La società secondo l’Islam. La situazione attuale

Lezione tenuta il 27 novembre 2014

Prof. Leonardo Gallotta

La società secondo l’Islam. La situazione attuale

 

La scorsa lezione abbiamo cercato di evidenziare le linee fondamentali dell’organizzazione di una società islamica basandoci sulle fonti, soprattutto il Corano e la Sunna. Si potrebbe pensare, dunque, che i diversi Stati islamici siano tutti simili e addirittura, nell’immaginario collettivo, si attribuisce all’Islam una compattezza che in realtà non esiste. Intendiamoci, i pilastri dell’Islam valgono per tutti e così molte altre prescrizioni, ma la Sharìa, a seconda dei diversi Stati, vi è applicata con maggiore o minore rigore. Come abbiamo visto la volta scorsa sia pure nei diversi modi di esplicitazione delle società a livello di statalità islamica, non c’è separazione fra religione e politica e, a seconda delle situazioni, vi è prevalenza ora dell’una ora dell’altra.

Andiamo ora a vedere la principale divisione esistente fra le società islamiche, vale a dire quella fra sunniti e sciiti. I sunniti sono, di fatto, la corrente che si formò dopo la morte di Muhammad tra coloro che appoggiarono la nomina a califfo (Khalifa, vicario, successore) di Abu Bakr, uno dei primi compagni convertiti all’Islam e uno dei suoceri di Muhammad (era infatti il padre di ‘Aisha, la giovane sposa del Profeta). I sunniti costituiscono l’85-90 % di tutti i musulmani (un miliardo e seicento milioni) e si considerano il ramo ortodosso dell’Islam. Si chiamano sunniti perché credono che la Sunna debba essere seguita da tutti i musulmani. Gli hadith, detti e fatti del Profeta, riportati da amici e compagni della prima ora, furono fissati sulla base di criteri di affidabilità da ricercatori e storici dei secoli XI e XII. E’ importante ricordare che i sunniti accettano solo detti riferiti esclusivamente dal profeta e non dei suoi discendenti. Presso i sunniti non c’è un vero e proprio clero. Chiunque sia sufficientemente preparato nella conoscenza del Corano e della Sunna può essere un imam, cioè guida della preghiera. Inoltre il mondo sunnita pullula di shaykh che possono essere persone autorevoli sia per prestigio religioso sia per prestigio sociale. I sunniti hanno quattro scuole giuridiche di riferimento che prendono il nome dai loro fondatori: la malikita (abbastanza conservatrice), la hanafita (diciamo, con termine occidentale, più liberale), la shafiita (che ha una posizione intermedia). Infine la hanbalita (la più rigida e rigorosa) che è la scuola dottrinale seguita in Arabia Saudita. Per il resto valgono tutti gli obblighi (in primis i Cinque Pilastri) riferiti nella lezione precedente.

Passiamo agli sciiti. Il termine deriva da shi’at ‘Ali, cioè il partito di Alì, cugino e genero di Muhammad. Secondo la tradizione sciita, un certo giorno (il giorno di Ghadir Khum), Muhammad alzò la mano di Alì, mostrando che lui sarebbe stato il suo successore (Khalifa). Gli sciiti credono che il califfato spettasse ad Alì e che gli fu ingiustamente sottratto con la nomina di altri tre successori prima di lui – Abu Bakr, ‘Omar e Uthman – che loro non riconoscono. Gli sciiti costituiscono il secondo gruppo del mondo islamico col 10-15 % e in esso ci sono diverse correnti di cui la principale è la duodecimana. E’ diffuso in Iran, dove è sciita la quasi totalità della popolazione, in Iraq (un terzo) e poi in percentuali variabili in Pakistan, Bahrein, Libano, Siria e in altre parti del mondo, prevalentemente orientali. Al contrario di quello che potrebbe sembrare, anche gli Sciiti seguono e traggono norme dalla Sunna, ma accettano anche detti di discendenti del Profeta. Al contrario dei sunniti esiste presso gli sciiti un’élite che, con termine occidentale, potremmo definire clero, preparato in università specifiche di scienze islamiche e nelle scuole teologiche. Per diventare shaykh, c’è bisogno, contrariamente ai sunniti, di una cerimonia, ma per salire nella gerarchia occorre continuare a studiare, fino a diventare mullah (saggio, studioso) e poi ayatollah. Nello sciismo l’ ayatollah (segno di Dio) è considerato il più alto dignitario. E’ un titolo che deve essere conferito da un altro ayatollah per meriti spirituali e intellettuali. L’ imam, presso gli sciiti non è solo guida della preghiera, ma anche guida spirituale e, al massimo grado, è colui che deve guidare la religione e quindi la comunità islamica in assenza del Profeta. Secondo la Scuola duodecimana, dodici sono stati gli imam, tutti discendenti di Muhammad. Il dodicesimo imam (Muhammad ibn al Hasan, IX-X sec.) si è però a un certo punto occultato ed è chiamato il Mahdi, cioè l’atteso, che si rimanifesterà alla fine dei tempi. Quello dell’imamato è una concezione chiave che distingue gli sciiti dai sunniti. Presso gli sciiti i leader politici sono controllati dal clero, il quale decide se un governante è degno di governare e se rispetta le linee guida islamiche. I pilastri del culto, detti “ausiliari della fede” sono dieci e vi è esplicitamente richiamata la jihad, la lotta sulla via di Dio. Alcuni di questi pilastri più che princìpi sembrano consigli, come ad esempio, prender parte a ciò che è buono e rigettare ciò che è male. Nella professione di fede gli sciiti aggiungono “e Alì Ibn Abi Talib è amico di Dio”.

Volendo ora passare alla situazione attuale, mi limiterò, non avendo tempo per esaminare le singole aree islamiche, a considerazioni sull’Arabia Saudita, poi sul wahabismo e sul sedicente califfato dell’Iraq e del Levante, cioè l’ISIS.

Dopo la morte del Profeta, lo abbiamo visto, vi furono quattro califfi, l’ultimo dei quali fu Alì, dopo di che il califfato passò alla dinastia degli Omayyadi che trasferirono la capitale a Damasco fino al 750. Vinti gli Omayyadi dagli Abbasidi, la capitale e quindi il califfato passarono a Baghdad. Con l’invasione dei Mongoli si ebbe la fine del califfato nel 1258. In Arabia, per via dell’obbligo del pellegrinaggio, conservarono importanza religiosa le città de La Mecca e Medina, anche se dal punto di vista economico cominciò un periodo di decadenza con il ritorno al nomadismo beduino pre-islamico. Nel 1517 l’Impero Ottomano riuscì ad annettersi tutta l’Arabia occidentale. Non furono però eliminate alcune dinastie locali che ripresero importanza a partire dal 1700. E’ nel 1700 che viene ad assumere importanza tale Abd al Wahab, discepolo di Ibn Taymiyyah rifacentesi alla scuola hanbalita, la scuola giuridico-religiosa più rigorosa e intransigente, detta così perché fondata da Ahmad ibn Hanbal (780 – 855). Il maestro Taymiyyah, coerentemente con i dettami della scuola, si opponeva in modo radicale a qualunque forma di intromissione della ragione umana – ritenuta arbitrariamente soggettiva – nell’interpretazione delle due fonti primarie dell’Islam, il Corano e la Sunna. Ma torniamo a Wahab. Egli cominciò a parlare di “impostori musulmani”, intendendo i nobili ottomani ed egiziani che attraversavano l’Arabia per andare alla Mecca “con tutta la loro eleganza, la loro arte, il loro tabacco, il loro hashish e i loro tamburi”. Attaccava i comportamenti dei beduini locali e anche chi si recava a venerare la tomba del Profeta, considerato perciò idolatra. L’Islam wahabita proibiva ogni tipo di preghiera rivolta a persone sia pur santamente vissute e ai propri cari estinti, i pellegrinaggi alle tombe e a certe moschee troppo sfarzose, feste religiose in onore di persone defunte, la celebrazione del compleanno di Maometto e addirittura proibiva le lapidi nella sepoltura dei morti. Wahab scrisse: “Coloro che non dovessero conformarsi a tale punto di vista, dovrebbero essere uccisi, stuprate le loro mogli e le loro figlie e confiscate le loro proprietà”. Nel frattempo aveva pure elaborato il principio dell’ Autorità assoluta, necessaria per poter dare esecuzione alle sue teorie. Però doveva ancora trovare la persona adatta. Bisogna dire che questa sua visione ultraradicale non era accettata da molti, ma, dopo diverse peregrinazioni, trovò rifugio presso Ibn Saud e la sua tribù nel 1741. All’inizio conquistarono poche comunità locali, ma entro il 1790 Saud controllava gran parte della penisola araba. La loro strategia consisteva nel costringere alla sottomissione le popolazioni conquistate con tutti i mezzi, anche i più truculenti, provocando in esse il terrore. Tra i nemici erano ovviamente annoverati gli sciiti e nel 1801 i sauditi attaccarono la Città Santa di Karbala e saccheggiarono la tomba di Hussein, il figlio di Alì e nipote del Profeta, massacrando nel corso della giornata, con una sequela di atti di particolare crudeltà, più di cinquemila dei suoi abitanti. Uno storico del primo stato saudita scrisse che a Karbala, dopo la sua conquista, Ibn Saud ebbe a dire: ” Abbiamo preso Karbala e fatto un massacro e ridotto la sua popolazione in schiavitù, per cui sia resa gloria ad Allah, Dio dei Mondi. Non chiederemo scusa per questo e anzi diremo: agli infedeli lo stesso trattamento”.

Si distinguono normalmente tre Stati sauditi. Il primo nato nel 1744 e sconfitto dai Turchi nel 1817. Il secondo rinato nel 1824 e durato fino al 1891. Entrambi riconoscevano l’autorità formale dell’Impero Ottomano. Il terzo Stato saudita fu fondato nel 1902 con la conquista di Riyad, antica capitale del regno saudita e dura fino ai giorni nostri. Re Saud morì nel 1953. E poi vi furono i regni di Feisal, di Khalad, di Fahad e oggi di Abd Allah. Qualcuno potrebbe pensare che i massacri da parte dei sauditi siano una cosa confinata ai primissimi anni dell’Ottocento. Ebbene, tra il 1916 e il 1928 ebbero luogo non meno di 26 ribellioni contro i Saud e ciascuna di esse si concluse con massacri indiscriminati, donne e bambini compresi. Lo scrittore arabo Aburish afferma che il cugino di Ibn Saud, Bin Jalawi, fece decapitare 250 membri della tribù dei Mutair, tagliando la testa personalmente a 18 ribelli nella piazza centrale di Artawaya. Ecco i dati forniti da Aburish: su una popolazione di circa quattro milioni di persone, un milione fuggì, 400 mila furono uccisi o feriti in combattimento, 40 mila furono giustiziati pubblicamente, 350 mila patirono amputazioni.

Per ciò che riguarda l’odierna Arabia saudita può ingannare l’apparente modernità dovuta all’enorme ricchezza accumulata grazie alla manna petrolifera, ma – come ha scritto lo studioso francese Gilles Kepel – non è mai venuto meno l’obiettivo saudita di “espandersi, diffondendo il Wahabismo in tutto il mondo musulmano, di wahabizzare l’Islam, riducendo così la pluralità delle voci all’interno di questa religione in un unico credo”. Accanto ad una apparente disponibilità nei confronti dell’Occidente dal punto di vista politico-militare, il wahabismo è diffuso in Arabia saudita tramite le istituzioni scolastiche, la formazione religiosa, la cultura. La dottrina di Wahab è sintetizzabile nel suo motto: “Un Sovrano, un’Autorità, una Moschea” e in effetti l’Arabia saudita è governata da una monarchia assoluta. Non ha una costituzione. Nessun partito politico o sindacato ha il permesso di operare. E’ prevista la pena di morte per decapitazione, con esecuzioni anche pubbliche. Sono comminate pene corporali, compresa l’amputazione di mani e di piedi per i ladri, la fustigazione per la “cattiva condotta sessuale” e l’ubriachezza. In questi casi sono previste frustate che variano da alcune dozzine a parecchie migliaia, distribuite in tal caso, in diversi mesi. Tuttavia, per evitare gravi complicazioni che potrebbero portare anche alla morte, chi dà le frustate deve tenere un Corano sotto l’ascella del braccio con cui è utilizzata la frusta, limitando così la potenza del colpo. I diritti delle donne sono pressoché nulli. Tutte le religioni, fuorchè l’Islam, sono proibite e, ovviamente, di costruzione di chiese non si parla neppure. Per gli ebrei e per gli atei non c’è tolleranza alcuna; se stranieri non residenti, devono solo stare zitti. La stessa cosa vale per i lavoratori cristiani stranieri; c’è tuttavia una tolleranza ufficiosa che consente preghiere e riti rigorosamente privati, ma guai a farsi trovare in possesso di un vangelo o di un crocifisso fuori di casa e poi… bisogna sperare che in casa non avvenga mai la perquisizione di un qualche agente della polizia saudita.

Detto tutto questo, cerchiamo ora di capire che cosa è l’ISIS (Stato Islamico di Iraq e Siria), ora ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante od anche, semplicemente IS), vale a dire il sedicente califfato che si proclama rigorosamente sunnita.

Tre sono i personaggi che dobbiamo tenere presenti. Il primo è Osama Bin Laden, non a caso uomo di origine saudita, capo di Al Qaida. Il secondo è Al Zawahiri che ha preso il posto di Bin Laden dopo la sua uccisione e il terzo è Abu Musab al Zarqaiwi, uno dei rivali di Bin Laden all’interno di Al Qaida. Quest’ultima aveva costruito una rete terroristica nei paesi occidentali e voleva costituire una specie di legione straniera sunnita che avrebbe dovuto difendere i territori musulmani dall’occupazione occidentale. Ma Zarqaiwi voleva invece provocare una guerra civile su larga scala e per farlo voleva sfruttare la complessa situazione religiosa dell’Iraq avente una grossa presenza sciita. L’obiettivo di Zarqaiwi era di creare un califfato islamico esclusivamente sunnita. Per far questo occorreva creare una rete di “regioni della violenza” in cui la popolazione locale si sottomettesse alle forze islamiste occupanti. Nel 2004 Zarqaiwi sancì la sua vicinanza ad Al Qaida chiamando il suo gruppo “Al Qaida in Iraq”. Ma nel 2006 al Zarqaiwi fu ucciso da una bomba americana e a lui succedette Abu Omar al Baghdadi, ucciso nel 2010, a cui succedette Abu Bakr al Baghdadi, l’attuale sedicente califfo dell’ISIS. Nel 2013 Al Qaida in Iraq cambiò il suo nome in ISIS e, oggi, ISIL. C’è da dire che in Siria il capo di Al Qaida al Zawahiri chiese ad Al Qaida di rimanere fuori dalla guerra, ma al Baghdadi si rifiutò e nel febbraio 2014 Zawaihiri ha espulso l’ISIS da Al Qaida. Alla fine del 2013 l’ISIS, rafforzato dalle vittorie militari in Siria, tornò in Iraq e cominciò a conquistare numerose altre città che,fino ad oggi, sono quasi tutte sotto il suo pieno controllo.

Rispetto ad Al Qaida che era ed è una rete di miliziani jahidisti, l’ISIS ha istituito, di fatto, un mini-stato grande approssimativamente come il Belgio ed è autonomo anche dal punto di vista economico, grazie ai giacimenti petroliferi e alle centrali elettriche conquistate alla Siria. L’obiettivo della conquista di Baghdad per l’ISIS è difficile da realizzare, anche perché la crisi irachena ha spinto il governo iraniano, cioè gli sciiti, a inviare in Iraq centinaia di uomini delle forze Quds, considerate il corpo militare d’élite più temibile e più efficiente del medio Oriente, molto diverso dal disorganizzato esercito iracheno che è scappato da Mosul per non affrontare l’avanzata dell’ISIS. Comunque sia ciò che mi premeva sottolineare era il legame, a questo punto evidente, tra il Wahabismo, così come è diffuso e praticato in Arabia saudita e l’ISIS.

Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica, ha richiamato in un suo bel libro sulla legge sociale dell’Islam, il professore tunisino Abdelfattah Amor, che divide gli Stati fra “Stati subordinati alla religione”, “Stati padroni della religione” e “Stati affrancati dalla religione”. Esclusi gli ultimi (ma fino a un certo punto se la maggioranza della popolazione è musulmana), si potrebbe dire che i primi sono gli “Stati della religione”, i secondi quelli in cui la religione è “religione di Stato”. Ebbene l’Arabia saudita si può chiaramente classificare come Stato della religione, cioè espressione della religione stessa. Non ha forse le stesse caratteristiche l’ISIS? E i suoi metodi (massacri, sgozzamenti, terrore, sharìa applicata col massimo rigore) non sono forse gli stessi che abbiamo riscontrato nella storia del Regno saudita? Il motto di Wahab, ricordiamolo ancora, era: “Un sovrano, un’autorità, una moschea”. Il sovrano è, al posto del re saudita, il sedicente califfo al Baghdadi, l’unica autorità è quella della dottrina wahabita, l’unica moschea è quella dell’Islam sunnita.

A fronte di tutte le violenze e i massacri di cui sono vittime i cristiani e non solo, c’ è sempre chi dice, tra i musulmani, ma anche tra i cristiani occidentali, che non si tratta del vero Islam. Per concludere, dico allora che Monsignor Philip Najim, procuratore della Chiesa caldea presso la Santa Sede, in occasione di un incontro di preghiera per i cristiani perseguitati, tenutosi recentemente al Cairo, ha avuto un colloquio con il Gran Imam dell’Università Al-Ahzar al quale ha detto espressamente: “Eccellenza, se l’ISIS non è Islam, se Al Qaida non è Islam, se i Fratelli Musulmani non sono Islam, il mondo vorrebbe vedere i capi dell’Islam non solo condannare, ma anche proibire l’adesione a questi gruppi”. E’ chiaro che risposta non c’è stata e, facile profezia, mai ci sarà.


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