affidati per l’educazione alla Compagnia in modo che con le lettere imparino anche i costumi degni dei cristiani. La sua particolare attenzione, sia durante le lezioni, quando ne capiti l’occasione, sia al di fuori di esse, tenda a orientare le giovani menti dei ragazzi all’obbedienza e all’amore di Dio e delle virtù a lui gradite”(RS 243; cfr. 135). Ciò richiede necessariamente che il professore “preghi spesso Dio per i suoi alunni, e li edifichi con gli esempi della sua vita religiosa” (RS 245), dal momento che la salvezza stessa delle anime lo esige (cfr. RS 113).

L’attività pedagogica può comportare anche castighi corporali: esse non vanno rigettate, ma è necessario valutare con profondo spirito di discernimento l’entità del danno prodotto dall’alunno, le sue conseguenze soprattutto in termini di scandalo, la possibilità di riparare all’errore. Tutto quanto, comunque, deve essere condotto con molta prudenza: la disciplina, infatti, […] si otterrà più facilmente con la speranza dell’onore e del premio e la paura del disonore che con le vergate” (RS 261).

La benevolenza e la carità devono guidare i gesuiti a non discriminare nessuno per il ceto sociale d’appartenenza: il professore “non dimostri maggior inclinazione verso l’uno o l’altro, non disprezzi nessuno, si interessi degli studi dei poveri come dei ricchi, presti particolare attenzione al profitto di ciascuno degli studenti a lui affidati” (RS 145; cfr. 265). E ancora: “Per quanto è possibile, il prefetto non accolga tra gli alunni chi non sia presentato dai genitori o da altri che ne sono responsabili; o che non conosca personalmente, o di cui non possa avere informazioni da altri a lui già noti. Tuttavia, non escluda nessuno a motivo dell’origine non nobile o povera” (RS 217). Nella stessa direzione va la benevolenza che si deve concedere agli studenti d’ingegno non eccelso, che hanno il permesso di frequentare lo stesso corso per più anni se non riescono a concluderlo nei tempi previsti (cfr. RS 95-97). Solo agli umili d’animo spetti, in definitiva, il diritto agli studi: “Il superiore provinciale presti particolare attenzione a che questa benevolenza e favore negli studi venga applicata solo a coloro che si dimostrano umili, ed ancor più mortificati, e che egli non ritenga indegni” (RS 97).

Merita di essere riportata una regola di deontologia scientifica per il professore: “Non ecceda nel citare le testimonianze autorevoli dei dottori [della Chiesa]; tuttavia se vi sono testimonianze di autori insigni che sostengono la sua opinione, le riporti alla lettera, per quanto possibile, brevemente e fedelmente, soprattutto se tratte dalla Sacra Scrittura, dagli atti dei Concili e dai santi Padri [della Chiesa]. È proprio della dignità del professore non citare alcun autore che non abbia letto direttamente” (RS 139).

 

2. L’organizzazione delle classi e delle lezioni

Gli studenti venivano divisi in classi non solo badando all’età, anche se essa era il criterio principale, ma anche considerando le conoscenze già acquisite: non era infrequente che alunni particolarmente colti cambiassero durante l’anno la propria classe. Di norma, ogni nuovo studente veniva esaminato per conoscere il suo livello.

Giunto alla propria classe, egli veniva inquadrato all’interno di una articolata organizzazione, che riprendeva nomi istituzionali romani. Vi era innanzitutto la decuria, guidata dal decurione, poi vi erano “censori, consoli, principi. Si aveva così all’interno della classe un’organizzazione dello spazio regolata sulla base di un codice d’onore, i cui parametri di valutazione erano il profitto scolastico, lo zelo e l’impegno nell’apprendimento, e il cui esito, fortemente simbolico, determinava la posizione della squadra più o meno vicina alla cattedra del professore e l’occupazione, da parte degli alunni meritevoli, di un seggio più elevato degli altri” (Bianchi 2002, 41).

Ogni decuria gareggiava, pertanto, con le altre. Questo aveva il vantaggio di controbilanciare l’individualismo che un impianto così agonistico avrebbe certamente indotto negli alunni, col mutuo aiuto fra compagni di decuria, visto che nessuno doveva essere lasciato indietro, pena il fallimento globale della squadra. Ogni ragazzo, in questo modo, aveva la possibilità di far valere, per tutto il gruppo, i propri talenti e di fruire di quelli che gli mancavano.

Le lezioni erano strutturate sempre sulla lettura di classici della materia: il filosofo e teologo domenicano italiano san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), il filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.), l’oratore, scrittore e uomo politico latino Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), e così via; e su quello dei manuali (per esempio di grammatica) adottati dalla Compagnia. A tal proposito, è degno di nota come essa abbia voluto, appena possibile, comporne di propri, modellandoli in tutto e per tutto ad hoc per le proprie esigenze didattiche ed educative. Il professore, dopo aver fatto recitare una preghiera, leggeva e commentava di mano in mano i brani, soffermandosi sugli aspetti più difficili, e non dando troppo spazio a vuota erudizione. Allo stesso modo, per le materie più delicate quali filosofia e teologia, non si doveva, per spirito di compiacimento personale, raccontare il proprio pensiero, o perdersi nella confutazione di errori banali, bensì offrire agli studenti valide armi dialettiche contro le eresie e i giudizi che di esse erano fondamento.

Ogni sera, tutti gli studenti ripetevano al proprio decurione le lezioni. Per molte materie il programma veniva svolto due volte nel corso dell’anno.

Importantissime erano le dispute. Periodicamente, e in forma più o meno solenne, vi erano, sulla scorta della disputatio medievale, delle discussioni pubbliche, in cui, sotto la guida degli insegnanti, due o più studenti fra i migliori si affrontavano nell’esame e nella soluzione di problemi filosofici e teologici. Questo avveniva con l’esplicita intenzione di preparare allo scontro con gli eretici. Uno dei canoni che tratta delle dispute è particolarmente significativo dell’impostazione dialettica di fondo, improntata a onestà e correttezza intellettuali, virtù che nelle dispute televisive odierne mancano troppo spesso: “Il professore sia convinto che il giorno della disputa è altrettanto faticoso e proficuo che il giorno di lezione e che l’utilità e la vivacità della disputa dipendono interamente da lui. Perciò diriga la discussione in modo che sembri che egli stesso stia disputando da entrambe le parti; riconosca il merito se nella discussione si apporta qualche buon argomento, e richieda l’attenzione di tutti quando sia stato proposto un problema di maggior difficoltà: dia spesso qualche suggerimento per sostenere chi difende le tesi o per indirizzare chi le oppugna. Non rimanga a lungo in silenzio, e neppure intervenga troppo spesso, in modo che gli studenti possano dimostrare quello che sanno, ma corregga o chiarisca ciò che viene affermato. Ordini a chi sta disputando di insistere fino a quando l’obiezione sollevata mantenga la sua forza, anzi aumenti egli stesso la difficoltà, e non permetta che il contendente passi a un’altra questione. Eviti che si insista più del dovuto su un problema ormai risolto o che si continui a sostenere una risposta insoddisfacente, ma dopo un po’ di dibattito, concluda brevemente la questione e la risolva. Infine, se in qualche luogo c’è qualche altra consuetudine che rende le dispute più frequenti e vivaci, si conservi con cura” (RS 143; cfr. RS 125).

Infine, venivano previsti diversi giorni di vacanza, frequentemente intercalati allo studio, perché, “come è necessario uno studio assiduo, così è necessaria qualche interruzione” (RS 107).

 

3. Le materie e il “curriculum” formativo

Il curriculum di studi era suddiviso in due parti logicamente e cronologicamente separate: i corsi inferiori e quelli superiori.

Nei primi si studiavano retorica, umanità — una propedeutica all’eloquenza — e grammatica (a sua volta suddivisa in tre classi). Gli studenti erano guidati di anno in anno ad avere una sempre maggior competenza con la lingua latina e con la retorica, analizzando opere di Cicerone o la Poetica di Aristotele. Di mano in mano che lo studente cresceva nella dimestichezza con la lingua latina — che, per inciso, era la lingua di uso comune —, veniva portato a imitare brani di autori classici, o a comporre opere in prosa e poesia che avessero forti analogie con detti brani. Anche il greco veniva esercitato con la composizione di poesie.

I corsi superiori comprendevano le seguenti materie: teologia, morale, casi di coscienza, fisica, metafisica, logica, Sacra Scrittura e lingua ebraica.

Merita di essere ricordato come san Tommaso d’Aquino venisse considerato il maestro per quanto riguardava la teologia: al superiore provinciale si ricorda che […] devono essere nominati alla cattedra di teologia solamente coloro che si attengono strettamente alla dottrina di san Tommaso” (RS 89). Con un interessante contrappunto, che rivela la non acritica scelta di san Tommaso come proprio autore di teologia: “I nostri professori seguano assolutamente nella teologia scolastica la dottrina di san Tommaso, lo considerino come il proprio dottore; e facciano ogni sforzo perché i loro studenti si indirizzino quanto più è possibile verso di lui. Tuttavia, sappiano che non si devono legare a tal punto a san Tommaso da non potersene distaccare in alcun caso, poiché quegli stessi che più si dichiarano tomisti talvolta se ne discostano. Non è giusto che i nostri professori siano vincolati a san Tommaso più strettamente degli stessi tomisti”(RS 153).

 

4. Le attività “extracurricolari”: teatro, accademie, congregazioni

Parlare di attività “extracurricolari” nei collegi gesuitici è improprio, dal momento che tutto doveva servire all’edificazione degli studenti.

Importanza enorme ha il teatro. La produzione teatrale gesuitica può essere considerata un genere letterario a sé, con opere ritenute a pieno titolo dei capolavori. Esso permetteva a tutti di imparare oltre che i contenuti, sempre di argomento edificante, a muoversi, a gesticolare e a esprimersi con potenza e precisione; serviva pertanto più agli attori che non agli spettatori.

Altro ambito d’impegno erano le accademie, costituite ciascuna da un gruppo […] di studiosi, scelto tra tutti gli studenti, che si riunisce sotto la presidenza di uno dei nostri per tenere alcune esercitazioni particolari riguardanti gli studi” (RS 327). Tali esercitazioni riguardavano ulteriori dispute, lezioni, indagini su problemi filosofici, teologici, e retorici, pubbliche difese di tesi e ripetizioni di lezioni. Esse prevedevano anche gare, con premiazioni.

Infine, ogni studente era tenuto ad aderire a una congregazione, in modo particolare alla Congregazione Mariana, confraternita fondata direttamente dalla Compagnia, molto simile a un Terz’Ordine.

 

IV. Conclusione

Il professor Angelo Bianchi, dell’Università Cattolica di Milano, parlando dell’atmosfera generale che si respirava nei collegi gesuitici, si esprime in questi termini: “l’immagine della vita di collegio che si ricava dalle norme della Ratio è tutt’altro che quella di un ambiente statico e silenzioso. La presenza di molti studenti, suddivisi in squadre organizzate al loro interno per la ripetizione quotidiana delle lezioni e per le altre attività didattiche, e in competizione tra di loro nelle dispute, e i frequenti spostamenti, con la conseguente ridefinizione degli spazi, per lo svolgimento di lezioni, interrogazioni, verifiche, recitazioni, sembrano delineare piuttosto i tratti di un insegnamento e, ancor più, di un apprendimento attivo, con gli studenti impegnati in molteplici funzioni, condotte spesso con ampia autonomia dal docente, in un clima a tratti vociante e confuso” (Bianchi 2002, 46). Non poteva essere che così, per coloro che considerano tutte le potenze dell’anima e del corpo come altrettanti validi strumenti per contemplare le verità eterne, tramite la pratica della composizione di luogo.

Le pedagogie moderne, essendo quasi sempre frutto d’ideologie, cioè di verità antropologiche parziali, non inserite in un contesto più ampio, hanno privilegiato ora questo ora quell’aspetto dell’uomo. Ancora oggi, fatti salvi i necessari mutamenti, l’impianto educativo gesuitico rimane una validissima alternativa a esse, perché capace di cogliere appieno la meravigliosa molteplicità delle facoltà e delle attitudini, variamente “dosate” in ogni individuo secondo una ricetta unica per ciascuno. Il tutto per ricondurre questa mirabile molteplicità all’unità della fede in Nostro Signore Gesù Cristo.

 

V. Orientamenti bibliografici

Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, 2002, introduzione e traduzione di Angelo Bianchi, testo latino a fronte, Rizzoli, Milano

Basilio di Cesarea, santo, 1990, Oratio ad adolescentes, in Idem, Discorso ai giovani, con la versione latina di Leonardo Bruni (1370-1444), a cura e con un’introduzione di Mario Naldini, trad. it. con testo greco a fronte, Edizioni Dehoniane, Bologna

Bianchi, Angelo, 2002, Introduzione. Un’istituzione pedagogica moderna, in Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, 2002, pp. 11-74

Corrêa de Oliveira, Plinio, 1977, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accr., Cristianità, Piacenza

Gilson, Étienne, 1995, Umanesimo medievale & Rinascimento, trad. it., in Studi Cattolici, anno XXIX, n. 415, Milano settembre, pp. 516-523

Ignazio di Loyola, santo, 1967, Esercizi Spirituali, nuova versione letterale dell’autografo spagnolo e note del p. Giovanni Filippo Roothaan [1785-1853], ventunesimo Preposito Generale della Compagnia di Gesù, trad. it. e con una premessa a cura di p. Aurelio Dionisi S.J., Ancora, Milano

 


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