La bellezza nella moda e nei costumi. La Quarta Rivoluzione

Lezione tenuta il 17 marzo 2011

Avv. Carmelo Leotta

Corso «La via pulchritudinis»:
La bellezza nella moda e nei costumi. La Quarta Rivoluzione

 

Perché il vestito spesso rivela l’uomo
Shakespeare, Amleto

Sappi prima di tutto chi sei ed ornati di conseguenza
Epitteto (I sec.)

La moda non è solo bizzarria di forme,
ma punto di incontro di diversi fattori psicologici e morali,
quali il gusto del bello, la sete di novità,
l’affermazione della personalità,
l’insofferenza per la monotonia […]
La società, per così dire, parla col vestito che indossa;
col vestito rivela le segrete sue aspirazioni, e di esso si serve,
almeno in parte, per edificare o distruggere il proprio avvenire.
Pio XII (*)

 

  1. Le accezioni linguistiche del termine “moda” nella lingua italiana e nel Magistero morale della Chiesa Cattolica.

Al fine di delineare correttamente il rapporto che sussiste tra moda, bellezza, costume individuale e sociale, nella lotta tra il disordine della Rivoluzione e la tensione all’ordine che, alla luce del pensiero dello studioso brasiliano Plinio Correa de Oliveira (1908-1995) chiamiamo Controrivoluzione, è necessario intenderci sul significato di queste espressioni (1).

Si procederà quindi, innanzitutto, ad un’analisi del significato o dei significati del termine “moda”, dapprima nella lingua italiana, quindi nel Magistero della Chiesa Cattolica.

Il Grande Dizionario della Lingua italiana fondato dal filologo e linguista Salvatore Battaglia (1904-1971) nel 1961, continuato successivamente alla sua morte dal critico Giorgio Barberi Squarotti ed integrato nel 2004 da un supplemento a cura di Edoardo Sanguineti, fornisce, nell’edizione del 1978, la seguente definizione di “moda”: “Nell’ambito dei costumi, delle convenzioni, del gusto di una determinata società e, anche, di un determinato contesto geografico, tendenza generale o atteggiamento predominante, a cui i più si adeguano per naturale imitazione, per conformismo o, anche, per formazione culturale, e che caratterizza un preciso momento storico (con riferimento sia al modo di vivere, di comportarsi, di affrontare determinati problemi ed argomenti in particolari circostanze e per particolari esigenze, sia alle scelte che si operano per i consumi di ogni tipo e necessità). – Anche: innovazione accolta con estremo favore e capace di soppiantare abitudini preesistenti; fenomeno di costume, passeggero e di breve durata, per di più frivolo, che ha diffusione o acquista importanza eccessiva rispetto al valore e al significato reale” (2).

Questa prima accezione generica, è completata, al punto 2 dello stesso lemma, da una definizione prettamente legata al modo di vestire. La moda è, in tal senso, il “gusto o l’usanza predominate, ma più o meno passeggera, di particolari fogge di abbigliamento (o, anche, di acconciature o di ornamenti) il cui aspetto tipico è la variabilità onde presentare sempre caratteri di più o meno clamorosa novità che si accompagna in modo più o meno accentuato con sfoggio, esibizionismo, intemperanza […]” (3). All’interno dell’ambito dell’abbigliamento, con l’espressione “alta moda” si intende poi “l’insieme delle creazioni di abbigliamento (e degli accessori relativi) che le sartorie più famose e prestigiose presentano a determinate scadenze stagionali” (4).

Al successivo punto 3 si legge: “Corrente di pensiero, indirizzo o movimento filosofico, ideologico, artistico, letterario che predomina nel gusto di un determinato periodo e nell’opinione generale rappresenta il massimo punto di novità, di raffinatezza, di attualità, di audacia, per lo più indipendentemente dall’effettivo valore culturale (e spesso vi è annesso un giudizio negativo per la superficialità, per la fatuità, per il fine unicamente estetizzante che ne determinano la costituzione e il successo)” (5).

Sono, dunque, almeno due i significati principali del termine, a cui vanno a sommarsene di ulteriori, meno usuali, di ambito scientifico. Nella statistica la moda è, ad esempio, il valore di massima frequenza di una distribuzione (e, in particolare, in una distribuzione per classi, è rappresentato dal valore centrale di quella che comprende il più elevato numero di casi); nella petrografia indica l’effettiva composizione di una roccia, ricavata dall’analisi mineralogica.

Il Magistero morale della Chiesa Cattolica, cioè l’insegnamento della Chiesa in ambito della teologia morale, ha trattato in più occasioni il problema della moda, specialmente in connessione con il tema della sessualità, del pudore, del decoro dei costumi e del lusso. Rimandando al proseguo l’analisi pur sommaria del contenuto di tali insegnamenti, è opportuno precisare che i testi magisteriali utilizzano il termine in esame nei due principali significati della lingua italiana:

  1. in senso lato, come sinonimo di pensiero o comportamento dominante, omologato. Come accade anche nel linguaggio comune, il termine “moda” come sinonimo di pensiero dominante è accompagnato da un giudizio negativo: ciò che è “di moda” viene accettato senza coscienza critica da parte del soggetto e si caratterizza per una superficialità di vedute da parte del singolo (6);
  2. in senso stretto, come regola del vestire comunemente accettata (7).

 

  1. I caratteri della moda. La differenza tra moda e costume. Il legame tra moda, arte, economia e morale.

Nel corso di questa relazione si tralasceranno le accezioni prettamente scientifiche del termine “moda”, a cui si è fatto cenno a proposito della statistica e della petrologia, come pure le accezioni di “moda” quale sinonimo di comune modo di pensare e, nel suo significato più ristretto, di alta moda, interessandoci piuttosto il fenomeno come gusto o usanza comune nel vestire.

L’Enciclopedia italiana di Scienze, Lettere ed Arti, fondata da Giovanni Treccani (1877-1961), ne offre un’ampia trattazione alla relativa voce.

L’edizione del 1934 (vol. XXIII), ristampata inalterata nel 1949, dando spazio prima ad alcune considerazioni di carattere sociale e di costume, per soffermarsi, poi, sull’evoluzione storica della stessa, distingue in particolare la moda propriamente detta, da intendersi come “usanza passeggera, soprattutto con riferimento alle acconciature e agli ornamenti, specie femminili” (8), dal costume, caratterizzato da un elemento di stabilità e di conservazione nel tempo. Essa, infatti, presentandosi piuttosto come continuo mutamento del costume, si manifesta soltanto nelle società complesse, che hanno conosciuto una diversificazione dei ruoli sociali e un sufficiente sviluppo economico. All’interno di queste società il fenomeno non pervade tuttavia le classi meno agiate, né quelle presso cui il modo di vestire è più vistosamente legato ad “[…] un particolare valore tradizionale e simbolico, come avviene per le uniformi militari, per le vesti ecclesiastiche e monastiche, per gli indumenti propri di particolari mestieri, arti, professioni, sette più o meno segrete, o distintivi di cariche sociali” (9).

Costante Scarpellini, (1920-2003), psicologo, alla voce “moda” dell’Enciclopedia Cattolica del 1952, esordisce proprio spiegando, la differenza tra la moda e il costume e scrive: “Dal latino modus (forma, maniera, misura), differisce dall’usanza, consuetudine, costume, perché cambia quasi giornalmente, costituisce il modello cui correr dietro, in guisa che le cose di m.[oda] si fanno perché altri le fa” (10).

Non diversamente sul punto, anche il più recente contributo di Umberto Galimberti (1942) filosofo e psicanalista, autore, insieme a Sofia Gnoli, della voce “moda” della VII Appendice (2007), dell’Enciclopedia italiana, spiega che l’esigenza di metamorfosi del vestito sorge nel momento stesso in cui “[…] il valore protettivo delle vesti cede il posto a quello simbolico distintivo” (11).

Primo carattere fondamentale della moda è quindi la rapidità con cui muta nel tempo, con la precisazione che l’habitat umano in cui il fenomeno propriamente trova spazio è quelle delle “[…] classi sociali più elevate e più libere, dalla vita più brillante e più instabile” (12).

Galimberti scrive, a proposito, che la moda di per sé comporta la frantumazione del tempo: “Rifiutando dogmaticamente la m.[oda] che l’ha preceduta, la nuova m.[oda] rifiuta categoricamente il proprio passato; chiama senza scrupoli angolosità e fratture quelle che ieri erano linee ben disegnate; non eredita, ma sovverte l’ordine appena affermato, e, facendosi gioco del tempo, afferma il diritto assoluto del presente, dell’eterno presente, che è prerogativa degli dèi. Nutrendosi di infedeltà a sé stessa e al proprio passato, la m.[oda], per sfuggire alla carica colpevolizzante di questo sentimento, aggredisce il tempo con il ritmo delle vendette, affondando ogni anno l’intero presente nel nulla del passato” (13).

Secondo elemento fondamentale della moda è il carattere di diffusione come modo di vestire comune, spesso scisso da un giudizio di valore estetico o di altro tipo (morale, ad esempio) da parte del fruitore di un certo abito o accessorio. Il vestire alla moda manifesta, infatti, molte volte, il modo con cui si appaga il proprio desiderio di appartenenza ad un certo gruppo umano, prima ancora che una scelta estetica personale del soggetto.

Infine terzo elemento di cui occorre tener conto è quello del legame della moda con l’arte, l’economia e la morale. Il rapporto tra moda ed arte si manifesta soprattutto nella ricerca dell’eleganza; tra moda ed economia nella ricerca del lusso, considerato elemento di prim’ordine nello sviluppo della moda; infine il rapporto tra moda e morale si atteggia in termini per lo più dialettici, condannando in più occasioni la morale la propensione della moda sia allo sperpero sia all’influsso negativo sui costumi pubblici e privati (14).

 

  1. La moda come significato. I saggi di Roland Barthes

Al fine di comprendere la funzione comunicativa e performativa del vestito e della moda, può essere utile un cenno al pensiero del semiologo francese Roland Barthes (1915-1980) nel saggio Historie et sociologie du vêtement del 1957 (15), critica parzialmente l’impostazione più tradizionale secondo cui il vestito avrebbe le tre funzioni del pudore, della protezione e dell’ornamento, spostando l’attenzione, che deve propriamente caratterizzare un approccio scientifico al tema, allo studio di quella che è una “tendenza di qualsiasi “copertura” corporale a inserirsi in un sistema formale organizzato, normativo, consacrato dalla società” (16). L’indumento quindi, a cui prima si ricorre per un’esigenza di protezione (il soldato romano che si butta sulle spalle una coperta di lana), diventa costume solo nella misura in cui si integra in un sistema sociale definito, senza che questo passaggio riveli già una connotazione estetica. Il costume è essenzialmente sistema di ordine assiologico.

Barthes distingue l’abbigliamento dal costume. Il primo è il vestito del singolo che non porta con sé un significato sociologico; costume invece ha un significato propriamente sociologico, indica un rapporto tra il singolo e il suo gruppo. La storia del costume ha un valore epistemologico generale e propone allo studioso i problemi essenziali di ogni analisi culturale.

 

  1. Le funzioni tradizionali dell’abito. L’abito come strumento rivoluzionario nella cultura del Novecento.

L’importanza dell’abbigliamento per l’uomo sia considerato individualmente che nei suoi rapporti sociali, è tanto rilevante che, con toni forse un po’ enfatici, alla voce “Abbigliamento” dell’Enciclopedia italiana del 1929 si legge: “La storia dell’abbigliamento coincide con la storia della civiltà” (17).

Le funzioni attribuite all’abbigliamento sono molteplici e di importanza pari a quelle dell’alimentazione e sono sintetizzabili in termini che seguono:

  1. difesa della intemperie;
  2. difesa del proprio pudore (Gn 3, 7; 21);
  3. istinto estetico proprio dell’uomo;
  4. segno ornamentale e di identificazione in un ruolo sociale.

Anche il Magistero della Chiesa indica determinate funzioni dell’abito di cui si dirà oltre.

In questa sede, è di particolare interesse soffermarsi, seppur per cenni, su alcune considerazioni proposte da Arturo Carlo Quintavalle (1936), dell’Università di Parma, curatore della voce “moda” per la V Appendice della stessa Enciclopedia italiana.

Se, infatti, per sua natura, la moda rappresenta sempre un momento di volontaria rottura con il passato (e talvolta con un passato talmente “recente” che difficilmente si distingue dall’oggi), Quintavalle spiega, come all’abito fin dall’inizio del secolo XX, sia attribuita una finalità prettamente rivoluzionaria e di rottura rispetto ad un assetto socio-culturale esistente.

Tale ruolo è stato consapevolmente concepito dalle avanguardie artistiche di inizio secolo, e, più precisamente, dalle avanguardie sovietiche che trovano i loro principali riferimenti nella pittrice Natal’ja Sergeevna Gončarova (1881-1962), nell’architetto, pittore e scultore Vladimir Evgrafovič Tatlin (1885-1953), nel regista teatrale Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d (1874-1940, ucciso dal regime staliniano perché accusato di trotskismo), e infine nel più noto poeta (morto suicida) Vladimir Vladimirovič Majakovskij (1893-1930). Scrive Quintavalle: “Alla fine degli anni Dieci e soprattutto nel corso degli anni Venti, le avanguardie sovietiche e il movimento costruttivista ripensano la funzione sociale dell’abito e suggeriscono modelli non rituali, anzi profondamente eversivi. Le fonti di questa rivoluzione sono da individuare nella cultura cubista, nel recupero delle arti primitive e delle tradizioni popolari, nel movimento futurista vivacemente discusso proprio a Mosca anche grazie alla presenza di F.[ilippo] T.[ommaso] Marinetti. Tutte queste matrici vengono comunque integrate e trasformate nell’ottica rivoluzionaria del confronto fra le classi, in cui il rifiuto dell’abito borghese e della m.[oda] tradizionale vengono identificati con nuovi comportamenti, con nuove funzioni ed esperienze. La critica che muove da questi modelli ovviamente respinge la “cultura del costume” e, dunque, la m.[oda] intesa in senso storico, accettando soltanto la creazione di abiti eversivi, simbolicamente rivoluzionari. Un’ulteriore ripresa di questi modelli, che vedevano l’assunzione della tuta operaia come segno di trasformazione, si è avuto nella Cina maoista in cui il modello di abito identico per tutti […] doveva assumere valore eversivo” (18).

La cultura d’avanguardia europea presenta quindi, a dire di Quintavalle, due elementi propri della moda contemporanea. In primis, a partire dai movimenti artistici a cui si è fatto cenno, contrappone la cultura e la storia del costume, che dice relazione al passato e alla tradizione, con la storia e la cultura della moda, che dice relazione al presente e al futuro; in secondo luogo, “[…] il versante più ideologizzato delle avanguardie sta alla base della riflessione sulla m.[oda] in termini di conflitto sociale: è infatti dal secondo e terzo decennio del Novecento che a una m.[oda] elitaria e “alta”, a una m.[oda] dai caratteri fortemente simbolici in senso borghese, finirà per contrapporsi l’idea di un modo di vestire del tutto diverso, un modo che di per sè significhi trasformazione, cambiamento, rapporti sociali differenti” (19).

Se la funzione rivoluzionaria della moda e dell’abito all’interno dei movimenti avanguardisti di inizio del XX secolo rappresentò soltanto una tensione elitaria di intellettuali lontani dalla vita quotidiana, nei decenni successivi si è assistito a fenomeni di vastissimo respiro che hanno realizzato ampiamente tale propensione.

La moda si è fatta allora, principalmente, strumento della Rivoluzione sessuale, alterando profondamente, come si dirà, il rapporto di amore-virtù tra uomo e donna. Oltre a quanto avvenne nei regimi totalitari – Quintavalle menziona espressamente il caso del maoismo cinese e delle tute blu operaie – ci interessa, infatti, fare qui alcune considerazioni sul ruolo rivoluzionario che attraverso l’abbigliamento e la moda si è inteso perseguire nel corso di quella rivoluzione culturale e politica che comunemente chiamiamo Sessantotto.

 

  1. I caratteri della c.d. IV Rivoluzione all’interno del processo rivoluzionario: un’apparente digressione per comprenderne il legame con la moda contemporanea. La moda come luogo privilegiato della rivoluzione “in interiore homine” e della rivoluzione nelle tendenze.

Al fine di mettere in evidenza, seppur per sommi capi, alcuni caratteri fondamentali della moda e dell’abbigliamento contemporanei, eredi della c.d. rivoluzione dei costumi che ha investito la società a partire dagli anni Sessanta, si rende necessario chiarire, in via preliminare, che cosa abbia caratterizzato essenzialmente la c.d. IV Rivoluzione, ove la moda ha assunto un ruolo fondamentale.

All’interno del processo unitario che ha coinvolto interamente l’uomo occidentale e cristiano e che, alla scuola di Plinio Corrêa de Oliveira (20), chiamiamo “Rivoluzione”, dopo la Rivoluzione Protestante, la Rivoluzione detta francese e la Rivoluzione comunista, che hanno avuto come effetto rispettivamente la fine dell’unità della Cristianità, la separazione radicale tra politica e morale e la riduzione del diritto alla legge, la nascita di un sistema economico che, muovendo dal materialismo dialettico e storico, ha espunto la proprietà privata e ha realizzato il socialismo reale, la c.d. IV rivoluzione, che ha avuto la sua manifestazione con il Sessantotto americano ed europeo, presenta sostanzialmente due anime, ben descritte dallo studioso Enzo Peserico (1959-2008) nel testo, pubblicato postumo nel maggio 2008, Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto terrorismo e Rivoluzione.

A tal proposito è prezioso, in via preliminare, un richiamo all’insegnamento con cui Plinio Correa de Oliveira apre la sua opera Rivoluzione e Controrivoluzione. Afferma infatti il professore brasiliano che le “[…] molte crisi che scuotono il mondo odierno – dello Stato, della famiglia, dell’economia, della cultura, ecc. – costituiscono soltanto molteplici aspetti di un’unica crisi fondamentale, che ha come specifico campo d’azione l’uomo stesso” (21). La crisi dell’uomo occidentale e cristiano si estende anche al resto del mondo e, in particolare, si presenta come fenomeno universale (che riguarda tutti i paesi), uno (non è una somma di crisi, ma una crisi dai molteplici aspetti), totale (si estende in tutte le potenze dell’animo umano, a tutte le manifestazioni della cultura, a tutti i campi di azione umana in genere), dominante (tutte le nazioni sono spinte verso una meta che si pone agli antipodi rispetto alla civiltà cristiana). Questa crisi è un processo, cioè non una successione fortuita di fatti sociali, economici, politici, ma rappresenta, piuttosto, un “[…] lungo sistema di cause ed effetti che, nati in un dato momento e con grande intensità nelle zone più profonde dell’anima e della cultura dell’uomo occidentale, vanno producendo, dal secolo XV ai nostri giorni, successive convulsioni” (22).

Il termine Rivoluzione, che di per se stesso, indica un “movimento che mira alla distruzione di un potere o di un ordine legittimo e all’instaurazione al suo posto di uno stato di cose […] o di un potere illegittimo” (23), non è da intendersi in un significato esclusivamente (e neppure principalmente) politico. L’ordine di cose che la Rivoluzione intende distruggere è infatti, un ordine soprannaturale, cioè l’ordine tra il Creatore e la creatura che trova un suo riferimento tangibile nella legge naturale, conoscibile dall’uomo mediante la ragione, illuminata dalla grazia, ed iscritta da Dio nel cuore di ciascuno, ordine che si è realizzato storicamente nella civiltà cristiana medioevale.

Ciò premesso e tornando ora alle due anime del Sessantotto, che resta comunque fenomeno unitario, meglio si comprende in cosa consista la prima, che prende il nome di rivoluzione “in interiore homine” (24) e trova il proprio leitmotiv nello slogan: “il personale è politico”, specificazione dell’asserto di Antonio Gramsci (1891-1937), secondo cui “tutto é politica”. Per chi vive il Sessantotto prevalentemente in questa accezione, oggetto della rivoluzione non è prevalentemente questo o quell’aspetto della società o dello Stato, ma l’uomo stesso, anzi, ancor più in concreto, se stesso: la vita medesima, in tal senso, diventa rivoluzione, in un’accezione innanzitutto microsociale. Spiega Peserico: “Nel rifiuto [della società democratica occidentale] converge tutta la rabbia di chi vede svanire la felicità promessa dall’ottimismo scientista e materialista proprio della cultura liberal-illuminista. Tuttavia, se il desiderio del cambiamento che anima la nuova generazione non viene travolto insieme all’esito fallimentare di questa cultura, tale rifiuto del cosiddetto sistema non significa neppure ritorno ai valori spirituali da essa calpestati. Al contrario, è vagheggiata una grande utopia per la quale lottare, che promette la conquista della liberazione personale e sociale, la costruzione di un ennesimo uomo nuovo ne regno secolarizzato della felicità desiderata” (25). E ancora: il rivoluzionario d’elezione “[…] opera la Rivoluzione rovesciando lo stile di vita dell’uomo naturale e cristiano” (26).

La rivoluzione sessuale è parte integrante della rivoluzione “in interiore homine“.

La seconda anima del Sessantotto è quella politica in senso stretto e si manifesta “[…] nella rivoluzione politica, che mostra il volto della Rivoluzione a livello macrosociale; il tipo antropologico che la incarna è il rivoluzionario di professione: la mia vita per la Rivoluzione; egli realizza il suo progetto attraverso due linee: a) la lotta politica (anche) violenta; b) la lotta politica armata, cioè il terrorismo” (27).

Fatte queste necessarie premesse, diventa più facile intendere perché la moda diventi uno strumento privilegiato della prima anima della rivoluzione, che agisce “in interiore homine“, andando ad operare soprattutto sulle tendenze dell’uomo.

Sul punto rimane ancora attualissimo e insuperato l’insegnamento di Plinio Correa, quando scrive, nel capitolo V della sua opera che il processo rivoluzionario opera su tre piani distinti: nelle tendenze, nelle idee, nei fatti. Scrive l’Autore: “La prima [tappa della Rivoluzione], cioè la più profonda, consiste in una crisi delle tendenze. Queste tendenze disordinate, che per loro propria natura lottano per realizzarsi, non conformandosi più a tutto un ordine di cose che è a esse contrario, cominciano a modificare le mentalità, i modi di essere, le espressioni artistiche e i costumi, senza incidere subito in modo diretto – almeno abitualmente – sulle idee” (28).

Dalla profondità che opera sul piano delle tendenze, “[…] la crisi passa al terreno ideologico. Infatti — come ha posto in evidenza Paul Bourget nella sua celebre opera Ledémondu midi — “bisogna vivere come si pensa, se no, prima o poi, si finisce col pensare come si è vissuto”. Così, ispirate dalla sregolatezza delle tendenze profonde, spuntano dottrine nuove. Esse cercano talora, all’inizio, un modus vivendi con quelle antiche e si esprimono in modo da mantenere con queste una parvenza di armonia, che normalmente non tarda a sfociare in lotta dichiarata” (29).

L’ultima tappa – si badi che non si tratta sempre di tappe cronologiche, ma piuttosto di tappe “logiche”, che sul piano temporale si possono compenetrare reciprocamente (30) – è rappresentata dalla rivoluzione nei fatti “[…]da cui passa a operare, con mezzi cruenti o incruenti, la trasformazione delle istituzioni, delle leggi e dei costumi, tanto nella sfera religiosa quanto nella società temporale. È una terza crisi, ormai completamente nell’ordine dei fatti” (31).

 

  1. Perché affermiamo che la moda è luogo privilegiato della Rivoluzione “in interiore homine“?

Nel corso di questa relazione, dopo aver indicato le diverse accezioni del termine moda ed aver ristretto la nostra attenzione alla moda come fatto di costume, che si estrinseca nell’atto del vestire il proprio corpo secondo canoni comuni e soggetti a continua e rapida revisione, si è detto che, nonostante la funzione rivoluzionaria dell’abito trovi i propri prodromi nei movimenti artisti d’avanguardia di inizio dello scorso secolo, è soprattutto con il Sessantotto che si manifesta la funzione di rottura con la tradizione.

Tale affermazione ha reso necessaria una, seppur breve ed incompleta, spiegazione di cosa intendiamo con il termine Rivoluzione, quale sia il fine della stessa (l’uomo) e quali siano le sue tre profondità. Parimenti si è fatto un cenno alle due anime del Sessantotto e si è detto che la moda opera soprattutto come rivoluzione “in interiore homine” e principalmente come rivoluzione nelle tendenze.

A questo punto si rende necessario verificare quali siano i caratteri propri della moda successiva alla rivoluzione culturale e sociale degli anni Sessanta e Settanta.

Ancora una volta consapevoli della provvisorietà di quanto si dirà, è tuttavia possibile individuare tre ambiti fondamentali in cui la moda degli ultimi trenta, quarant’anni, manifesta in pieno la sua portata rivoluzionaria:

  1. la moda come strumento della rivoluzione sessuale;
  2. la moda come tendenza alla proletarizzazione e la perdita del senso del bello e del “meglio”;
  3. la moda come manifestazione della perdita della consapevolezza del proprio ruolo all’interno della società;
  4. la moda come luogo in cui si annullano le differenze di genere maschio-femmina.

6.a La moda come strumento della rivoluzione sessuale.

Scriveva Massimo Introvigne (1955) nel testo Pornografia e rivoluzione sessuale del 1983, che la “[…] rivoluzione sessuale, di cui la pornografia è il momento vessillare, rappresenta il fenomeno più massiccio della quarta rivoluzione. […]. La rivoluzione sessuale verifica così perfettamente l’imperativo di Mao Tze-Tung: “Ogni uomo è un obiettivo della guerra rivoluzionaria“” (32).

La meccanica descritta da Plinio Correa de Oliveira (di cui si è detto poco sopra) a proposito delle tre tappe della rivoluzione, nei fatti, nelle idee, nelle tendenze, si presta a descrivere pienamente il fenomeno.

Per comprendere la ragione di fondo per cui è filosoficamente e moralmente (e, quindi, anche storicamente) corretto parlare di rivoluzione sessuale dobbiamo considerare che, a differenza di quanto avviene negli animali, l’uomo, nel compimento dell’atto sessuale, non è privo di autodeterminazione e non agisce per mero istinto. “La tendenza sessuale – scrive Karol Wojtyla in Amore e responsabilità – trascende il determinismo dell’ordine biologico. Per questa ragione le sue manifestazioni nell’uomo devono venir giudicate” (33) e “gli atti che ne derivano costituiscono l’oggetto di una sua responsabilità” (34). Continua Introvigne: “Le manifestazioni della tendenza sessuale si inseriscono nel dinamismo della libertà umana e sono suscettibili di essere sottoposte a un giudizio morale: quando tali manifestazioni derivano da un cattivo uso della libertà dell’uomo, e possono essere giudicate cattive, la rivoluzione nelle tendenze si manifesta come orientamento sovversivo della tendenza sessuale, come Rivoluzione sessuale” (35).

La persona umana, in quanto essere dotato di ragione, è capace di orientare di conoscere la verità morale e, conseguentemente di vivere in modo ordinato la tendenza sessuale, che si trasforma in amore-virtù, attraverso l’esercizio della volontà. Dunque “[…] l’amore, nella piena accezione del termine, è una virtù che si forma nella volontà sulla base di un giudizio della ragione. Le manifestazioni affettive e sensuali non sono né annullate né trascurate, ma regolate ed ordinate: l’amore affettivo e l’amore di concupiscenza trovano la loro retta collocazione all’interno di un quadro gerarchico al cui vertice sta l’amore-virtù, cioè la ragione e la volontà. Questo quadro gerarchico è protetto dal pudore, la cui essenza metafisica consiste in una funzione di difesa della verità e dell’integralità dell’amore contro rischi di prevaricazione del sentimento e del sesso, che tendono costantemente a rivendicare un primato che non hanno, travolgendo soggettivamente l’oggettività dell’amore-virtù”(36).

La rivoluzione sessuale, andando principalmente a colpire il senso del pudore, erode la visione ordinata dell’amore-virtù: attraverso la negazione del pudore, “[…] l’impegno della volontà viene innanzitutto disarticolato dalle sue premesse razionali, e ordinato ad una semplice verità soggettiva dell’amore, che non è più la verità oggettiva dell’amore-virtù. Successivamente, la mancanza del controllo della ragione e l’indebolimento della funzione di vigilanza svolta dal pudore fanno sì che il primo posto nella relazione uomo-donna venga preso prima dal sentimento e poi, apertamente, dal sesso, in quel pansensualismo contemporaneo che rappresenta il punto più alto della sovversione della tendenza sessuale” (37).

Se in un’accezione generica si può parlare di rivoluzione sessuale per indicare ogni forma di sovvertimento gerarchico a danno dell’amore-virtù, e quindi anche con riferimento all’ipertrofia del sentimento e della volontà, in senso stretto con questa espressione si intende, nel linguaggio comune, l’ipertrofia della sensualità: “Il pieno sviluppo della rivoluzione sessuale, intesa in questo più restrittivo significato, avviene in un momento particolare del processo rivoluzionario, in cui la rivoluzione delle tendenze acquista – non solo in occulto, ma anche nelle manifestazioni sociali – un ruolo primario e privilegiato nell’economia generale della Rivoluzione” (38).

Se la Rivoluzione sensuale nell’uomo e la Rivoluzione sessuale in senso stretto – spiega Introvigne – “nei rapporti uomo-donna esistono come possibilità dal peccato originale e dalla nascita della concupiscenza della carne, e vengono a dominare in ogni uomo, in ogni tempo, nei momenti di cedimento e di peccato” (39), e dunque non sorgono certamente con la IV Rivoluzione, è parimenti vero che quest’ultima rappresenta “[…] il rito di iniziazione che segna il passaggio alla maggiore età: il sensismo pansessuale diventa una rivoluzione diffusa come l’aria che respiriamo, e la Rivoluzione sessuale non è più soltanto un processo, ma anche un’epoca” (40).

Alla luce di quanto fin qui si è detto, si coglie la malizia profonda insita nella moda contemporanea, che in moltissime sue manifestazioni, è un palese strumento di disordine delle tendenze e provoca profondamente la sensualità – che insieme all’orgoglio costituisce il motore del processo rivoluzionario (41).

Hanno rappresentato e tuttora rappresentano elementi concreti di questa Rivoluzione l’introduzione della minigonna, del bikini, dell’abito aderente che segna vistosamente le parti del corpo femminile che più esplicitamente provocano la sensualità maschile. Nei tempi più recenti, l’uso femminile di ostentare l’addome e, anche nella moda giovanile maschile, gli indumenti intimi.

Tali abitudini infatti, che oggigiorno spesso non sono più percepiti nella loro gravità, sono finalizzati ad irretire il senso del pudore e, dunque, infine, ad inquinare in modo profondo ed indelebile, la vocazione dell’uomo e della donna a vivere l’amore-virtù.

In tal senso la moda solo apparentemente si fa strumento di bellezza; se, infatti, la bellezza non è mai scissa dal bene e dal vero, l’ostentazione sensuale del proprio corpo diviene strumento di disordine e rende più difficile l’amore, naturalmente diretto al possesso perpetuo del vero e del bene (42).

6.b La moda come tendenza alla proletarizzazione e la perdita del senso del bello e del “meglio”.

Scrive lo storico Eric Hobsbawn (1917), nella sua opera più celebre sulla storia del Novecento Il Secolo breve (edito nel 1994) che nel fenomeno della rivoluzione culturale degli anni Cinquanta e Sessanta, un aspetto di assoluta novità “[…] fu che i giovani del ceto medio e alto, almeno nel mondo anglosassone, che sempre più determinava il tono generale della moda e della cultura di massa, cominciarono ad accogliere come loro modello ciò che era, o ciò che essi consideravano che fosse, la musica, i vestiti, perfino il linguaggio delle classi inferiori dei ceti urbani. […]. Il mercato della moda per i giovani di basso livello sociale stabilì la propria indipendenza e diede il tono anche al mercato riservato ai giovani delle classi alte” (43).

In ciò si è manifestato sia un’istanza egualitaria che, attraverso l’abito uguale per tutti, almeno nel contesto giovanile, ha tentato un’eliminazione delle differenze sociali; sia una vistosa perdita del senso del bello, dell’armonioso, dell’elegante. Ciò peraltro non ha comportato non venire meno del “costo” della moda, considerato che le principali firme italiane ed internazionali ottengono alti guadagni anche e forse principalmente dai capi sportwear.

Dagli anni Sessanta ad oggi il fenomeno della proletarizzazione del costume – con le conseguenze di cui si è detto – ha rappresentato una costante; nelle più recenti manifestazioni, a partire dagli Anni Novanta, pare potersi riscontrare in modo manifesto tale tendenza nel grunge, movimento culturale che ha coinvolto essenzialmente musica e moda, iniziato nell’ultima decade dello scorso secolo.

Sofia Gnoli, curatrice insieme ad Umberto Galimberti della voce “moda” per la VII Appendice dell’Enciclopedia italiana – alla quale tuttavia non si intende attribuire la paternità della lettura che qui si propone – racconta che il “termine grunge [che letteralmente significa sporco] si era diffuso intorno alla fine degli anni Ottanta, quando a Seattle, nel Nord-Ovest degli Stati Uniti, si erano affermati complessi musicali come i Nirvana, i Pearl Jam, i Mudhoney, i Soundgarden, la cui musica è una sorta di sintesi tra heavy metal, punk e rock and roll” (44).

Ereditando dal genere musicale la caratteristica di fondere tra loro elementi stilistici inconciliabili, il look grunge si propone al pubblico dei consumatori nell’”[…] accostamento di vestitini dall’aspetto rétro a calzature pesanti e massicce come gli anfibi Dr. Martens, nelle T-shirt sfilacciate, nei jeans sgualciti e scoloriti, indossati sotto maglioni patchwork o camicie di flanella da boscaiolo americano. Inizialmente si è trattato di un look ‘povero’ – contraddistinto da capi indossati in maniera scoordinata – espressione di un’antimoda, come a suo tempo nel periodo degli hippies. In seguito è divenuto terreno di ispirazione per gli stilisti che lo hanno commercializzato decretando la fine dell’autenticità dello street style, da quel momento copiato e interpretato dall’industria della moda” (45).

Nel 1992 il grunge, inteso come moda, è stato menzionato sulle pagine della rivista Women’s wear daily e da allora si è diffuso in tutti gli Stati Uniti e in Europa.

A livello di alta moda interpretano tale stile capi di Calvin Klein, Roberto Cavalli, Dolce & Gabbana, Versace e altri (46).

6.c e 6.d La moda come manifestazione della perdita della consapevolezza del proprio ruolo all’interno della società e il c.d. “un vestito per tutte le occasioni”. La moda come luogo in cui si annullano le differenze di genere maschio-femmina.

Una fonte di utile consultazione sul tema del rapporto tra moda e rifiuto del c.d segno vestimentario differenziato, è offerto dalla già menzionata voce “moda” contenuta nell’Enciclopedia italiana, VII Appendice (2007), a cura di Umberto Galimberti, nella parte in cui tratta espressamente del c.d. “un vestito per tutte le occasioni”.

Galimberti, dopo aver accennato ai valori biologici ed etnici della moda, sostiene il legame che sempre si rinviene all’interno dei gruppi umani tra guerra, conquista di una posizione gerarchica, amore e moda, a cui si somma l’ulteriore valore etnico dell’abito che sancisce l’appartenenza a un gruppo.

Se tuttavia la valenza biologica-etnica del c.d. segno vestimentario sembra essere fortemente ridimensionate nell’attuale tempo storico, diversamente accade per la valenza sociale dello stesso “che fa dell’indumento l’espressione di una funzione oppure l’asserzione di un valore che rinviano al mondo istituzionalizzato in cui l’individuo è inserito” (47).

A proposito dell’identificazione tra vestito e ruolo sociale – tale per cui “[…] l’autorità veste ‘pesante’, valorizzando nel suo indumento, che ‘cade’ senza varianti in tutte le direzioni, l’imparzialità del suo operare; il militare veste ‘rigido’ significando nell’armatura, nell’inamidatura e nella perfetta simmetria, che non concede spazio all’inserimento di varianti, l’ordine rigoroso della sua disciplina” (48) – si pone, per contrasto, la tendenza tipica del mondo giovanile di vestire “[…] ‘tutto’ in una sola volta per esprimere la sua libertà da ogni ordine istituzionalizzato” (49).

A dire dell’Autore, tale fenomeno richiama, nella psicologia giovanile “[…] un’universalità di significati che al giovane si offrono come ancora possibili. L’adozione dell’unico indumento, che ordinariamente si conosce soltanto nelle società più diseredate dove, per la grande povertà, non si dispone che di un unico vestito, quando è indossato dal giovane passa da indizio della miseria assoluta a segno dell’assoluto dominio di tutti gli usi” (50).

La tendenza all’adozione dell’unico indumento trova la sua più radicale manifestazione nell’affievolimento delle barriere tra abbigliamento (e relativi accessori) maschili e femminili. Se infatti nella moda degli adulti, l’”[…] abbigliamento femminile può assorbire quasi tutto quello maschile, mentre quello maschile respinge certi tratti di quello femminile, perché sulla femminilizzazione dell’uomo c’è ancora un divieto sociale” (51), tale tabù viene meno per il giovane, “[…] che, a livello di abbigliamento, tende all’androgino. Questo perché il giovane può cancellare il sesso a vantaggio dell’età” (52).

Il quadro offerto da Galimberti – che pur si limita ad affermare come il rifiuto dell’abito “differenziato” a seconda delle occasioni rappresenterebbe per il giovane “[…] un’universalità di significati che [al giovane] si offrono come ancora possibili” (53) – se letto alla luce della crisi identitaria di cui soffre l’uomo contemporaneo, si presenta come fenomeno ben più grave e profondo, segno della difficoltà e del disagio che soprattutto le giovani generazioni manifestano nel vivere, anche nel c.d. segno vestimentario, il proprio status esistenziale, a livello personale e sociale.

La gravità è poi ancora maggiore là dove la moda tende ad affievolire la differenza tra abito (ed accessorio) maschile e femminile, inserendosi vistosamente in un quadro culturale ben più complesso e radicale volto ad annullare la differenza sessuale tra i generi come elementi intrinseci della persona e della personalità, a favore della c.d. ideologia del gender, che concepisce la differenza maschio-femmina come fatto culturale e non naturale (54).

 

  1. Il Magistero della Chiesa in tema di moda.

Stante il carattere necessariamente provvisorio della presente relazione, in considerazione della complessità del tema, mi limiterò in questa sede ad utilizzare due fonti al fine di tratteggiare le linee principali del Magistero della Chiesa sulla moda.

Trattasi del Catechismo dello Chiesa Cattolica e dell’ampio Discorso di Pio XII, tenuto all’Unione Latina di Alta Moda l’8 novembre 1957.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica tratta espressamente del tema della moda in relazione alla tutela del pudore, nella parte relativa al IX Comandamento, Non desiderare la donna d’altri (nn. 2514-2533).

In particolare ai nn. 2520-2527 si affronta espressamente la “lotta per la purezza”.

Premette il Catechismo che, sebbene il Battesimo abbia già donato al fedele la purificazione da tutti i peccati, ciò non lo esime dalla lotta contro la concupiscenza della carne e i desideri disordinati. L’uomo in questa dura lotta non è lasciato solo da Dio e, anzi, può raggiungere la purezza del cuore a) mediante la castità, “perché la castità permette di amare con un cuore retto e indiviso” (55); b) mediante la purezza d’intenzione, grazie alla quale egli tiene sempre viva la consapevolezza del vero fine dell’uomo; c) mediante la purezza dello sguardo, esteriore ed interiore; d) mediante il controllo dei sentimenti e dell’immaginazione; e) mediante l’allontanamento dei pensieri impuri; f) mediante la preghiera (56).

Il Catechismo fornisce poi una bellissima e profondissima definizione di pudore. Chiarito che la “[…] purezza esige il pudore” (57), si precisa che la pratica del pudore è esercizio della virtù della temperanza: “Il pudore preserva l’intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione” (58).

Il pudore si manifesta nel controllo di sé, “[…]custodisce il mistero delle persone e del loro amore. Suggerisce la pazienza e la moderazione nella relazione amorosa; richiede che siano rispettate le condizioni del dono e dell’impegno definitivo dell’uomo e della donna tra loro. Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell’abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove trasparisse il rischio di una curiosità morbosa. Diventa discrezione” (59).

Esiste un pudore dei sentimenti, che è riserbo, ma anche del corpo. “Insorge, per esempio, contro l’esposizione del corpo umano in funzione di una curiosità morbosa in certe pubblicità, o contro la sollecitazione di certi mass-media a spingersi troppo in là nella rivelazione di confidenze intime. Il pudore detta un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e alle pressioni delle ideologie dominanti” (60).

Il fatto che il pudore si manifesti in modi diversi nelle diverse culture non è ragione per ritenere che esso sia una sovrastruttura culturale, dal momento che, al contrario, ovunque “[…] esso appare come il presentimento di una dignità spirituale propria dell’uomo. Nasce con il risveglio della coscienza del soggetto” (61); l’educazione al pudore nei giovani aiuta ad alimentare in loro il rispetto della persona umana.

La purezza, che esige il pudore, non è peraltro virtù esclusivamente individuale, ma “[…] richiede una purificazione dell’ambiente sociale. Esige dai mezzi di comunicazione sociale un’informazione attenta al rispetto e alla moderazione. La purezza del cuore libera dal diffuso erotismo e tiene lontani dagli spettacoli che favoriscono la curiosità morbosa e l’illusione” (62).

Alla base della costumi e della moda permissivi si trova quindi – come sempre avviene dinnanzi al male morale – “[…] una erronea concezione della libertà umana” (63), scissa dalla verità.

Passando ora ad esporre, per cenni, il ricchissimo discorso di Pio XII del 1957, sopra menzionato, che non si limita a trattare del tema del pudore, intendo soffermarmi sui seguenti punti:

  1. a) Le tre finalità fondamentali del vestito, tra loro intrinsecamente unite: quella dell’igiene, inteso, in senso lato come tutela del corpo, del pudore e del decoro, funzioni sovraordinate rispetto alle esigenze della moda.

Tralasciando il rapporto moda-igiene, ci interessa qui il rapporto moda-pudore e moda-decoro.

L’esigenza del pudore, spiega Pio XII, è naturale nell’uomo e si atteggia in una duplice direzione, nei confronti di sé e degli altri, tutelando sia la sensibilità del prossimo, la onestà morale propria ed altrui, come uno “[…] scudo alla disordinata sensualità” (64).

Il pudore non è un mero prodotto della cultura o della civiltà, ma “si fonda sulla innata e più o meno cosciente tendenza di ciascuno a difendere dalla indiscriminata cupidigia altrui un proprio bene fisico, affine di riservarlo, con prudente scelta di circostanze, ai sapienti scopi del Creatore, da Lui stesso posti sotto l’usbergo della castità e della pudicizia” (65).

La pudicizia, che ha per sinonimo la modestia (da modus, misura, limite), posta a governo delle passioni, è baluardo della castità e deve essere tutelata anche a scapito delle pretese pretenziose della moda, perché difende beni troppo preziosi per l’uomo da poter essere sacrificati.

Con riferimento al rapporto tra moda e decoro – rapporto che alla luce di quanto abbiamo detto nelle pagine precedenti, pare oggigiorno fortemente compromesso – è a dirsi che esso si pone, in un certo senso, all’origine stessa della moda e “[…] risponde alla esigenza innata, dalla donna maggiormente sentita, di dar risalto alla bellezza e dignità della persona […]. Per evitare di restringere l’ampiezza di questa terza esigenza alla sola bellezza fisica, e molto più per sottrarre il fenomeno della moda alla bramosia di seduzione quale prima ed unica sua causa, il termine decoro è preferibile a quello di abbellimento. L’inclinazione al decoro della propria persona procede manifestamente dalla natura, ed è pertanto legittima” (66).

Con grande sapienza, Pio XII loda la moda là dove essa si fa strumento del bello, adempiendo in pieno alla sua funzione di decoro: nell’abito il giovane cerca “quel risalto di splendore che canta il lieto tema della primavera della vita ed agevola, in armonia coi dettami della pudicizia, le premesse psicologiche necessarie alla formazione di nuove famiglie; mentre l’età matura dall’appropriato vestito intende ottenere un’aura di dignità, di serietà e di serena letizia. In ogni caso in cui si miri ad accentuare la bellezza morale della persona, la foggia del vestito sarà tale da quasi eclissare quella fisica nell’ombra austera del nascondimento, per stornarlo dall’attenzione dei sensi, e concentrare invece la riflessione sullo spirito” (67).

Il vestito, quindi, possiede “un suo proprio linguaggio multiforme ed efficace, talora spontaneo, e quindi fedele interprete di sentimenti e di costumi […]. [Ad esso] è dato di esprimere la gioia ed il lutto, l’autorità e la potenza, l’orgoglio e la semplicità, la ricchezza e la povertà, il sacro ed il profano” (68).

La moda si pone quindi all’interno di un delicato equilibrio: da un lato dà legittimo e doveroso risalto alla bellezza, dall’altro manifesta, nel suo continuo mutare, l’ansia di superamento del passato, “facilitata dall’indole frenetica dell’epoca contemporanea, che ha il tremendo potere di bruciare in breve tempo tutto ciò che è destinato alla soddisfazione della fantasia e dei sensi” (69).

Papa Pacelli non condanna il carattere mutevole della moda, che peraltro ne costituisce un carattere imprescindibile, ed afferma piuttosto che è “[…] comprensibile che le nuove generazioni, protese verso il loro proprio avvenire, sognato diverso e migliore di quello dei loro padri, sentano il bisogno di staccarsi da quelle forme non solo di vestito, ma di oggetti e di arredamento, che più palesemente ricordano un modo di vivere che si vuole sorpassare”; mette tuttavia in guardia dal fatto che l’estrema instabilità della moda è voluta principalmente dai suoi artefici, che possiedono ampi strumenti sia di produzione che di comunicazione e li utilizzano per ottenere ingenti guadagni a scapito dei consumatori. A ciò si aggiunge una sorta di “[…] muta gara, in verità non nuova, tra le élites, desiderose di affermare la propria personalità con forme originali di abbigliamento, e il pubblico, che immediatamente se le appropria, con imitazioni più o meno felici. Né deve trascurarsi l’altro sottile e decadente motivo: lo studio dei “modellisti” che, per assicurare successo alle loro “creazioni”, puntano sul fattore della seduzione, consapevoli dell’effetto che provocano la sorpresa e il capriccio continuamente rinnovati” (70).

  1. b) Il problema morale della moda sta nel conciliare l’ornamento esteriore della persona con quello interiore di uno spirito modesto.

Pio XII chiarisce che il problema della moda è un problema morale: seppure si deve riconoscere ad essa una propria autonomia come ad ogni altro ambito profano della vita umana (l’arte, la scienza, la politica), tuttavia il soggetto della moda è e rimane l’uomo, “[…] il quale non può prescindere dal volgere quelle attività all’ultimo e supremo fine, cui egli stesso è essenzialmente e totalmente ordinato. Esiste dunque il problema morale della moda, non solo in quanto attività genericamente umana, ma più specificamente, in quanto essa si esplica in un campo comune, o almeno molto prossimo, ad evidenti valori morali […]”(71). Permane, infatti, una propensione della moda ad abusare della sua funzione e, per queste ragioni, il magistero della Chiesa fin dai tempi antichi, è intervenuto per condannare tali abusi che negavano le tre funzioni fondamentali del vestito.

La Chiesa, in particolare, di fronte a quello che Pio XII definisce un edonismo dai toni pagani, ricorda che la bellezza del corpo umano non è da esaltarsi in sé, perché essa non trova in sé il proprio fine; il corpo, piuttosto, “[…] capolavoro di Dio nel mondo visibile al servizio dell’anima, fu elevato dal divino Redentore a tempio e a strumento dello Spirito Santo, e come tale dev’essere rispettato” (72).

La moda quindi deve preservarsi dal divenire strumento di procacità e seduzione, di idolatria della materia e di lusso, o anche soltanto di frivolezza.

In particolare Papa Pacelli condanna la cattiva intenzione degli artefici della moda invereconda, ove “[…] si propongano di suscitare coi loro modelli fantasmi e sensazioni non caste […]. Essi sanno, tra l’altro, che l’ardimento in tale materia non può essere spinto oltre certi limiti, ma sanno altresì che l’effetto cercato si trova a breve distanza da questi, e che un’abile mescolanza di elementi artistici e seri con altri più scadenti sono maggiormente atti a sorprendere la fantasia ed i sensi, mentre rendono il modello accettabile alle persone che il medesimo effetto desiderano, senza però compromettere, almeno a parer loro, il buon nome di persone oneste. Ogni risanamento della moda deve pertanto cominciare dalla intenzione sia di chi modella come di chi indossa: nell’uno e nell’altro deve essere ridestata la coscienza di responsabilità per le conseguenze nefaste che possono derivare da un abbigliamento troppo ardito, specialmente se portato nelle pubbliche vie” (73).

I due principali rischi sono qui rappresentati dall’attentato al pudore proprio ed altrui (immodestia) e dalla ricerca del lusso.

  1. c) Alcuni principi per risolvere il problema morale della moda:

– riconoscere la giusta importanza all’influsso della moda sia nel bene che nel male, sulla società. Pio XII insegna a proposito: “La società, per così dire, parla col vestito che indossa; col vestito rivela le segrete sue aspirazioni, e di esso si serve, almeno in parte, per edificare o distruggere il proprio avvenire” (74). Da qui sorge la grave responsabilità del cristiano che “[…] si guarderà dal far poco caso dei pericoli e delle rovine spirituali, seminate dalle mode immodeste, specialmente pubbliche, per quella coerenza che deve esistere tra la dottrina professata e la condotta anche esterna” (75);

– “la moda dev’essere signoreggiata, anziché abbandonata al capriccio, e supinamente servita” (76): ciò vale per gli artefici della moda sia per i consumatori. “Signoreggiare la moda vuol dire anche reagire con fermezza alle correnti avverse alle migliori tradizioni. La padronanza sulla moda non infirma, bensì convalida il detto “la moda non nasce fuori e contro la società”, purché a questa si attribuisca, come si deve, consapevolezza ed autonomia nel dirigere sé stessa” (77);

– il rispetto della moderazione in tutto il campo della moda.

L’insegnamento di Pio XII e del Catechismo della Chiesa Cattolica è dono prezioso per il giovane che, conosciuta la nefandezza e la malizia della Rivoluzione, intende divenire apostolo della Controrivoluzione con l’aiuto della Vergine Maria, fonte di ogni purezza.

Compito insuperabile in ciò spetta alla donna, segno per eccellenza della bellezza del Creatore, redentrice dell’uomo.

 

Note:

* Pio XII (1939-1958), Udienza ai partecipanti al primo Congresso internazionale di Alta moda, promosso dalla Unione Latina di Alta Moda, dell’8-11-1957

1) Già il filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.) affermava nel IV sec. a. C. che il contenuto di una definizione contiene l’essenza individuale oggettiva della cosa. Cfr. aristotele, Topici, Libro I, 5, 101 b, 37 e ss.

2) Voce Moda, in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua italiana, Utet, Torino, 1978, ristampa del 2004, vol. X, p. 637, I colonna.

3) Ivi, p. 637, II colonna.

4) Ibidem.

5) Ivi, p. 637, III colonna.

6) Usa il termine “moda” in questa prima accezione di pensiero dominante, ad esempio Paolo vi, Discorso per lo speciale convegno di studio della Commissione teologica internazionale, del 16 dicembre 1974, quando l’allora Pontefice si riferiva espressamente al “pensiero alla moda” contrario alla dottrina cattolica (testo disponibile su http://www.vatican.va/ holy_father/ paul_vi/ speeches/ 1974/ documents/ hf_p-vi_spe_19741216_commissione-teologica_it.html); Idem, Discorso agli alunni del Seminario Romano Maggiore, del 20 febbraio 1971, ove si legge: “[…] E anche da tutti quei pensieri strani che sono diventati una moda; e non c’è niente di più vincolante che la moda” (testo disponibile su http://www.vatican.va/ holy_father/ paul_vi/ speeches/ 1971/ february/ documents/ hf_p-vi_spe_19710220_alunni-seminario_it.html); Idem, Udienza generale del 15 dicembre 1971 (testo disponibile su http://www.vatican.va/ holy_father/ paul_vi/ audiences/ 1971/ documents/ hf_p-vi_aud_19711215_it.html); Idem, Omelia del 4 aprile 1971 (testo disponibile su http:// www.vatican.va/ holy_father/ paul_vi/ homilies/ 1971/ documents/ hf_p-vi_hom_19710404_it.html).
Si citano solo a titolo di esempio i seguenti discorsi in cui Giovanni Paolo II ha utilizzato, nel corso del suo ricchissimo Magistero, il termine “moda” nel senso di mentalità dominante: Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani, in occasione della visita pastorale ad Otranto (Lecce), del 5 ottobre 1980, ove si legge: “[…] sistemi e delle ideologie di moda” (testo disponibile su http:// www.vatican.va/ holy_father/ john_paul_ii/ speeches/ 1980/ october/ documents/ hf_jp-ii_spe_19801005_giovani-otranto_it.html); Idem, Esortazione apostolica Catechesi tradendae all’episcopato, al clero e ai fedeli di tutta la chiesa cattolica circa la catechesi nel nostro tempo, n. 49, del 16 ottobre 1979 (testo disponibile su http:// www.vatican.va/ holy_father/ john_paul_ii/ apost_exhortations/ documents/ hf_jp-ii_exh_16101979_catechesi-tradendae_it.html); Idem, Messaggio per la III giornata mondiale della gioventù, 13 dicembre 1987 (testo disponibile su http:// www.vatican.va/ holy_father/ john_paul_ii/ messages/ youth/ documents/ hf_jp-ii_mes_13121987_iii-world-youth-day_it.html).
Il regnante Pontefice Benedetto XVI usa il termine moda nel senso di pensiero dominante o comune, ad esempio in Benedetto XVI, Udienza generale, San Giustino, filosofo e martire, 21 marzo 2007 (testo disponibile su http://www.vatican.va/ holy_father/ benedict_xvi/ audiences/ 2007/ documents/ hf_ben-xvi_aud_20070321_it.html). Già il Card. Joseph Ratzinger usava la parola moda con un significato prettamente spregiativo in occasione della Omelia pronunciata durante la Missa pro eligendo Romano Pontifice, 18 aprile 2005, quando affermava “”Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo” (testo su http://www.vatican.va/ gpII/ documents/ homily-pro-eligendo-pontifice_20050418_it.html).

7) I discorsi di seguito indicati rappresentano una mera esemplificazione, che esclude ogni esaustività: Benedetto XV, Allocuzione alle dirigenti dell’unione femminile cattolica italiana sulla possibilità per le donne, di svolgere il proprio apostolato, anche al di fuori delle mura domestiche, 22 ottobre 1919 (testo disponibile al sito http://www.vatican.va/ holy_father/ benedict_xv/ speeches/ documents/ hf_ben-xv_spe_19191022_sono-avventurati_it.html); Pio XII, Udienza ai partecipanti al primo Congresso internazionale di Alta moda, promosso dalla Unione Latina di Alta Moda, 8 novembre 1957, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIX, Diciannovesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1957-1 marzo 1958, pp. 567-582. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2523 ove si legge: “Esiste non soltanto un pudore dei sentimenti, ma anche del corpo. Insorge, per esempio, contro l’esposizione del corpo umano in funzione di una curiosità morbosa in certe pubblicità, o contro la sollecitazione di certi mass-media a spingersi troppo in là nella rivelazione di confidenze intime. Il pudore detta un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e alle pressioni delle ideologie dominanti”.

8) Voce Moda, in Enciclopedia italiana di Scienze, Lettere, Arti, Istituto dell’Enciclopedia italiana fondato da Giovanni Treccani, Roma 1949, ristampa fotolitica dell’edizione del 1934, vol. XXIII, p. 503, I colonna.

9) Ivi, p. 503, I e II colonna.

10) Costante Scarpellini, voce Moda, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano, 1952, vol. VIII, col. 1161-1162.

11) Umberto Galimberti, Voce Moda, in Enciclopedia italiana di Scienze, Lettere, Arti, Istituto dell’Enciclopedia italiana fondato da Giovanni Treccani, VII App., Roma 2007, vol. II, p. 398, II colonna. Scrive ancora Galimberti: “A questo proposito già H. Spencer (The study of sociology, 1873; trad. it. Introduzione alla scienza sociale, 1946) aveva riconosciuto il ruolo importante rappresentato dal trofeo, per cui chi uccideva il suo nemico gli tagliava certe parti del corpo e se le appendeva al collo per far sapere a tutti che era lui il vincitore. In questo modo egli prolungava nel tempo l’impresa di un giorno, e così otteneva i primi gradi di distinzione e di riconoscimento sociale” (Ibidem).
Galimerti ha curato la parte della Voce che tratta gli aspetti più prettamente filosofici e psicologici; Sofia Gnoli gli aspetti di evoluzione storica del costume.

12) Voce Moda, in Enciclopedia italiana cit., 1949, ristampa fotolitica dell’edizione del 1934, vol. XXIII, p. 503, I colonna.

13) U. Galimberti, op. cit., p. 400, I colonna.

14) Cfr. C. Scarpelllini, op. cit. , col. 1162.

15) Roland barthes, Histoire et sociologie du vêtement, in Annales, luglio-settembre 1957, n. 3, in Scritti, trad. it. a cura di Gianfranco Marrone, Milano, 60-74.

16) Ivi, p. 64.

17) Voce Abbigliamento, in Enciclopedia italiana cit., 1949, ristampa fotolitica dell’edizione del 1929, vol. I, p. 33, I colonna.

18) Carlo Arturo Quintavalle, voce Moda, in Enciclopedia italiana di Scienze, Lettere, Arti, Istituto dell’Enciclopedia italiana fondato da Giovanni Treccani, App. V, 1993, vol. III, p. 509, I colonna.

19) Ibidem. Il grassetto è mio. Si tralascia il proseguo del ricco contributo di Quintavalle, il quale indica tre filoni essenziali di studi dedicati al problema della moda: sociologico, psicoanalitico (con particolare attenzione, tra gli altri, all’omologazione del vestito maschile e femminile) e semiotico.

20) Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Controrivoluzione, Ed. Cristianità, 1977, Piacenza, pp. 69 e ss.

21) Ivi, p. 64.

22) Ivi, p. 70.

23) Ivi, p. 93.

24) Enzo Peserico, Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, Sugarco Edizioni, 2008, pp. 48 e ss.

25) Ivi, p. 49.

26) Ivi, p. 52. Il grassetto è mio.

27) Ibidem. Il corsivo è dell’Autore.

28) Plinio Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 81.

29) Ivi, pp. 81-82. La citazione di Bourget è tratta da Paul Bourget, Le démon du midi, Libraire Plon, Paris, 1914, vol. II, p. 375; trad. it. Il demone meridiano, Salani Editore, Firenze, 1956, p. 395.

30) Cfr. Ivi, p. 82.

31) Ibidem.

32) Massimo Introvigne, Pornografia e rivoluzione sessuale, Editrice Libreria S. Lorenzo, 1983, ora disponibile al sito http:// www.difenderelavita.totustuus.it/ modules.php?name=News&file=article&sid=22;
Cfr. anche Idem, Le origini della Rivoluzione sessuale, in Cristianità, Anno VII, n. 54, ottobre 1979, pp. 4-8 con particolare attenzione alla figura del marchese de Sade e Idem, Metafisica dell’amore e Rivoluzione sessuale, in Cristianità, Anno IX, n. 71, pp. 7-13. Uno dei più noti, se non il principale teorico della rivoluzione sessuale è stato Wilhelm Reich (1897-1957), autore del testo The Sexual Revolution, 1945 e poi nel 1962 edito da Mary Boyd Higging, già pubblicato con il titolo Die Sexualität im Kulturkampf, Sexpol-Verlag, Kopenaghen, 1936. Il testo è apparso in Italia con il titolo La rivoluzione sessuale, per i tipi della Feltrinelli, nel 1963 e successivamente nel 1975.

33) Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, 2 ed.it., Marietti, Torino, 1978, p. 40, cit. da M. Introvigne, Metafisica cit., p. 8.

34) Ibidem.

35) M. Introvigne, Metafisica cit., p. 8.

36) Ibidem. Il grassetto è mio.

37) Ibidem.

38) Ivi, p. 13.

39) Ibidem.

40) Ibidem.

41) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 98 ove l’A. parla di valori metafisici della Rivoluzione.

42) Cfr. Leopoldo Marechall, Descenso y ascenso del alma por la belleza, Buenos Aires, 1939, rist. 1994, in particolare p. 64, ove si legge: “[…] los gestos del alma son los que le dicta su vocación natural; y su vocación (palabra que significa “llamado”), no es otra que la de poseer perpetuamente “lo verdaderamente bueno”” Trad. it. “[…] gli atti dell’anima sono quelli che le detta la sua vocazione naturale; e la sua vocazione (parola che significa “chiamata”), non è altra che quella di possedere in modo perpetuo ciò che è veramente buono”.

43) Eric Hobsbawn, Age of Extremes – The Short Twentieth Century 1914-1991, Michael Joseph Ed., Great Britain, 1994; Abacus, London, 1995; trad. it. di Brunello Lotti, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1995, p. 389.

44) Sofia Gnoli, Voce Moda, in Enciclopedia italiana di Scienze, Lettere, Arti, Istituto dell’Enciclopedia italiana fondato da Giovanni Treccani, VII App., Roma 2007, vol. II, p. 401, I colonna.

45) Ivi, p. 401, I e II colonna.

46) Cfr. Ivi, p. 401, II colonna.

47) U. Galimberti, op. cit., p. 398, II colonna.

48) Ivi, p. 399, I colonna.

49) Ibidem.

50) Ibidem.

51) Ibidem.

52) Ibidem.

53) Ibidem.

54) Cfr., per un’ampia spiegazione di cosa si intenda per ideologia del gender, Pontificio Consiglio per la famiglia, Famiglia, matrimonio e “unioni di fatto”, 26 luglio 2000, in Pontificio Consiglio per la famiglia (a cura di), Enchiridion della famiglia. Documenti magisteriali e pastorali su famiglia e vita 1965-2004, EDB, 2004, pp. 1343-1391. In particolare si veda il § 8 che si riporta di seguito: “8. In questo processo che potremmo denominare di graduale destrutturazione culturale e umana dell’istituzione matrimoniale, non deve essere sottovalutata la diffusione di una certa ideologia di “gender”. L’essere uomo o donna non sarebbe determinato fondamentalmente dal sesso, bensì dalla cultura. Tale ideologia attacca le fondamenta della famiglia e delle relazioni interpersonali. Occorre fare alcune considerazioni al riguardo, data l’importanza di questa ideologia nella cultura contemporanea, e la sua influenza sul fenomeno delle unioni di fatto.
Nella dinamica integrativa della personalità umana, un fattore molto importante è quello dell’identità. Durante l’infanzia e l’adolescenza, la persona acquisisce progressivamente coscienza del proprio “io”, della propria identità. Tale coscienza della propria identità si iscrive in un processo di riconoscimento di sé e, di conseguenza, della propria dimensione sessuale. È pertanto una coscienza di identità e di differenza. Gli esperti sono soliti distinguere tra identità sessuale (cioè la coscienza di identità psico-biologica del proprio sesso, e della differenza rispetto all’altro sesso) e identità di genere (cioè la coscienza dell’identità psico-sociale e culturale del ruolo che le persone di un determinato sesso svolgono nella società). In un processo di integrazione armonico e corretto, l’identità sessuale e di genere si complementano, poiché le persone vivono in società in modo concorde ai modelli culturali corrispondenti al proprio sesso. La categoria di identità sessuale di genere (“gender”) è pertanto d’ordine psico-sociale e culturale. Essa corrisponde armonicamente all’identità sessuale, d’ordine psico-biologico, quando l’integrazione della personalità si accompagna al riconoscimento della pienezza della verità interiore della persona, unità d’anima e corpo.
Nel decennio 1960-70, si sono affermate alcune teorie (che oggi gli esperti qualificano generalmente come “costruzioniste”) secondo le quali l’identità sessuale di genere (“gender”) sarebbe non solo il prodotto dell’interazione tra la comunità e l’individuo, ma anche indipendente dall’identità sessuale personale. In altri termini, nella società i generi maschile e femminile sarebbero esclusivamente il prodotto di fattori sociali, senza alcuna relazione con la dimensione sessuale della persona. In questo modo, ogni azione sessuale sarebbe giustificabile, inclusa l’omosessualità, e spetterebbe alla società cambiare per fare posto, oltre a quello maschile e femminile, ad altri generi nella configurazione della vita sociale [testo della nota 6 del documento: Diverse teorie costruzioniste sostengono oggi concezioni differenti sul modo in cui la società dovrebbe – secondo quanto sostengono – cambiare adattandosi ai diversi “generi” (ad esempio nell’educazione, la sanità, ecc.). Alcuni sostengono l’esistenza di tre generi, altri cinque, altri sette, altri ancora un numero che può variare in funzione di diverse considerazioni].
L’ideologia di “gender” ha trovato nell’antropologia individualista del neo-liberalismo radicale un ambiente favorevole [testo della nota 7 del documento: Tanto il marxismo quanto lo strutturalismo hanno contribuito in misura differente al consolidamento di questa ideologia di “gender”, che ha subito diversi influssi, quali la “rivoluzione sessuale”, con postulati come quelli rappresentati da W. Reich (1897-1957) che appella alla “liberazione” da qualunque disciplina sessuale, o Herbert Marcuse (1898-1979) che invita a sperimentare ogni tipo di situazione sessuale (intesa a partire da un polimorfismo sessuale di orientamento indifferentemente “eterosessuale” – cioè l’orientamento sessuale naturale – o omosessuale), slegata dalla famiglia e da qualsiasi finalismo naturale di differenziazione tra i sessi, così come da qualsiasi ostacolo derivante dalla responsabilità procreativa. Un certo femminismo radicalizzato ed estremista, rappresentato da Margaret Sanger (1879-1966) e da Simone de Beauvoir (1908-1986) non può essere collocato al margine di questo processo storico di consolidamento di una ideologia. In questo modo, “eterosessualità” e monogamia sarebbero solo casi possibili di pratica sessuale]. La rivendicazione di uno statuto analogo, per il matrimonio e per le unioni di fatto (incluse quelle omosessuali) è oggi generalmente giustificato facendo ricorso a categorie e termini derivanti dall’ideologia di “gender” [testo della nota 8 del documento: Questo atteggiamento ha incontrato, purtroppo, un’accoglienza favorevole presso numerose istituzioni internazionali importanti, e si è tradotto nel conseguente deterioramento del concetto stesso di famiglia, il cui fondamento è, necessariamente, il matrimonio. Tra queste istituzioni, alcuni Organismi della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, sembrano aver aderito recentemente ad alcune di queste teorie, ignorando con ciò l’autentico significato dell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che qualifica la famiglia come “nucleo naturale e fondamentale della societ””. Cfr. Pontificio Consiglio per la Famiglia, Famiglia e Diritti umani, 1999, n. 16]. Esiste così una certa tendenza a designare come “famiglia” ogni tipo di unioni consensuali, ignorando la naturale inclinazione della libertà umana alla donazione reciproca, e le sue caratteristiche essenziali, che sono la base di questo bene comune dell’umanità che è l’istituzione matrimoniale.

55) catechismo della Chiesa cattolica, n. 2520.

56) A proposito il Catechismo cita Sant’Agostino: “Pensavo che la continenza si ottiene con le proprie forze e delle mie non ero sicuro. A tal segno ero stolto da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente, se Tu non lo concedi. E Tu l’avresti concesso, se avessi bussato alle tue orecchie col gemito del mio cuore e lanciato in Te la mia pena con fede salda” (Sant’Agostino d’Ippona, Confessiones, 6, 11, 20).

57) Catechismo cit., n. 2521.

58) Ibidem.

59) Ivi, n. 2522. Il corsivo è mio.

60) Ivi, n. 2523. Il grassetto è mio.

61) Ivi, n. 2524.

62) Ivi, n. 2425.

63) Ivi, n. 2526.

64) Pio XII, Udienza ai partecipanti al primo Congresso Internazionale di Alta Moda, cit.

65) Ibidem.

66) Ibidem.

67) Ibidem.

68) Ibidem.

69) Ibidem.

70) Ibidem.

71) Ibidem.

72) Ibidem.

73) Ibidem.

74) Ibidem.

75) Ibidem.

76) Ibidem.

77) Ibidem.

 


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