Il diritto di proprietà dalle prime comunità cristiane all’Editto di Tessalonica

Rielaborazione della prima parte della lezione tenuta il 22 novembre 2007

prof. Leonardo Gallotta

 

Il diritto di proprietà privata è il diritto che ogni singolo uomo ha di possedere, a pieno titolo, beni materiali che possono essere usati, scambiati, acquistati, venduti, trasmessi in eredità (1). Il diritto di proprietà è tuttavia subordinato al principio della destinazione universale dei beni. Recita infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica (2): “All’inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità, affinché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro e ne godesse i frutti. I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano. Tuttavia la terra è suddivisa tra gli uomini perché sia garantita la sicurezza della loro vita, esposta alla precarietà e minacciata dalla violenza.. L’appropriazione dei beni è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità”. E ancora (3): “Il diritto alla proprietà privata acquisita con il lavoro o ricevuta da altri in eredità oppure in dono, non elimina l’originaria donazione della terra all’insieme dell’umanità. La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio”.

 

1. Altri tipi di proprietà

Accanto alla proprietà privata individuale esistono poi la proprietà sociale, la proprietà comune e la proprietà pubblica (4). Per proprietà sociale si deve intendere ogni proprietà in possesso di soci, tra essi in vario modo ripartita e riconosciuta a livello di diritto privato. C’è chi tra proprietà privata e proprietà sociale ha voluto situare la proprietà imprenditoriale (5). A mio avviso un’impresa o ha un solo titolare e allora ricade nella proprietà privata individuale oppure è costituita da soci e allora ricade nella proprietà sociale. Pertanto attengono alla proprietà sociale tutte le società economiche, comunque si denominino, ivi comprese le cooperative. Per proprietà comune si deve invece intendere ogni proprietà in possesso di istituzioni o associazioni, purché ovviamente provviste di uno status giuridico, in cui non vi è ripartizione di proprietà tra soci, ma di esse proprietà dispone legalmente il rappresentante pro tempore in vario modo designato. Questo vale per una Diocesi, per una Parrocchia, per un Ordine religioso, per una qualsivoglia associazione – culturale, sportiva, caritativa – legalmente riconosciuta. Per proprietà pubblica, infine, si deve intendere ogni proprietà che si trova in possesso di istituzioni come Stato, Regioni, Comuni, Enti di diritto pubblico. Ne sono esempio, purché ovviamente non appartengano a privati, le ferrovie, le poste, le strade, i parchi, i cimiteri e ancora ospedali, teatri, musei, scuole e così via. Sono perfettamente consapevole che ci sono autori che fanno ulteriori e minute distinzioni; mi pare tuttavia che i quattro tipi di proprietà delineati – privata, sociale, comune e pubblica – siano sufficienti per un buon inquadramento generale.

 

2. Fondamenti scritturali

In Esodo 20,15 e in Deuteronomio 5,19 abbiamo il perentorio invito a “Non rubare”. Sempre in Esodo 20,17 troviamo scritto: “Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga la tuo prossimo”. Ancora in Deuteronomio 5, 21 è aggiunto, oltre al resto, “Non desiderare la casa del tuo prossimo né il suo campo”. Tali proibizioni, oltre al nono comandamento, sostanziano il settimo e il decimo che sono quelli che qui più propriamente ci interessano. Le proibizioni enunciate da questi due comandamenti, infatti, neppure si darebbero se ad esse non fosse sotteso il diritto ad essere proprietari.

Ricordo qui, come ho già fatto in altre occasioni, che i Comandamenti, segnatamente quelli della seconda Tavola della Legge, vale a dire dal quarto al decimo, non costituiscono una vera e propria rivelazione, ma un pro-memoria, suggellato da Dio stesso, per uomini dimentichi di quei principi a cui si può pervenire per via razionale e per senso comune. Tali comandamenti sono certamente rivolti ai singoli, ma hanno indubbia rilevanza dal punto di vista sociale. Tenuto conto di tale rilevanza a proposito del settimo e del decimo comandamento, si deve dunque concludere che una società bene ordinata non può fare a meno di riconoscere il diritto di proprietà.

Passiamo ora ad un brano del Nuovo Testamento utile per trarre alcune prime conclusioni in proposito. Ci dice il Vangelo di Matteo (Mt,19,16-30): “Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse:’Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?’. Egli rispose:’Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti’. Ed egli chiese:’Quali?’. Gesù rispose:’Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso’. Il giovane gli disse:’Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?’. Gli disse Gesù: ‘Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi’. Udito questo,  il giovane se ne andò triste,  poiché aveva molte ricchezze”.

Gesù allora disse ai suoi discepoli:’In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi  per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli’. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero:’Chi si potrà dunque salvare?’. E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse:’Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile’ “.

Allora Pietro prendendo la parola disse:’Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?’. E  Gesù disse loro: ‘In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi’”. Il brano riportato è ripreso, con qualche variante, anche dagli altri due sinottici, Mc,10,17-31 e Lc,18.18-30.

Da ciò che si è letto si evince che per ottenere la vita eterna basta osservare i Comandamenti (6) e che tuttavia, se si vuole essere perfetti, occorre rinunciare ai beni posseduti e darsi totalmente a Cristo. Il possesso di ricchezze (7) è dunque un grave ostacolo per riuscire ad entrare nel regno dei cieli e tuttavia Gesù Cristo lascia intravvedere uno spiraglio di speranza anche per i ricchi: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”.

Infine che cosa otterranno di più gli Apostoli che, avendo lasciato tutto, hanno seguito Gesù Cristo, rispetto a chi ha semplicemente seguito i Comandamenti? Risponde Nostro Signore che quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederanno anche loro su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele (8) e che riceveranno cento volte tanto quanto hanno lasciato.

Mi pare che da tutto ciò si debba ricavare quanto segue: al  cristiano “ordinario”, anche se proprietario di beni, non è preclusa la vita eterna, in quanto è sufficiente per lui seguire i Dieci Comandamenti con l’aggiunta, come riferisce Matteo, della Carità verso il prossimo. Tuttavia colui che ha di mira una vita di perfezione deve volontariamente rinunciare ad ogni proprietà e mettersi alla sequela di Cristo, con la consapevolezza che riceverà molto di più di quanto ha lasciato e che nel Regno dei cieli avrà un posto privilegiato.

 

3. Diritto di proprietà e prime comunità cristiane

In Atti,2,42-45 si parla della prima comunità cristiana in Gerusalemme: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”.

E ancora in Atti,4,32-35 si dice: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”.

Nel capitolo successivo ai due brani riportati (Atti,5,1-11), abbiamo la descrizione dell’episodio relativo alla frode di Ananìa  e Saffira: “Un uomo di nome Ananìa con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per sé una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse:’Ananìa, perché mai satana si è così impossessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre  a tua disposizione? Perchè hai pensato in cuor tuo a questa azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio’. All’udire queste parole, Ananìa cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano. Si alzarono allora i più giovani e, avvoltolo in un lenzuolo, lo portarono fuori e lo seppellirono. Avvenne poi che, circa tre ore più tardi, entrò anche sua moglie, ignara dell’accaduto. Pietro le chiese:’Dimmi: avete venduto il campo a tal prezzo?’. Ed essa:’Sì, a tanto’. Allora Pietro le disse:’Perché vi siete accordati per tentare lo Spirito del Signore? Ecco qui alla porta i passi di coloro che hanno seppellito tuo marito e porteranno via anche te”. D’improvviso cadde ai piedi di Pietro e spirò. Quando i giovani entrarono, la trovarono morta e, portatala fuori, la seppellirono accanto a suo marito. E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste cose”.

Dalle parole che abbiamo letto si evince che la Chiesa nascente di Gerusalemme praticava la comunione dei beni così che, se proprio si volesse definire tale modalità di aggregazione, si potrebbe utilizzare il termine “comunitarismo cristiano”. Rimangono tuttavia aperti diversi problemi: facevano tutti vita in comune? Sembrerebbe proprio di no, visto che in Atti,2,41 si dice che in un sol giorno “furono battezzati” e “si unirono a loro tremila persone”. Il conferimento dei beni era volontario od obbligatorio? In poche parole, Ananìa è stato fulminato per aver mentito o perché era obbligato a dare tutto? Se avesse dichiarato a Pietro che aveva intenzione di dare solo metà del ricavato, si sarebbe salvato? Il conferimento poteva dunque essere anche parziale oppure no? Ciò che era conferito costituiva una specie di fondo gestito da Pietro e dagli Apostoli? E ancora: in base a che cosa si stabilivano le priorità dei bisogni? Se andassimo a compiere una minuta analisi delle espressioni riportate, troveremmo che a ciascuna di esse ne potrebbe essere contrapposta un’altra sfociante in esito diverso. Ritengo pertanto che discutere sul preciso modus operandi  della prima ecclesia gerosolimitana possa essere sicuramente interessante ed anche stimolante, ma sono altrettanto convinto che non porti ad alcuna certa conclusione. Se non siamo in grado di esprimere certezze quanto ai modi, mi pare comunque che si possa avere certezza quanto all’intentio. Questa ecclesia nascente, anche in relazione alla proprietà, vuole infatti conformarsi pienamente all’esortazione di Cristo alla vita di perfezione che comporta il distacco completo dalle ricchezze, come abbiamo visto in Mt,19,20-21. 

Se mettere dei beni in comune è dunque un tratto caratteristico della prima ecclesia gerosolimitana , ci si può tuttavia legittimamente chiedere se anche le altre chiese, di cui abbiamo notizia dalle Scritture, si comportassero in modo simile in relazione alla proprietà dei beni. Occorre dire che il modus operandi della comunità cristiana di Gerusalemme è sicuramente esemplare e che tuttavia già nelle Lettere di San Paolo troviamo passi che ci fanno comprendere come le altre chiese avessero cominciato a darsi le prime strutture e le prime gerarchie così che, più che la pratica della comunione dei beni, sarebbero invece ipotizzabili sostegni economici alle singole chiese tramite offerte e contribuzioni da parte dei fedeli.

Nella prima Lettera a Timoteo troviamo ad esempio citate le figure dell’ “episcopo” (9), dei presbiteri e dei diaconi. Timoteo, ma anche Tito, rappresentano l’autorità apostolica che è in procinto di essere trasmessa, per supplire alla prossima scomparsa degli Apostoli e che ben presto si fisserà in ogni comunità in un capo del collegio presbiterale che sarà il vescovo. Ci troviamo in uno stato intermedio dell’organizzazione ecclesiastica in cui gli episcopi-presbiteri hanno soprattutto l’incarico dell’insegnamento e del governo, ma sono anche amministratori di beni temporali: essi sono in realtà gli antecessori dei nostri “vescovi” e “sacerdoti”. In una ecclesia che già comincia ad essere strutturata ed organizzata e che distingue tra autorità e comuni fedeli, pare dunque assai improbabile la pratica della comunione dei beni, dovendosi invece pensare a contribuzioni dei singoli per il sostentamento della comunità e per ovviare alle necessità dei fratelli più disagiati.

I cristiani delle prime comunità possono possedere beni e San Paolo (I Cor,6,7) dice, condannando chi si appella ai tribunali pagani: “E dire che è già per voi una sconfitta avere liti vicendevoli! Perché non subire piuttosto l’ingiustizia? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene? Siete voi invece che commettete ingiustizia e rubate, e ciò ai fratelli!”. E ancora (I Cor,7,29+) : “d’ora innanzi quelli che comprano [vivano] come se non possedessero; quelli che usano  del mondo,  come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!”. E’ chiaro che l’esortazione è qui di carattere spirituale e che non invita a disfarsi delle proprietà e a metterle in comune. Sempre nella prima Lettera ai Corinzi (I Cor,16,1-3), San Paolo esorta a fare una colletta da portare a Gerusalemme: “Quanto poi alla colletta in favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese di Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando verrò io. Quando poi giungerò, manderò con una mia lettera quelli che voi avrete scelto per portare il dono della vostra liberalità a Gerusalemme (10)”. In  II Cor,8,1-15 esorta ancora alla colletta e in 9,7afferma: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia”.

Per finire, nella prima Lettera a Timoteo (6,17) San Paolo non nega la possibilità di essere ricchi in questo mondo, ma ai ricchi raccomanda “di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera”.

 

4. Le Domus Ecclesiae

Dove si radunavano i primi cristiani? Alla fine della Lettera ai Romani (11), nella parte dedicata alle raccomandazioni e ai saluti, San Paolo dice: “Salutate Prisca e Aquila (12), miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa (13) e ad essi non soltanto io sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa”. E ancora, poco più avanti: “Salutate quelli della casa di Narciso che sono nel Signore”. Nella Lettera ai Colossesi (14): “Salutate i fratelli di Laodicea e Ninfa con la comunità che si raduna nella sua casa. Infine, nella Lettera a Filemone (15), fra i destinatari pone anche la “comunità che si raduna nella tua casa”. Non dobbiamo tuttavia dimenticare gli Atti degli Apostoli. A proposito della prima comunità cristiana, vi si dice: “Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore”(16). Ed anche in altri passi si fa riferimento alla casa quale luogo di insegnamento e preghiera (17). Come si evince da queste testimonianze scritte, i luoghi in cui si radunavano i primi cristiani erano delle semplici case private messe a disposizione da qualche proprietario cristiano.

Così era sia in Oriente che a Roma. Esternamente non si differenziavano dalle altre case e internamente era disponibile – o era ricavata – un’unica sala dove si faceva catechesi, si pregava, si celebrava l’eucaristia, la fractio panis e si consumava un pasto comune, l’agape (18). Le suppellettili dovevano essere ridotte all’essenziale anche perché, in tempi di persecuzione, era necessario far sparire in fretta ogni cosa che potesse essere compromettente. Per i primi due secoli i nostri antenati cristiani indicarono il luogo di riunione con l’espressione “domus”, seguita dal nome del proprietario/a in genitivo, ad esempio “Damasi” o “Ceciliae”. Avere testimonianze archeologiche che indichino con certezza queste che alcuni studiosi hanno definito ecclesiae domesticae, è assai difficile, proprio perché, per motivi prudenziali, non si differenziavano dalle altre “domus”.

E’ nel corso del 200, cioè nel III secolo d.C., che la liturgia si definisce meglio e diventano necessari locali a più stanze per le diverse funzioni. Dalle ecclesiae domesticae si passa alle domus ecclesiae. Oltre alla stanza del pasto comune, c’erano un vestibolo per i catecumeni (19) e per i penitenti (20), ma anche un battistero e una sala per la Cresima. Insomma, casa dell’assemblea o di riunione, ma anche, volendo, “domus ecclesia”, ossia “casa – chiesa”. Sono case ancora private, ma hanno una superficie nettamente più ampia rispetto alle semplici “domus”. Esse erano messe a disposizione dai cristiani più facoltosi, visto che il cristianesimo cominciava ad attirare anche persone di ceto elevato.

Lo sviluppo logico delle domus ecclesiae sono i “tituli”. Di che cosa si tratta? Occorre precisare che in Roma, originariamente, il “titulus” indicava la tabella – di legno, di marmo o di metallo – che, posta accanto alla porta di un edificio, riportava il nome del proprietario (21).

I “tituli” sono tuttavia, nelle comunità cristiane di questo periodo, identificati come patrimonio edilizio che può certamente essere ancora di proprietà privata, ma che, grazie ad una donazione  o una fondazione ex novo, diventano proprietà della comunità cristiana andando a costituire un patrimonio collettivo amministrato dal clero. A capo di un “titulus” – struttura edilizia sempre più articolata – stava infatti un presbitero, così che, azzardando un po’ ma non troppo, si può dire che questi “tituli” ci appaiono come gli antenati delle nostre parrocchie.

Sia le domus ecclesiae sia i “tituli” prendevano il nome dal primitivo proprietario dell’edificio e lo conservavano anche con la costruzione di una vera e propria chiesa in epoca successiva dedicata a un santo con lo stesso nome. Per esempio il “titulus Clementis”, in origine proprietà di un certo Clemente divenne ecclesia Clementis e successivamente quella che è attualmente la Basilica di San Clemente al Laterano. Nel IV secolo Roma contava 25 “tituli” (22), ma nel IV secolo siamo ormai avanti, perché con Costantino i cristiani hanno libertà di culto e dopo i “tituli” comincia un’altra storia di edilizia religiosa.

 

5. Un gioiello dell’Archeologia cristiana: la domus ecclesiae di Dura Europos

Anche se può sembrare che andiamo un po’ fuori pista, passiamo ora a considerare quella che è, ad oggi, la più antica e meglio conservata domus ecclesiae che si conosca, quella di Dura Europos, antica città della Mesopotamia, situata attualmente nel Nord della Siria, in prossimità dell’attuale villaggio di Salhiyah.

Per la sua posizione strategica fu conquistata dai Romani nel 165 d.C., diventando una importantissima roccaforte del limes eufratico e fu da essi incorporata alla provincia di Siria. Quasi un secolo dopo, tuttavia, precisamente nel 256 d.C. fu completamente distrutta dall’esercito persiano dei Sassanidi (23).

Diversi monumenti, grazie al fatto di essere stati coperti di terra a scopo difensivo, poi di sabbia nel corso dei secoli, si sono conservati assai bene.  Fu tuttavia solo nel 1920 che per caso, da un soldato britannico del capitano Murphy – ivi presente per il coinvolgimento inglese ai tempi della rivolta araba sul finire della Prima Guerra Mondiale – fu scoperto, scavando una trincea, un muro affrescato. Da allora cominciarono ad emergere i resti archeologici di quella che oggi è chiamata la “Pompei del deserto” o “Pompei d’Oriente”. Tra i diversi monumenti (importantissimi una Sinagoga e un Mitreo), anche la nostra domus ecclesiae. Grazie ad un graffito ivi rinvenuto essa è databile al 232 d.C. Aveva una struttura a due piani – quello superiore probabilmente utilizzato come abitazione – con una serie di sale intorno ad un cortile centrale. La sala più grande era la sala di riunione della comunità. Una sala di dimensioni inferiori costituiva un ambiente intermedio utilizzato per l’agape e un ambiente ancor più piccolo fungeva da battistero. Ed è proprio nel vano battesimale che sono stati rinvenuti gli affreschi raffiguranti Adamo ed Eva, Davide e Golia, il Buon Pastore, le Marie al Sepolcro, Cristo che cammina sulle acque, il miracolo del paralitico e infine la Samaritana. Insomma, un vero gioiello archeologico sia per l’antichità e la quasi unicità della struttura sia per le tematiche degli affreschi, riconosciuti tra i più antichi nella Storia dell’Arte cristiana. Non c’è oggi manuale che non citi e parli della domus ecclesiae di Dura Europos.

Tuttavia, per tornare al nostro tema, quello della proprietà, che cosa dobbiamo pensare? E’ vero che siamo molto lontani da Roma, ma Dura Europos era una città romana e la domus col cortile interno richiama proprio una costruzione romana. Vista l’articolazione in sale della struttura e la presenza di affreschi, possiamo pensare alla proprietà di un facoltoso cristiano messa a disposizione dei confratelli e probabilmente gestita da un presbitero. In tal caso il secondo piano sarebbe stata la sua abitazione (24)?

Comunque sia, se le domus ecclesiae erano i luoghi di riunione per i primi cristiani, c’era anche il problema di dove riunire i cristiani morti. E così passiamo al paragrafo successivo.

 

6. Le catacombe

Come per le domus ecclesiae, così anche le catacombe ebbero inizialmente dei proprietari cristiani che misero a disposizione alcuni loro terreni dove poter scavare tombe sotterranee. La proprietà della superficie, secondo la legge romana, implicava quella del sottosuolo e quindi i confini dell’area esterna delimitavano anche l’estensione delle gallerie sottostanti.

Si pensi alle catacombe di Domitilla che era patrizia, appartenente alla gens Domitia. Flavia Domitilla era infatti nipote o forse moglie (le fonti sono incerte e contraddittorie al riguardo) di Flavio Clemente, console nel 95 d.C., ucciso per le sue simpatie religiose dall’imperatore Domiziano, suo cugino. Flavia Domitilla fu mandata al confino a Ponza, così come la zia dallo stesso nome. Essa lasciò i suoi terreni, nell’area dell’Ardeatina, ai cristiani. Sorse così nel tempo il più grande cimitero cristiano dell’antica Roma.

Altro esempio è quello della nobildonna Priscilla, appartenente alla famiglia degli Acilii Glabrioni. Fu infatti lei, agli inizi circa del II secolo, la donatrice del terreno lungo la Salaria, la cui memoria ricorre il 16 gennaio nel Martirologio Romano che la indica come benefattrice della comunità cristiana di Roma.

Se all’inizio, così come per le domus ecclesiae, ci troviamo di fronte alle donazioni di beni immobili da parte di cristiani aristocratici e benestanti, occorre dire (25) che ben presto si formarono alcune associazioni di cristiani, composte da piccoli gruppi di individui che avevano come oggetto la gestione dei cimiteri e che resero possibili l’allacciamento di catacombe situate in aree vicine. Nel III secolo tale organizzazione si perfezionò e le associazioni funerarie finirono per entrare in possesso, a titolo corporativo, delle catacombe. L’iniziativa di questa riforma viene riferita a Papa Callisto. Tali associazioni pare che acquisissero le proprietà destinate ad uso catacombale per vie del tutto legali. Solo nel III secolo, infatti, le persecuzioni incominciarono ad interessarsi alle pratiche funerarie (con l’Editto di Valeriano del 257 si proibiva ogni visita alle tombe cristiane; in base a tale editto Papa Sisto II che l’aveva violato tenendo una riunione nel cimitero di Pretestato, fu arrestato e condannato a morte). Fino ad allora, invece, sia nell’epoca apostolica che durante i primi due secoli, i cimiteri cristiani avevano usufruito della protezione legale e la loro gestione era avvenuta nel modo più pacifico.

Dopo la cosiddetta “pace della Chiesa” ossia dopo l’editto di Costantino del 313 che concedeva libertà di culto ai cristiani vi fu un rapido incremento di sepolture all’aria aperta, anche se le catacombe non furono abbandonate. Ma qui comincia un’altra storia anche per ciò che riguarda il tema della proprietà.

 

7. Cristiani, persecuzioni e… proprietà.

Quando si pensa alle persecuzioni, la mente corre subito a Nerone e alla ferocia delle esecuzioni dei cristiani (26). E’ normale che sia così, visto che agli inizi è proprio sotto l’impero di Nerone che avviene la prima e vera persecuzione in Roma. Vero è che Nerone costituisce una parentesi in un periodo in cui alle autorità interessava fondamentalmente che dai cristiani non provenissero turbative per l’ordine pubblico.

Con gli imperatori successivi le persecuzioni non vengono sicuramente meno, ma le preoccupazioni degli imperatori sono relative alla resistenza dei cristiani nel sacrificare agli dei della tradizione romana e all’imperatore stesso. E’ noto il rescritto di Traiano che non prevedeva alcuna ricerca attiva dei cristiani. In caso di denuncia era prevista la condanna qualora avessero rifiutato di sacrificare agli dei. Dovevano però essere respinte le denunce anonime. Bisogna anche dire che, a livello popolare, cominciò una caccia ai cristiani – ad esempio sotto Marco Aurelio – ritenuti responsabili della collera degli dei per epidemie, carestie, invasioni e accusati di cannibalismo e rapporti incestuosi.

I primi decenni del III secolo d.C. furono caratterizzati da una relativa tolleranza nella quale la Chiesa potè crescere ulteriormente arrivando fino ai ceti più elevati. Le comunità non dovevano più nascondersi ed anzi erano molto attive grazie anche alle eredità raccolte (27). Fu però nel 257 d.C. che Valeriano proibì ai cristiani le assemblee di culto, sequestrando chiese e cimiteri. Inoltre sancì la confisca dei beni dei cristiani per impinguare certamente le casse statali, ma anche per indebolire le comunità cristiane privandole dei loro capi – si veda la fine di papa Sisto riportata nel precedente paragrafo – e delle risorse finanziarie. A Valeriano successe però Gallieno che concesse a tutti di rientrare dall’esilio – a cui molti erano stati costretti – e restituì alle chiese i loro beni. Seguì un periodo di tranquillità per quarant’anni.

Giungiamo così alla più grande persecuzione, quella di Diocleziano. Questo imperatore aveva istituito la cosiddetta tetrarchia, vale a dire un Augusto coadiuvato da un Cesare sia per l’Occidente sia per l’Oriente. Galerio, Cesare di Diocleziano, iniziò a cacciare con disonore e poi a giustiziare come disertori numerosi soldati e ufficiali cristiani. Galerio sosteneva che i cristiani avevano creato uno stato nello stato, che possedevano un notevole patrimonio di beni mobili e immobili e che erano coesi attorno ai loro capi, cioè i vescovi. Occorreva quindi un intervento prima che acquisissero anche una forza militare. Nel 303 a Nicomedia si ebbe il primo editto di Diocleziano che ordinava: a) il rogo dei libri sacri, la confisca dei beni delle chiese e la loro distruzione. b) il divieto di riunirsi. c) la perdita delle cariche e dei privilegi dei funzionari statali cristiani e quindi il divieto di far carriera nello Stato. Pochi mesi dopo, con un altro editto, si ordinava l’arresto di tutto il clero. Con l’ultimo editto del 304 si prescriveva che tutti i cittadini dell’impero romano dovevano sacrificare agli dei. Nel 311 Galerio, divenuto Augusto, non si sa se perché pentito, perché sazio di persecuzioni o perché i cristiani non riusciva ad eliminarli del tutto, emise un editto di tolleranza in cui si riconosceva ai cristiani la libertà di culto e quella di riedificare le chiese distrutte.

Da quanto si è detto, si ricava che la proprietà privata esisteva per i cristiani sia a livello individuale sia a livello comunitario e che il patrimonio comune, grazie alle eredità lasciate da buoni e facoltosi cristiani era addirittura notevolmente aumentato. Che i cristiani avessero il diritto di possedere – diritto riconosciuto anche dalle rispettive comunità religiose – è dunque certo. Quanto alle modalità di possesso del patrimonio comune, esse c’erano sicuramente, ma è assai difficile determinare con precisione quali fossero, posto che la Chiesa non era ancora riconosciuta come istituzione. Come d’altronde già detto, probabilmente il patrimonio comune era gestito dai presbiteri che avevano “titolo” per operare anche economicamente.

 

8. L’editto di Milano

Dopo l’abdicazione nel 305 dei due augusti Diocleziano e Massimiano, vi furono continue lotte per il potere tra augusti e cesari, tanto che si arrivò ad avere quattro augusti contemporaneamente. Dopo la morte di Galerio nel 311, i due augusti Costantino e Licinio si coalizzarono contro Massenzio che fu sconfitto da Costantino nella battaglia di Ponte Milvio presso Roma il 28 ottobre del 312. Secondo Eusebio di Cesarea Costantino, in marcia verso Roma per combattere contro Massenzio, vide in cielo un incrocio di luci sopra il sole e la scritta in greco én toùto nìka, tradotto in Latino con “In hoc signo vinces”. Nella notte successiva gli sarebbe apparso Cristo che gli ordinò di adottare come proprio vessillo il segno che aveva visto in cielo. Costantino obbedì e fece precedere le proprie truppe da un labaro col monogramma di Cristo (secondo altri con lo staurogramma, cioè una croce con la barra verticale in forma di rho (P).

Morto il restante augusto Massimino Daia nel 313, rimasero solo due augusti, Costantino per l’occidente e Licinio per l’oriente. Fu questo l’anno in cui si ebbe il famoso Editto di Milano voluto sia da Costantino che da Licinio (28). Il patto era stato sottoscritto in occidente in quanto Costantino era senior Augustus. Gli accordi furono resi pubblici con un rescritto stilato a Nicomedia il cui preambolo suonava così:

Noi dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone  o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità, affinchè sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinchè la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”.

L’aver citato i Cristiani per primi e per nome rispetto a tutti gli altri culti, segnalava già una predilezione di Costantino per la religione cristiana (29), dovuta a diversi fattori, tra cui probabilmente l’influenza esercitata dalla madre Elena a cui l’imperatore era molto legato (30). Comunque sia, l’Editto di Milano rendeva pubblico e ufficiale il culto cristiano; ma pure occorre dire che luoghi di culto ( domus ecclesiae), chiese e cimiteri precedentemente espropriati dovevano, sine ulla pecunia et sine ulla pretii petitione ritornare ai singoli o alla comunità. E ancora veniva riconosciuto il diritto di lasciare qualunque cosa in testamento alla Chiesa, anche da parte di un non cristiano. Che la Chiesa fosse ormai riconosciuta come “persona giuridica” fu cosa importantissima, se si tiene presente che per i primi due secoli il problema della proprietà ecclesiastica non ebbe alcun rilievo giuridico e anche le confische in tempi di persecuzione erano effettuate a danno dei singoli (31). La benevolenza nei confronti del cristianesimo si riscontra anche nel lessico denotativo. Per esso si usano i termini cultus Dei o pia religio, mentre per il paganesimo si usa il termine superstitio. Ma vi fu anche una benevolenza sicuramente più concreta. A Roma infatti esistono a tutt’oggi le basiliche costantiniane, dette così perché volute da Costantino, tra cui anche San Pietro, ovviamente non nella forma attuale, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le mura e altre ancora. Ci si potrebbe chiedere di chi fosse la proprietà di queste chiese.  Orbene, quando le donazioni erano fatte da privati avveniva questo: innanzitutto vi era l’acquisizione dell’area urbana dove la chiesa e i suoi annessi sarebbero poi sorti, nonché lo stanziamento di una somma di denaro in vista della costruzione. Già nel III secolo i beni immobili che la Chiesa Romana mostra di possedere risultano tutti “aggregati” a singoli luoghi di culto definiti entro il quadro giuridico del titulus, che comportava una diretta responsabilità del vescovo nella gestione del singolo bene, ma al tempo stesso l’inalienabilità del patrimonio assegnato. I mezzi di cui erano dotate le chiese dovevano essere tratti da un patrimonio centrale della diocesi, alimentato da offerte dei fedeli, da testamenti e anche da beni confiscati e trasferiti alla Chiesa(32).

Per analogia così avvenne con le basiliche costantiniane. Sappiamo ad esempio che Costantino donò a papa Melchiade il terreno che aveva confiscato alla famiglia dei Plauzi Laterani e lì sorse San Giovanni in Laterano. Non solo Costantino donò le aree fabbricabili di questa e di altre basiliche, ma anche i necessari fondi per la loro costruzione. I fondi, tuttavia, potevano anche essere ripartiti tra le élites locali, come avvenne per la basilica costantiniana del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Gli immobili sacri vennero a far parte del patrimonio immobiliare della Chiesa e il Papa e i Vescovi pro tempore divennero amministratori perpetui dell’immobile sacro.

Era così veramente finito il periodo delle paure per la propria persona, delle confische e del nascondimento.

 

9. L’Editto di Tessalonica

Dopo l’Editto di Milano, grazie al quale il Cristianesimo divenne religio licita, i cristiani erano aumentati di numero, ma erano aumentate anche le eresie, la più diffusa delle quali era, già con Costantino, l’arianesimo. Presbitero in Alessandria d’Egitto, Ario (260 -336) sosteneva che il Figlio, in quanto “generato” e non eterno non può partecipare della sostanza del Padre, il quale invece è “ingenerato”. Ario non negava di per sé la Trinità, ma la considerava costituita da tre diverse persone caratterizzate da nature diverse. Tale dottrina  fu condannata dal Concilio ecumenico di Nicea (325), ma si ripresentò sotto l’impero di Costanzo II (350 -361), figlio di Costantino, e sotto Valente (364 – 378). Con l’avvento di Teodosio nella parte orientale dell’impero, le cose cambiarono. Cominciò allora una dura lotta contro l’arianesimo. Il 27 febbraio del 380  fu reso noto l’Editto di Tessalonica, firmato da Teodosio per la parte orientale e da Graziano e Valentiniano II per quella occidentale., grazie al quale il Cristianesimo divenne la sola religione accettata nell’Impero. Si affermò pure che coloro che non avessero aderito all’ortodossa dottrina trinitaria di Nicea sarebbero stati perseguiti come eretici.

Con Teodosio, a 67 anni dall’Edito di Milano, il Cristianesimo non solo fu considerato religio licita assieme agli altri culti praticati nell’Impero, ma divenne religione di Stato. Avendo i tre imperatori abdicato al ruolo di suprema autorità religiosa (Graziano fu il primo a rinunciare al titolo di Pontifex Maximus) che invece tutti i loro predecessori avevano rivestito, consentirono la nascita della gerarchia religiosa costituita dalla Chiesa cattolica e rappresentata dal Papa di Roma. Proprio per questo alcuni hanno ritenuto che il Medioevo abbia avuto inizio il 27 febbraio del 380 e non con l’ininfluente deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore dell’occidente, nel 476. Certo è che da allora cominciò una storia del tutto diversa.

 

Note:

  1. Spunti per questa definizione li ho trovati in Eberhard Welty, Catechismo sociale, Edizioni Paoline, Francavilla a Mare 1967, vol. 3, p. 19. Aggiungo pure che secondo l’art. 832 del Codice Civile, il diritto di proprietà è “il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi dell’ordinamento giuridico”.
  2. Catechismo della Chiesa Cattolica, N° 2402.
  3. Ibidem, N° 2403.
  4. Le definizioni che seguono sono state elaborate a partire dalle considerazioni di E. Welty, cit., pp.113-114, anche se la distinzione fra proprietà sociale e comune e la loro definizione sono mie.
  5. Cfr. Joseph Engel, Das Unternehmen zwischen sittlicher Verantwortung und wirtschaftlicher Notwendigkeit, Herder, Friburgo, 1956, pp. 13 ss. , riportato da E.Welty, cit., p. 114.
  6. Noto soltanto che il comandamento dell’amore cristiano, “ama il prossimo tuo come te stesso”, è presente solo nel Vangelo di Matteo e non in quelli di Marco e di Luca. Inoltre il “tale” del Vangelo di Matteo risulta alla fine essere un giovane, in Marco rimane semplicemente “un tale” e in Luca è “un notabile”.
  7. Occorre mettere nel conto  tuttavia non solo l’attaccamento a sia pur modesti beni posseduti, ma anche il desiderio di ricchezze che può pure albergare nell’animo del povero.
  8. Giudicare” è inteso qui in senso biblico, cioè “governare” e le dodici tribù designano il nuovo Israele, la Chiesa. Inoltre con il termine “nuova creazione” , reso nella Bibbia di Gerusalemme con “rigenerazione”, si deve intendere il rinnovamento messianico che sarà manifesto alla fine del mondo, ma che comincia già con la resurrezione del Cristo e il suo regno nella Chiesa (At,3,21ss.).
  9. A dire il vero il titolo di “episcopo” appare ancora praticamente sinonimo di quello di “presbitero” (Tt,1,5-7), come ai primi tempi (At,20,17.28), secondo la formula primitiva delle comunità dirette dai collegi di anziani.
  10. So che questa mia constatazione potrebbe parere irriguardosa o comunque fuori luogo, ma bisogna pur dire che la Chiesa di Gerusalemme, a furia di vendere proprietà e di ridistribuirne il ricavato, si era evidentemente ridotta in eccessiva povertà, così da non poter far fronte a molte necessità materiali.
  11. Rm 16,11 e Rm 16,5.
  12. Citati anche nella Prima Lettera ai Corinzi (1 Cor 16,19), la loro casa si trovava sull’Aventino in corrispondenza dell’attuale chiesa di Santa Prisca.
  13. Forse ad Efeso durante la sommossa degli orefici narrata in At 19,23 ss.
  14. Col 4,15.
  15. Fm 2.
  16. At 2,46.
  17. At 2,46 e At 12,12.
  18. L’agape ha il suo precedente nel corrispettivo ebraico del kiddush, un banchetto in uso presso gli ebrei la sera del venerdì, ossia al principio della festa del sabato. All’inizio c’era la benedizione del vino, a cui facevano seguito la benedizione del pane intrecciato del sabato e altri cibi. Nel cristianesimo agapeera il banchetto per i poveri e per le vedove che comprendeva anche la fractio panis. All’inizio c’era la consacrazione in tempi separati delle due specie. Poi vi fu la riunione dei due tempi e a un certo punto vi fu la vera e propria separazione tra la celebrazione dell’eucaristia e il banchetto vero e proprio.
  19. I catecumeni erano coloro che dovevano ricevere il battesimo la notte di Pasqua.
  20. I penitenti erano coloro che dovevano essere riconciliati con la chiesa in seguito ad un loro grave atto di allontanamento.
  21. Da cui il “titolo” di proprietà costituito ad esempio da un atto notarile o il termine “titolare”, vale a dire proprietario (di un esercizio commerciale, di un’azienda) ovvero chi occupa un ufficio avendone diritto. Il termine “titulus” è ancor oggi utilizzato a livello ecclesiastico. I “titoli” cardinalizi sono infatti Chiese della Diocesi di Roma il cui nome e le cui proprietà vengono legati ad un cardinale al momento della sua creazione.
  22. AA.VV. Lineamenti di storia dell’architettura, Roma 2007, p. 157.
  23. Assedio e distruzione costituirono la fase finale della campagna militare di Sapore I contro le armate romane del limes orientale.
  24. Sulla funzione del secondo piano nelle domus ecclesiae gli studiosi sono assai incerti. Alcuni, tenendo conto che ancor oggi in Oriente è una sala del secondo piano quella destinata alle feste importanti, pensano che i Misteri eucaristici proprio in una sala del secondo piano fossero celebrati.
  25. E. Coché de La Ferté, s.v. Catacombe, in Enciclopedia dell’Arte Antica.
  26. Fu proprio sotto Nerone che subirono il martirio i Santi Pietro e Paolo.
  27. W. H. C. Frend, Persecutions: genesis and legacy, in AA.VV. The Cambridge History of Christianity, vol. I, 2006.
  28. Lo si chiama Editto di Milano, anche se a Milano furono soltanto presi degli accordi. Fu invece steso e reso pubblico a Nicomedia, città della Bitinia in Asia Minore.
  29. E’ necessario tenere presente che nel III secolo la religione pagana non era più quella tradizionale che pure persisteva, ma influenzata da culti di origine orientale. Si era infatti diffuso un sincretismo tendente al monoteismo. Insomma gli dei tradizionali sempre più venivano considerati come espressione di un unico essere divino. Non è un caso che nel preambolo dell’Editto di Milano (poi rescritto di Nicomedia) si faccia riferimento ad una generica “divinità che sta in cielo, qualunque essa sia”. Questa tendenza era stata  ufficializzata dall’imperatore Aureliano nel 275 con l’istituzione del culto al Sol Invictuscon elementi di mitraismo e di altri culti di origine orientale. A tale culto non furono estranei né Costanzo Cloro, padre di Costantino, né Costantino stesso. Ciò è provato dal conio di monete costantiniane in cui compare la scritta SOLI INVICTO COMITI, ossia AL SOLE INVITTO COMPAGNO (di Costantino) e la corona di raggi solari (corona radiata) sul capo dell’Imperatore. Questo culto, tra l’altro, era assai diffuso tra i legionari romani.

Quanto alla conversione al cristianesimo, occorre dire che Costantino ricevette il battesimo  dal vescovo ariano Eusebio di Nicomedia, suo consigliere, solo in punto di morte. Si può pensare che tale battesimo abbia costituito la conclusione di un lungo processo di conversione che non fu estraneo a contaminazioni con ambienti dell’arianesimo, nella cui fede fu infatti battezzato.

  1. Flavia Giulia Elena, nata in Bitinia nel 248 circa, fu di umili origini, ma di lei si invaghì Costanzo Cloro, militare al servizio dell’imperatore Aureliano, di stanza in Asia Minore. Non si conosce bene la natura del loro legame (compagna o moglie?), ma si sa per certo che Costanzo nel 293 dovette lasciare Elena per volere di Diocleziano e sposare Teodora, figliastra dell’imperatore Massimiano, così da assumere poi la carica di ‘cesare’. Elena aveva dato alla luce Costantino nel 274 e, dopo la fine del rapporto con Costanzo, non cercò più nessuno a cui legarsi e visse lontano dalle corti imperiali, almeno fino a quando Costantino divenne  imperatore. Quanto abbia influito sul figlio per l’emanazione dell’Editto di Milano non è dato sapere. Sant’Eusebio affermò che Elena era stata convertita dal figlio, ma Sant’Ambrogio sostenne invece il contrario. Quest’ultima  è la versione maggiormente credibile, in quanto Costantino non rinunciò mai al titolo pagano di Pontifex Maximus, al Concilio di Nicea si dichiarò “Vescovo dei pagani” e fu battezzato nel 337, alla fine dei suoi giorni, dal vescovo ariano Eusebio di Nicomedia. Costantino diede ad Elena libero accesso al tesoro imperiale, ma dei privilegi ricevuti ella mai abusò. Numerose furono le donazioni per l’edificazione e la vita delle chiese. In modo esemplare visse la sua Fede esercitando le virtù cristiane e compiendo opere di carità. Vestiva abiti molto semplici e spesso invitava i poveri a pranzo nel suo palazzo, servendoli con le proprie mani. Proclamata Santa dalla Chiesa cattolica, è universalmente nota per avere ritrovato, in occasione di un pellegrinaggio in Palestina, la vera Croce di Cristo. Morì a Treviri nel 329.
  2. Cfr. A. Ascolese, La proprietà ecclesiastica dal III secolo D.C., Iura & Legal Systems 2015, pp. 30 – 32.
  3. Si veda F. Marazzi, Le proprietà immobiliari urbane della Chiesa romana tra il IV e VIII secolo: reddito, struttura, gestione in Publications de l’ École Française de Rome, Année 1995, p.155.

 


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