L’Allegoria del Buon Governo: spunti e riflessioni da un affresco del Trecento di Ambrogio Lorenzetti

Lezione inaugurale dell’Anno 2007-2008, tenuta il 25 ottobre 2007

prof. Leonardo Gallotta

La Scuola di Educazione Civile inizia, con questa lezione inaugurale, il suo tredicesimo anno di attività. Il filo conduttore delle lezioni di quest’anno sarà questo: Il Buon Governo. Dalla costruzione della civiltà cristiana alla Rivoluzione. Può iniziare il processo contrario? Come ho detto in una breve intervista rilasciata al settimanale della Diocesi di Ferrara Comacchio (1), l’idea di affrontare un tema come il Buon Governo è stata occasionata da un dono fatto ad Alleanza Cattolica dall’I.Re.F., l’Istituto Regionale lombardo di Formazione per l’amministrazione pubblica. Si tratta di una bella stampa che riproduce l’Allegoria del Buon Governo, un affresco dipinto da Ambrogio Lorenzetti attorno agli anni Trenta del 1300. Di tale affresco parleremo fra poco.

Mi preme ora fare qualche altra considerazione sulla restante parte del titolo del nostro Corso. In esso si parla di “costruzione della civiltà cristiana” e di “Rivoluzione”. Ebbene, per ciò che attiene alla civiltà cristiana, nella sua costruzione furono sempre tenuti presenti alcuni princìpi fondamentali che davano forma alle istituzioni pur nelle diverse modalità di sviluppo delle singole nazioni europee. Si potrebbe dire che i Dieci Comandamenti erano la legge prima da cui far derivare tutte le altre. Nacque così la Cristianità, vale a dire l’insieme della nazioni cristiane in cui i princìpi suddetti non erano in alcun modo messi in discussione e questo valeva per tutte le istituzioni, per i Comuni, per i Principati, per le Monarchie, per l’Impero. Sarebbe mai stato possibile concepire in un’Europa siffatta un re che non fosse cristiano, quando ancor oggi nei nostri dialetti il termine “cristiano” equivale puramente e semplicemente a quello di “uomo”?

Sempre nel titolo si parla poi di “Rivoluzione” con la “erre” maiuscola. Secondo il pensiero cattolico contro-rivoluzionario la Rivoluzione è un processo in cui sono ravvisabili varie tappe. Certamente, dal punto di vista sociale e politico, la Rivoluzione che fu detta Francese costituisce un discrimen assai importante, ma è bene precisare che essa fu preceduta dalla Rivoluzione protestante e seguita dalla Rivoluzione comunista. Oggi, secondo Plinio Correa De Oliveira, potremmo pure parlare di un’ulteriore tappa, la quarta, caratterizzata da un attacco non tanto volto alle strutture istituzionali, ma all’uomo stesso. Le quattro tappe sono comunque tutte unite da un filo rosso, in sostanza costituito dai tentativi di smantellare progressivamente, nei suoi princìpi e nelle sue pratiche realizzazioni, tutto ciò che di buono è stato costruito nella civiltà cristiana.

Il Corso di quest’anno è dunque strutturato in due blocchi: il primo volto ad illustrare i princìpi che hanno fatto grande la Cristianità e che oggi sono sempre più misconosciuti, il secondo volto ad esaminare le diverse risposte dei cattolici, dopo il 1789, per ricondurre le società a Cristo e alla sua Chiesa.

Infine la domanda: se la Rivoluzione è il processo di cui si è detto, può iniziare il processo contrario? o almeno si può fondatamente sperare che ciò avvenga? La lezione conclusiva di questo nostro Corso, affidata al direttore di Cristianità Giovanni Cantoni, cercherà di dare risposta al quesito.

Prima di passare all’esame dell’Allegoria del Buon Governo desidero fare una breve premessa. Sant’Agostino, nel De civitate Dei, ci ricorda tre tipi di “civitas”: la Civitas Dei, la civitas humana, la civitas diaboli. Dato che, post peccatum, non ci è consentito sperare nella costruzione di un Paradiso in terra, la “civitas humana” tanto sarà migliore quanto più si avvicinerà, ad essa ispirandosi, alla “Civitas Dei” e tanto sarà peggiore quanto più tenderà alla “Civitas diaboli”. Quando dunque parliamo di Buon Governo non possiamo pensare alla realizzazione della perfezione politica, perché non è di questo mondo. Solo le ideologie hanno costruito a tavolino le società perfette, ma noi sappiamo bene che esse, non tenendo conto della natura dell’uomo e più propriamente dell’uomo associato, hanno prodotto i più grossi disastri politici e sociali che la Storia ricordi. Dunque il “Buon Governo” non è la ricetta che porta alla società perfetta, ma tendenza al continuo miglioramento che tuttavia, senza l’aiuto della Grazia divina, risulta assai spesso di estrema difficoltà.

E’ giunto dunque il momento di analizzare l’affresco di Ambrogio Lorenzetti. Esso si trova nel Palazzo Pubblico a Siena e precisamente nella Sala dei Nove dove, oltre all’Allegoria del Buon Governo, si trovano altri due affreschi: gli Effetti del Buon Governo nella città e nella campagna e l’Allegoria del Malgoverno. Va detto che la Sala dei Nove è una sala pubblica, aperta, una sala che aiuta a riflettere su che cosa significhi governare per il bene comune, tanto che anche San Bernardino da Siena nelle sue prediche faceva riferimento alla Sala dei Nove e alle sue rappresentazioni. Cominciamo dunque l’analisi dell’Allegoria del Buon Governo (2). Partendo da sinistra – per chi guarda – vediamo l’immagine di una donna che tiene, posta sul capo, una bilancia con i piatti in equilibrio perfetto. E’ la classica immagine della Giustizia che suggerisce la necessità, nel giudicare, di “dare a ciascuno il suo”, senza sconto alcuno. Sopra i piatti vi sono due scritte che indicano la partizione della giustizia secondo la tradizione aristotelica. Nel piatto che vediamo a destra abbiamo la scena della giustizia commutativa che comporta l’equità degli scambi. Un angelo consegna a due personaggi – evidentemente mercanti – gli strumenti per le giuste misure: una canna e un “passetto” per le misure lineari e uno staio per le misure di capacità dei cereali. Nel piatto che vediamo a sinistra notiamo invece la scena che rappresenta la giustizia distributiva che consiste fondamentalmente nel premiare i buoni e nel punire i malvagi. Si vede infatti un angelo che con una spada in mano sta mozzando il capo ad un malvagio e con l’altra incorona un buono. Ai piedi del malvagio sta a terra un’arma da taglio a significare che la Giustizia, così facendo, lo ha disarmato e reso inoffensivo, mentre il buono, incoronato, regge con la destra un ramo di palma che esprime sì la sua volontà di pace, ma che è pure pegno di futura beatitudine (3). Quasi a farle da corona, sulla testa della donna sta la scritta “Diligite iustitiam qui iudicatis terram”. E’ chiaro che l’esortazione non solo è rivolta ai giudici dei tribunali, ma anche – e forse soprattutto – ai politici, a coloro che governano e che quindi fanno le leggi. Tenendo presente che l’affresco di Ambrogio Lorenzetti è di poco posteriore all’ultimazione della Divina Commedia di Dante Alighieri (4), non può non tornare alla mente il canto XVIII del Paradiso, nella seconda parte del quale Dante, salito al cielo di Giove, ove si trovano gli spiriti giusti, descrive la visione che gli si offre (5). Le anime beate appaiono come luci che cantano “volitando” e così facendo compongono figure che vanno a formare delle lettere, tra cui Dante comincia ad identificare una D, una I, una L. Continuando a comporre, le anime formano infine una scritta che, tra vocali e consonanti, risulta di trentacinque lettere: DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM. Successivamente, alla sommità dell’ultima “emme” – che si deve immaginare con grafia gotica – si pongono altre luci di beati, così che Dante può dire: “la testa e ‘l collo d’una aguglia vidi / rappresentare a quel distinto foco”. L’aquila, dunque, che rappresenta l’Impero, cioè la più alta istituzione politica medievale. A partire da essa, fino alle istituzioni minori, si impone dunque la necessità di seguire le indicazioni della scritta. Essa non è un’invenzione di Dante né di Ambrogio Lorenzetti, ma un testo scritturale. Si tratta infatti del primo versetto del Libro della Sapienza. Tornando al nostro affresco, vediamo che la Giustizia ha gli occhi volti verso l’alto e sopra di essa sta, rappresentata a mezzo busto, una figura femminile alata, con un libro in mano, sopra la quale è scritto proprio SAPIENTIA. Anche questa figura guarda in alto, cioè a Dio, volendo così significare che per governare secondo giustizia non basta la pura e semplice sapienza umana, ma che a quella divina è necessario ispirarsi.

Proseguiamo nell’analisi. Dai piatti della bilancia scendono due corde che vengono tenute in mano da una donna seduta che rappresenta la Concordia. Ambrogio Lorenzetti segue qui una falsa etimologia popolare. Concordia deriva infatti da cum + cor, cordis, volendo indicare che i cuori battono all’unisono, che vi è cioè un “idem sentire“. In questo caso però il nostro pittore ha ritenuto di rappresentarla come una donna che tiene le corde, utilizzando una falsa, ma concettualmente appropriata, derivazione da cum +chorda (6). Questa donna, dunque, unisce le corde della giustizia distributiva e della giustizia commutativa. Sulle gambe, poi, regge una grossa pialla, a significare che la Concordia toglie le asperità e rende più lineari i rapporti. Il percorso delle corde – che si intrecciano e ne formano una sola – non finisce qui. Tale corda intrecciata è, di mano in mano, tenuta da ventiquattro cittadini, alcuni dei quali dialogano, che stanno procedendo verso il personaggio più importante di tutto l’affresco. La corda infatti prosegue il suo cammino finendo legata allo scettro tenuto in mano dal personaggio che andremo ora ad analizzare. Egli appare seduto su uno scranno che assomiglia a un trono regale, a significare la sua importanza per tutta la città. Si può dire con sicurezza che è raffigurato come giudice, in quanto il copricapo è di pelliccia di vaio (7) e tale copricapo era tipico dei giudici di quel tempo. Che cosa rappresenta questo vecchio dalla barba bianca e dallo sguardo grave? Un cartiglio dipinto da Ambrogio Lorenzetti nello stesso affresco recita: “Questa santa virtù (cioè la Concordia), là dove regge, induce ad unità li animi molti e questi, a cciò ricolti, un ben comun per lor signor si fanno”. Dunque si tratta del Bene Comune simbolicamente inteso, ma anche del Comune nella sua concretezza politico-amministrativa, liberamente scelto dai cittadini. Più precisamente del Comune di Siena. Il nostro personaggio è vestito di bianco e di nero – sono questi i colori di Siena – e con la sinistra regge uno scudo che altro non è che il sigillo del Comune con l’immagine della Vergine fra gli Angeli. Ai piedi del Bene Comune troviamo la lupa che allatta i gemelli, fondatori della città secondo la leggenda. Attorno al capo, invece, abbiamo quattro lettere: CSCV. Esse stanno a significare Civitas Senensis Civitas Virginis , vale a dire Città di Siena, Città della Vergine (8). Nello stesso cartiglio più sopra citato si dice che il Ben Comune non distoglie mai lo sguardo “da lo splendor de’ volti de le virtù che intorno a lui stanno”. Tali virtù sono in figura di donna e in numero di sei. Oltre alle cardinali troviamo infatti altre due virtù: la Pace e la Magnanimità.

Andiamo dunque ad analizzarle, partendo da quelle a destra del Bene Comune. La prima è la Prudenza che tiene in mano una lucerna con tre fiammelle, che illuminano un cartiglio ad arco su cui sta scritto PRETERITUM, PRESENS, FUTURUM, vale a dire Passato, Presente, Futuro. La Prudenza, ovverosia la Saggezza, è dunque la virtù che fa tesoro dell’esperienza passata, conosce i problemi del presente e riflette sulle prospettive future. Ancora a destra sta la Fortezza che regge con la destra il bastone del comando, dell’imperium, e con la sinistra uno scudo. Sotto di essa stanno due cavalieri armati indossanti una corazza, mentre accanto ad essi vi sono alcuni fanti che sembrano vegliare sui cittadini concordi. La terza virtù non appartiene alle cardinali ed è la Pace che, vista la contiguità con la Fortezza, sembrerebbe in qualche modo garantita da quest’ultima. La Pace, in veste bianca, riposa su un cuscino e con una mano regge un ramoscello di ulivo. Tutto il suo atteggiamento vuole ispirare quella serenità che è appunto il frutto della pace. Sotto il cuscino su cui è sdraiata ed anche sotto i suoi piedi stanno scudi, elmi e corazze, ad indicare la cessazione dei conflitti.

Passiamo ora ad analizzare le tre virtù alla sinistra del Bene Comune. La prima è una virtù non cardinale, la Magnanimità, ossia la capacità di avere un animo grande che non pensa al proprio interesse immediato e personale. Con una mano regge una corona e con l’altra un contenitore di pietre preziose. A me pare che il significato sia questo: chi è magnanimo non mira alle ricchezze e al potere in sé (9) e tuttavia avrà l’una cosa e l’altra proprio in grazia del suo distacco da queste brame. La seconda virtù è la Temperanza, rappresentata con la clessidra in mano che vuole significare il saggio impiego del tempo e la necessità di ponderare bene – senza la fretta dettata dal momento – le decisioni importanti da prendere. Ultima, a sinistra del Bene Comune, è la Giustizia. Perché, ci si potrebbe chiedere, vi è qui una replica della figura grande che pure rappresenta la Giustizia? Occorre allora dire che la figura grande rappresenta la giustizia operativa, mentre questa rappresenta una virtù che si lega inevitabilmente al Bene Comune. Infatti essa tiene in mano un capo mozzo e una corona. Non si tratta allora, secondo il mio parere, di pura e semplice consonanza con la distributiva. Il capo mozzo e la corona vogliono infatti significare la fine che dovrà necessariamente fare chi, volendo il potere tutto per sé, attenterà all’autorità e al potere del Bene Comune. Si può infine notare che, ad eccezione della Pace che ha in testa una coroncina di ramoscelli di ulivo, tutte le altre virtù hanno sul capo una corona vera e propria, a dimostrazione della loro nobiltà.

A sinistra del Buon Governo e sotto Magnanimità, Temperanza e Giustizia, si trova un gruppo di persone a vario titolo sottomesse. Due uomini in armi consegnano un castello, un altro porge le chiavi di una città, alcuni prigionieri, legati, attendono il loro destino. Il giusto governo ottiene “con triunfo…censi, tributi e signorie di terre”. Un governo siffatto, conclude l’iscrizione sotto l’affresco, produce “ogni civile effetto, utile, necessario e di diletto”.

Sopra la testa del Buon Governo, infine, volteggiano, alate, sullo sfondo di un cielo azzurro, le tre virtù teologali: Fede, Speranza, Carità, tutte con una corona sul capo. La Fede, sulla sinistra di chi guarda, abbraccia con atteggiamento amoroso la Croce. La Speranza, sulla destra, in atteggiamento di preghiera, guarda verso il cielo azzurro, da dove si mostra il volto di Cristo. Infine, proprio sopra la testa del Bene Comune sta la Carità recante nella mano destra una lancia – per trafiggere i cuori induriti – e nella sinistra un cuore ardente.

Considerando dunque l’affresco nel suo complesso, potremmo suddividerlo in tre fasce orizzontali. Quella più in basso rappresenta la vita e la partecipazione del popolo, quella centrale il governo della città che ha bisogno di tutte le virtù umane, quella superiore che sta a significare che le virtù umane possono non bastare se non sono vivificate dalle virtù che rimandano a Dio stesso, vale a dire le tre teologali e la Sapienza. Con l’Allegoria del Buon Governo Ambrogio Lorenzetti ha voluto rappresentare, in modo figurativo, dei princìpi. Se nell’amministrare la res publica essi saranno seguiti, avremo benefici effetti, in caso contrario essi saranno nefasti. Riprendendo dunque Sant’Agostino – da me richiamato all’inizio – e posto che su questa terra non è dato avere una società perfetta, si può concludere che tanto la civitas humana sarà migliore quanto più volgerà gli occhi alla Gerusalemme celeste.

 

Note:

  1. Vedi la Voce di Ferrara Comacchio, Anno LIV, n. 30, 20 ottobre 2007, p. 4.
  2. Gran parte degli spunti per l’analisi dell’affresco mi sono stati offerti da LORENZO CANTONI, in Inaugurazione Anno Formativo 2007, ATTI, a cura dell’I.Re.F., novembre 2006, pp. 7-14 e dai testi, citati nel retro della stampa, di MARIA MONICA DONATO, Il pittore del Buon Governo: le opere politiche di Ambrogio in Palazzo Pubblico, che si trova in CHIARA FRUGONI (a cura di), Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Le Lettere, Firenze 2002.
  3. Vedi Apocalisse, 7, 9: “Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani”.
  4. Per la maggior parte degli storici della Letteratura e dei dantisti in particolare, il Paradiso, cominciato nel 1316, sarebbe stato ultimato poco prima della morte del Poeta, avvenuta nel 1321, e pubblicato postumo.
  5. Tutta la descrizione fino alla trasformazione in aquila della “emme” finale occupa i versi 73-108 del XVIII canto del Paradiso.
  6. I medievali amavano giocare con le false derivazioni. I Domenicani, come è noto, derivano il nome da Domenico, in Latino Dominicus, che significa “appartenente al Signore, del Signore”. Dominicani è dunque il termine corretto in Latino per designare gli appartenenti all’Ordine. I seguaci di San Domenico, tuttavia, amarono chiamarsi anche Domini canes, cioè cani del Signore, a significare la necessaria guardia dottrinale contro l’eresia e il male in genere. All’affermazione della falsa derivazione contribuì sicuramente il sogno fatto dalla madre di San Domenico. Dice infatti il biografo Teodorico d’Appoldia (Acta,I,556) che la madre di Domenico, essendo incinta, sognò un cane nero e bianco avente in bocca una fiaccola con cui incendiava la terra. I colori bianco e nero simboleggiavano l’abito domenicano e la fiaccola l’ardore del bene e dello zelo del santo che avrebbe infiammato le genti con la sua predicazione. A Ferrara, nella Chiesa di San Domenico, ai lati della balaustra, si possono osservare due cagnolini in marmo, lì posti come a guardia del presbiterio.
  7. Si tratta della pelliccia ricavata dal mantello invernale degli scoiattoli siberiani della specie Sciurus vulgaris, oggi più comunemente nota con la denominazione francese di petit-gris. Essa fu molto pregiata già in età medievale e usata per la confezione di abiti particolarmente lussuosi (Cfr. Grande Dizionario della Lingua Italiana, a cura di Salvatore Battaglia, s.v. “vaio”).
  8. Secondo altri “Commune Senarum Civitas Virginis”, cioè “Comune di Siena, Città della Vergine”.
  9. Dice Dante a proposito del Veltro (Inferno, I , vv. 103-104): “Questi non ciberà terra né peltro, ma sapienza, amore e virtute”.

 


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