Unità, verità, bontà, bellezza: quale rapporto?

Lezione tenuta il 18 febbraio 2011

Dr. Ignazio Cantoni

Corso «La via pulchritudinis»:
Unità, verità, bontà, bellezza: quale rapporto?

 

 

  • Introduzione

 

Le riflessioni che seguono sono lontane da intenzioni sistematiche: vogliono essere un aiuto ad accostare il problema del bello, in ciò chiamando ad ausilio alcune riflessioni di san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) – riportate al punto 8 con una ipotesi di traduzione. Non ci si aspetti pertanto una trattazione su “il bello in san Tommaso d’Aquino”, né un testo tomista, nel senso di un lavoro impegnato rigorosamente a mantenersi fedele alla dottrina del Doctor Communis. Chi scrive non ne è capace, e finirebbe per far dire a Tommaso ciò che non ha mai detto, con la più o meno pia certezza che “se proprio non l’ha detto, Tommaso non avrebbe potuto pensare diversamente”.

Ben più che porte d’ingresso al tema si sono rivelati i testi di Umberto Eco riportati al punto 9, sia nell’accostamento alla materia in generale che specificamente a Tommaso; nonché la voce Bello (nozione trascendentale) nell’Enciclopedia Filosofica, a cura di Aniceto Molinaro.

Perché affrontare la tematica espressa dal titolo – “Unità, verità, bontà, bellezza: quale rapporto?” – avendo presente solo il pensiero medievale e specificamente le riflessioni di Tommaso?

Anzitutto Tommaso: è il vertice del pensiero filosofico cristiano medievale, così come sant’Agostino (354-430) lo è dell’antico, e così come – ci si azzarda a dire – il beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855) lo è del pensiero moderno, almeno allo stato attuale. Ma Tommaso è ritenuto da chi scrive il vertice dei vertici, per contenuto e chiarezza espositiva. Detto questo, san Tommaso è molto più agostiniano di quanto si pensi, e Rosmini afferma esplicitamente che la sua filosofia va sulle tracce di Agostino e di Tommaso.

Quindi il medioevo: Tommaso, al contrario degli altri due, è vissuto in un periodo nel quale il cristianesimo era, sociologicamente parlando, culturalmente egemonico, e lontano dal “non ancora” della civiltà cristiana del vescovo d’Ippona e del “non più” del sacerdote roveretano: in un periodo dove di arte ed estetica si parlava tutto sommato poco – comunque molto più, come insegna Eco, di quanto comunemente si pensa –, ma in compenso la si faceva. Le riflessioni di chi respirava l’arte cristiana intorno a sé, proprio per tale motivo, sono parse più significative di chi in tale atmosfera non era immerso.

 

  • La nozione di trascendentale

 

L’uomo utilizza abitualmente, nei giudizi che formula, espressioni che si riferiscono a determinati modi di essere delle cose, per segnalare l’appartenenza di queste a famiglie di cose con caratteristiche comuni: così si dice che “questo orologio è rotto”, “Marco è giovane”, “Andrea è in viaggio”, “Socrate è mortale”, e così via, per esprimere l’appartenenza di questi enti alla famiglia degli enti rotti, giovani, eccetera.

Pertanto ogni stato – “rotto”, “giovane”, “in viaggio” – è come un insieme matematico all’interno del quale inserire un gruppo di numeri accomunati da una caratteristica. Tale caratteristica in filosofia è ricondotta a una famiglia di caratteristiche, chiamata categoria.

Si hanno così le categorie della sostanza, della qualità, della quantità, e via discorrendo: esse assomigliano molto ai complementi dell’analisi logica. Appartiene per esempio alla categoria della sostanza tutto quanto può rispondere alla domanda “chi o che cosa?” e a quella della quantità tutto ciò che nelle cose risponde alla domanda “quanto? con che estensione?”.

Le categorie ci permettono di formulare, di specificare, di dettagliare i nostri giudizi sulla realtà – cioè sull’essere –, giudizi i quali, senza di esse, non potrebbero esistere.

Le categorie ci permettono di descrivere lo stato specifico in cui si trovano le cose: ma ci sono caratteristiche, se così possono essere indicate, che sono comuni a tutte le cose? In altre parole, quali sono gli elementi comuni a tutto ciò che esiste, a prescindere dalla modalità nella quale tale esistenza si attua?

Il pensiero medievale – e san Tommaso in esso – ha cercato di mettere a fuoco queste “caratteristiche universali” che, seppure in modo differente, sono relazionate in modo sostanziale – ovvero “convertibili”: ens et bonum convertuntur – con l’essere e, per la proprietà transitiva, fra di loro. Fra queste, hanno speciale interesse per l’argomento in oggetto l’unum, il verum, il bonum e il pulchrum (cfr. DV, q. 1, a. 1).

Ciò significa che non è possibile immaginare un ens – una cosa – che non sia al contempo unitaria, vera, buona e bella; all’inverso, se una cosa non è vera, buona e bella significa, semplicemente, che ci si sta occupando del nulla.

Tali “caratteristiche universali” sono dette “trascendentali”, perché la loro coestensione all’essere li fa trascendere le singole cose, dal momento che come l’essere sono presenti in tutte: l’essere “se li porta dappertutto”.

Ma se le cose stanno in questi termini, qual è la loro portata conoscitiva? In altre parole: se il giudizio di verità è applicabile a tutte le cose, a che serve? Il giudizio non mi serve forse per distinguere, dettagliare, isolare una caratteristica di una cosa? Se tutto è bello, da un certo punto di vista niente lo è.

Ciò è vero, ma tale utilità per la distinzione è propria anche del trascendentale, perché esso permette di caratterizzare l’essere di fronte al nulla e al male, in quella serie di domande che rendono l’uomo tale: “perché esiste l’essere e non il nulla?”, “noi siamo sempre esistiti?”, “cos’è il male?”, “Dio è buono?” “si Deus est, unde malum? – se Dio esiste, da dove viene il male?”.

I trascendentali permettono la formulazione di tali domande e risposte radicali, e l’indagine su di essi non è pertanto un bizantinismo, bensì affare metafisico quant’altri mai.

 

  • Il rapporto dell’unità con l’essere: ens et unum convertuntur

 

 

L’essere è costitutivamente unitario: sia nella sua totalità che nella sua molteplicità, ossia in tutte le sue manifestazioni, presenta una caratteristica comune, che è la sua unità di fondo, un’integrità che lo rende, si potrebbe dire, un tutto relazionato in modo pieno con se stesso, un tutto dove ogni sua singola manifestazione – gli enti, le cose – sono, se presi a loro volta singolarmente, un tutto unitario.

 

  • Il rapporto della verità con l’essere: ens et verum convertuntur

 

 

La verità – cioè l’adeguamento di pensiero e realtà – di tutte le cose può essere detta in due modi: la prima “lato uomo” e la seconda “lato Dio”.

Innanzitutto le cose sono vere nel senso che sono passibili di giudizi adeguati al loro essere: tale caratteristica è una possibilità positiva della ragione nel pensiero classico e medievale, ed è stata conculcata da quello moderno secolarizzato, mentre filoni significativi ma per certo non egemonici – Blaise Pascal (1623-1662), Giambattista Vico (1668-1744) e Rosmini in primis – del pensiero moderno hanno ripensato e difeso tale verità, che è e rimane imprescindibile per qualsiasi ulteriore discorso, filosofico e non.

Ma non basta: la “verità delle cose” è da intendersi anche come la dipendenza assoluta delle cose medesime dal pensiero di Dio, che, conoscendo il creato, in forza di tale conoscenza amorosa – essenza e atto d’essere che s’incontrano –, lo fa esistere. Tale pensiero di Dio, oltre a esserne causa, al contempo ne costituisce il fine a cui tendere: il fine del creato, infatti, è l’idea che Dio stesso ne ha.

La realtà, in sostanza, è vera nel pensiero dell’uomo e soprattutto in quello di Dio: pertanto l’essere è costituito in una relazione di conoscenza da parte di persone, che, a vario titolo, fanno esistere l’essere stesso grazie al loro atto di conoscere.

 

  • Il rapporto del bene con l’essere: ens et bonum convertuntur

 

 

Analogo discorso deve essere fatto per il bene, anche se in questo caso è più comodo farlo all’inverso, cioè partendo da Dio.

L’essere è buono, perché Dio, che è fonte di ogni essere, non può – ma tale impotenza non è ovviamente un limite – commettere il male. È stato il manicheismo, in tutte le sue manifestazioni storiche, a parlare di “male ontologico”, cioè di realtà il cui essere stesso è intrinsecamente male, riconducendo così il male all’opera di un principio del male, un dio malvagio – meglio: un dio-male.

Tale discorso non regge: immaginare la malvagità in Dio significa introdurre in Lui la contraddizione, oppure ridurre a nulla la nozione di bene e male. È ciò che è avvenuto storicamente nel pensiero moderno egemonico: la prima soluzione è quella atea o laicista, che, partendo dallo scandalo del male, asserisce che Dio non può esistere perché se esistesse – e per esistere si riconosce correttamente che dovrebbe essere buono – il male non ci sarebbe. La seconda via è quella battuta da Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che riduce il male a un momento necessario nello sviluppo del bene. In questo modo il filosofo tedesco nega la nozione di male e bene del senso comune, e apre la strada a qualsiasi aberrazione morale come “passaggio obbligato”, anche se “negativo”, verso un “bene più grande”. Il nazional-socialismo e il social-comunismo sono a un passo.

La posizione cristiana – per esempio sant’Agostino e san Tommaso, che devono tanto all’impostazione del problema da parte della filosofia classica, prevalentemente di Platone (428/427-347 a. C.) e Aristotele (384/383-322 a. C.) – vede il male come privazione di bene: esso non si muove sul piano ontologico propriamente detto, ma su quello morale, come aversio a Deo, allontanamento del malvagio dal proprio fine buono per utilizzare le proprie facoltà lontano da Dio. Fuor di metafora: il diavolo stesso, Lucifero – cioè “colui che porta la luce”: è immaginabile una realtà creata più bella? – è ontologicamente buono; la sua malvagità non gli appartiene essenzialmente, ma è frutto di una libera scelta, che come tale non ha nulla di necessario; fra lui e Dio “sarebbe potuta andare a finire diversamente”.

Il male, è e rimane un mistero – tutto il cristianesimo, per certi aspetti, è parte di una risposta allo scandalo del male (cfr. CCC, 309) –: ma è necessario rilevare un fatto: se il bene e il male fossero veramente sullo stesso piano, l’uomo non si porrebbe alcun problema intorno a essi. E invece se lo pone, perché egli sa che il bene è “da più” del male: mentre il bene è pensabile senza il male, non è vero l’inverso. L’esistenza di Dio, lungi dall’essere messa in discussione dall’esistenza del male, è condizione della pensabilità del male in quanto tale: senza di Lui, in base a cosa lo identificheremmo come tale?

 

  • Il pulchrum: cos’è?

 

Il bello è una realtà fra le più difficili da definire: che cos’è bello? Un termine che si usa con tale quotidiana frequenza – quasi più di “amore” e “libertà” – è veramente complesso da delimitare.

Innanzitutto è opportuno riflettere sul fatto che “bello” si usa sia per le realtà corporali che per quelle spirituali – una “bella idea” un “bel gesto”, ma anche un “bel libro” –: quindi si può applicare a tutte le realtà, visibili e invisibili, naturali e soprannaturali che la nostra mente può cogliere, e non solo i nostri sensi. A tal proposito, è significativo che la nozione di bello riguardi l’intelligenza e i soli sensi cosiddetti “superiori” – la vista e l’udito – e non gli altri tre. Si può innanzitutto concludere, quindi, che le regole che rendono una cosa bella devono necessariamente valere sia per le realtà visibili che per quelle invisibili. Il bello, quindi, è una forma alta di conoscenza, che, come tale, tocca la sostanza delle cose, non solo – e non soprattutto – i suoi accidenti.

Fatta questa importante premessa, si può avanzare una proposta di definizione che aiuti nel tentativo di approfondimento sull’essenza del bello: il bello è qualsiasi cosa la cui conoscenza genera piacere, così come il bene è ciò il cui raggiungimento genera piacere. Ma di che natura è questo piacere? Esso è un riposo realizzato del nostro chiedere – anche all’interno di un grande dinamismo relazionale: si pensi al “riposo realizzato” che dà la vista della Cappella Sistina, dove lo sguardo corre continuamente con gioia dal tutto alle parti e da queste a quello – che nel bello trova una risposta di armonia con il contesto nel quale si pone. Aiuterà sicuramente a dipanare questa ipotesi di definizione l’analisi del bello nei suoi rapporti con gli altri trascendentali, a valle di quanto su di essi è sopra riportato.

 

  • Il rapporto con l’unità

 

San Tommaso identifica come prima regola affinché una cosa possa dirsi bella l’integritas, cioè l’essere una realtà completa, ovvero non carente né menomata: uno Stradivari rotto non è bello. Se è vero quanto detto prima sull’ens e l’unum, si deve concludere che le realtà che esistono sono belle ontologicamente, e non accidentalmente.

 

  • Il rapporto con la verità

 

Il creato è bello perché pensato da Dio: il bello pertanto è oggettivo, cioè esso si trova prima nella cosa che nell’occhio di chi la vede. Si può dire che “è bello ciò che è bello, non sempre è bello ciò che piace immediatamente”. Viene in definitiva scritta una nuova definizione di piacere, che diventa un ripercorrere il piacere che il creato dà a Dio stesso. È come se si dicesse: “se è bello per Dio, deve essere bello anche per me, ma per far ciò devo educare la mia estetica, spesso troppo edonistica, sulla base dell’estetica di Dio”. Ciò significa sforzarsi di conoscere le cose con gli occhi di Dio, per contemplarne la bellezza che Egli vi ha impresso creandola. Significa capire quale delle Sue perfezioni ha fatto da modello per questa o quella cosa. Questa proprietà delle cose è quella che san Tommaso chiama claritas, “chiarezza”, “luminosità”, “splendore” e, volendo forzare un poco il latino medievale, anche “nobiltà”.

E qui trova spazio anche il brutto: un’immagine orribile – per esempio una raffigurazione dell’inferno o del diavolo –, se bene rappresenta il suo soggetto, è a tutti gli effetti bella, perché in essa risplende la verità.

 

  • Il rapporto con il bene

 

 

Bonum habet rationem finis, il bene dice relazione a un fine: tutto quanto creato da Dio è inserito all’interno di relazioni di cause efficienti e finali, che deve portare il creato al compimento dell’opera di Dio, la Sua Gloria: “Dio ha creato tutte le cose, spiega san Bonaventura [1217 o 1221-1274], “non propter gloriam augendam, sed propter gloriam manifestandam et propter gloriam suam communicandam – non per accrescere la propria gloria, ma per manifestarla e per comunicarla” [San Bonaventura, In libros sententiarum, 2, 1, 2, 2, 1] (CCC, 293).

Ogni cosa pertanto, e l’uomo in primis, è chiamato a tale compito, che è quello di essere “buona”, cioè di svolgere al meglio la propria vocazione, la propria parte assegnatale da Dio.

Questa è la terza e ultima caratteristica identificata da san Tommaso come caratteristica essenziale del bello, cioè la proportio, ovvero l’armonia, la proporzione di tutte le cose anzitutto interna a loro stesse, quindi fra di loro e, soprattutto ed essenzialmente, con Dio.

Tale rapporto del bello con il bene ci permette di capire come possano esistere anche cose che prese immediatamente e senza relazione con il contesto ontologico e morale nel quale si trovano appaiono molto belle, ma che, a un esame più attento, rivelano la loro bruttezza perché disarmoniche con il resto: si pensi per esempio a quanto viene detto in Genesi, 3, 6 dell’albero della conoscenza del bene e del male: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi [pulchrum oculis] e desiderabile per acquistare saggezza”. Si pensi anche, per esempio, all’atto sessuale fuori del matrimonio, tecnicamente non diverso da quello che hanno due coniugi, magari le stesse persone il giorno prima e il giorno stesso del loro matrimonio; alcune canzoni dalla melodia gradevole il cui testo è inaccettabile – le prime due venute in mente: Imagine di John Lennon (1940-1980), The Wall dei Pink Floyd –; e così via.

 

  • Conclusione

 

La bellezza è lo splendore dell’essere, nella sua unità, nella sua verità e nella sua bontà. In forza di quanto sopra detto, si può concludere che la bellezza ha una portata ontologica, conoscitiva e morale che non può – non deve – essere ridotta al “gradevole”, al “piacevole”, al “carino”, al “simpatico” o all’”emozionante”.

La sensibilità estetica è, di conseguenza, una capacità non improvvisabile, che come il proprio essere corporeo e spirituale, la propria conoscenza e la propria vita morale va educata e alimentata, perché la pulsione e il gusto immediati sono una cosa, l’estetica un’altra – e bello, in fondo, è solo Dio.

 

  • Antologia minima

 

I. Ex pulchro isto provenit esse omnibus existentibus: claritas enim est de consideratione pulchritudinis, ut dictum est; omnis autem forma, per quam res habet esse, est participatio quaedam divinae claritatis; et hoc est quod subdit, quod singula sunt pulchra secundum propriam rationem, idest secundum propriam formam; unde patet quod ex divina pulchritudine esse omnium derivatur.

 

Da codesto bello proviene l’essere a tutte le cose che esistono: lo splendore, infatti, riguarda il bello, come si è detto; ogni forma, per mezzo della quale una cosa ha l’essere, è una certa partecipazione dello splendore divino; e da ciò deriva il fatto che le singole cose sono belle secondo il proprio ordine, cioè secondo la propria forma; da ciò appare che l’essere di tutte le cose è derivato dalla bellezza divina (DN, cap. 4, l. 5).

 

II. Pulchrum et bonum in subiecto quidem sunt idem, quia super eandem rem fundantur, scilicet super formam, et propter hoc, bonum laudatur ut pulchrum. Sed ratione differunt. Nam bonum proprie respicit appetitum, est enim bonum quod omnia appetunt. Et ideo habet rationem finis, nam appetitus est quasi quidam motus ad rem. Pulchrum autem respicit vim cognoscitivam, pulchra enim dicuntur quae visa placent. Unde pulchrum in debita proportione consistit, quia sensus delectatur in rebus debite proportionatis, sicut in sibi similibus; nam et sensus ratio quaedam est, et omnis virtus cognoscitiva. Et quia cognitio fit per assimilationem, similitudo autem respicit formam, pulchrum proprie pertinet ad rationem causae formalis.

 

Il bello e il bene sono nel soggetto la medesima cosa, perché si fondano sulla stessa realtà, cioè sulla forma, e perciò il bene è lodato come bello. Ma essi differiscono concettualmente. Infatti il bene riguarda propriamente il tendere verso: è infatti buono ciò a cui tendono tutte le cose. E così esso dice relazione a un fine, infatti il desiderare è quasi un certo moto verso una cosa. Invece il bello riguarda la facoltà conoscitiva: infatti sono dette belle le cose che, una volta viste, piacciono. Da ciò deriva che il bello consiste in una debita proporzione, perché il senso si diletta nelle cose debitamente proporzionate, come in cose simili a sé; infatti anche del senso vi è una certa armonia, e una capacità conoscitiva del tutto. E poiché la conoscenza avviene per assimilazione e la similitudine riguarda la forma, il bello propriamente riguarda il concetto di causa formale (ST, I, q. 5, a. 4, ad 1).

 

III. Ad pulchritudinem tria requiruntur. Primo quidem, integritas sive perfectio, quae enim diminuta sunt, hoc ipso turpia sunt. Et debita proportio sive consonantia. Et iterum claritas, unde quae habent colorem nitidum, pulchra esse dicuntur.

 

Perché una cosa sia bella sono necessarie tre cose. Innanzitutto, l’integrità o perfezione, perché le cose che sono mutile per ciò stesso sono brutte. Poi serve anche una debita proporzione o armonia. E ancora la chiarezza, in forza della quale le cose che hanno un colore splendente sono dette belle (ST, I, q. 39, a. 8, co.).

 

IV. Aliqua imago dicitur esse pulchra, si perfecte repraesentat rem, quamvis turpem.

 

Un’immagine è detta bella se rappresenta perfettamente il suo oggetto, anche se esso è brutto (ST, I, q. 39, a. 8 co.).

 

V. Quilibet autem artifex intendit suo operi dispositionem optimam inducere, non simpliciter, sed per comparationem ad finem. Et si talis dispositio habet secum adiunctum aliquem defectum, artifex non curat. Sicut artifex qui facit serram ad secandum, facit eam ex ferro, ut sit idonea ad secandum; nec curat eam facere ex vitro, quae est pulchrior materia, quia talis pulchritudo esset impedimentum finis.

 

Qualsiasi artefice tende a dare alla sua opera la forma migliore non in senso assoluto, ma in relazione a un fine. E l’artefice non si cura se tale disposizione porta con sé una certa mancanza. Così come l’artefice che fabbrica una sega per segare la fa di ferro perché sia idonea alla sua funzione; né gl’importa di farla di vetro, materia più bella, perché tale bellezza sarebbe d’impedimento al raggiungimento del fine (ST, I, q. 91, a. 3 co.).

 

VI. Pulchrum est idem bono, sola ratione differens. Cum enim bonum sit quod omnia appetunt, de ratione boni est quod in eo quietetur appetitus, sed ad rationem pulchri pertinet quod in eius aspectu seu cognitione quietetur appetitus. Unde et illi sensus praecipue respiciunt pulchrum, qui maxime cognoscitivi sunt, scilicet visus et auditus rationi deservientes, dicimus enim pulchra visibilia et pulchros sonos. In sensibilibus autem aliorum sensuum, non utimur nomine pulchritudinis, non enim dicimus pulchros sapores aut odores. Et sic patet quod pulchrum addit supra bonum, quendam ordinem ad vim cognoscitivam, ita quod bonum dicatur id quod simpliciter complacet appetitui; pulchrum autem dicatur id cuius ipsa apprehensio placet.

 

Il bello è la medesima cosa del bene, differendo da esso solo concettualmente. Dal momento che, infatti, il bene è ciò a cui tendono tutte le cose, nel concetto di bene si trova ciò in cui si acquieta il desiderio, ma al concetto di bello si riferisce ciò che, nella sua visione o conoscenza, il desiderio si acquieta. È anche per questo che quei sensi, che sono massimamente conoscitivi, cioè la vista e l’udito, che sono al servizio della ragione, riguardano specialmente il bello; parliamo infatti di immagini e suoni belli. Invece, per gli oggetti percepibili dagli altri sensi non usiamo il termine “bello”: infatti non diciamo belli i sapori o gli odori. E così appare ciò che il bello aggiunge al bene: una certa relazione con la facoltà conoscitiva; così come buono è ciò che, semplicemente, piace al desiderio, il bello è ciò il cui stesso coglimento dà piacere (ST, I-II, q. 27, a. 1, ad 3).

 

VII. Pulchrum in rebus humanis attenditur prout aliquid est ordinatum secundum rationem.

 

Il bello nelle cose umane si ha quando qualcosa è ordinato secondo ragione (ST, II-II, q. 142, a. 2, co.).

 

VIII. Pulchritudo corporis in hoc consistit quod homo habeat membra corporis bene proportionata, cum quadam debiti coloris claritate. Et similiter pulchritudo spiritualis in hoc consistit quod conversatio hominis, sive actio eius, sit bene proportionata secundum spiritualem rationis claritatem. Hoc autem pertinet ad rationem honesti, quod diximus idem esse virtuti, quae secundum rationem moderatur omnes res humanas. Et ideo honestum est idem spirituali decori. Unde Augustinus dicit, in libro octogintatrium quaest., honestatem voco intelligibilem pulchritudinem, quam spiritualem nos proprie dicimus.

La bellezza del corpo consiste nel fatto che l’uomo ha le membra del corpo ben proporzionate, e un certo splendore di un giusto colore. E ugualmente la bellezza spirituale consiste nel fatto che le parole di un uomo, o i suoi atti, sono ben proporzionati secondo la splendore spirituale della ragione. Ciò riguarda la nozione di onestà che abbiamo detto essere la stessa cosa della virtù, che secondo ragione misura tutte le cose umane. E così l’onestà è la stessa cosa della bellezza spirituale. Per questo Agostino dice, in lib. LXXXIII q. 30: chiamo onestà la bellezza intellegibile, che noi indichiamo propriamente con il termine spirituale (ST, II-II, q. 145, a. 2, co.).

 

IX. Pulchritudo, sicut supra dictum est, consistit in quadam claritate et debita proportione. Utrumque autem horum radicaliter in ratione invenitur, ad quam pertinet et lumen manifestans, et proportionem debitam in aliis ordinare. Et ideo in vita contemplativa, quae consistit in actu rationis, per se et essentialiter invenitur pulchritudo. Unde Sap. VIII de contemplatione sapientiae dicitur, amator factus sum formae illius. In virtutibus autem moralibus invenitur pulchritudo participative, inquantum scilicet participant ordinem rationis, et praecipue in temperantia, quae reprimit concupiscentias maxime lumen rationis obscurantes.

 

Il bello, come si è detto sopra, consiste in un certo splendore e in una giusta proporzione. Entrambe si trovano radicalmente nella ragione, alla quale spetta sia la luce conoscitiva, sia l’ordinamento delle altre cose secondo la giusta proporzione. E così, nella vita contemplativa, che consiste in un atto di ragione, si ritrova la bellezza per sé ed essenzialmente. Perciò è detto in Sap. 8 della contemplazione della sapienza: mi sono innamorato della sua bellezza. Nelle virtù morali la bellezza si trova per partecipazione, in quanto cioè esse partecipano dell’ordine della ragione, e specialmente nella temperanza, che reprime le concupiscenze che massimamente oscurano il lume della ragione (ST, II-II, q. 180, a. 2, ad 3).

 

  • Per approfondire

 

 

  • Carlini, Armando 2006, voce Trascendentale, in Enciclopedia filosofica, Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate (a cura di), Enciclopedia filosofica, vol. 12, Bompiani, Milano, pp. 11744-11750;
  • Catechismo della Chiesa Cattolica, nel testo CCC;
  • Eco, Umberto 1998, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, IV ed., Bompiani, Milano; opera classica sull’argomento;
  • Eco, Umberto 2009, Arte e bellezza nell’estetica medievale, XI ed., Bompiani, Milano; ottima introduzione all’argomento;
  • Molinaro, Aniceto 2006, voce Bello (nozione trascendentale), in Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate (a cura di), Enciclopedia filosofica, vol. 2, Bompiani, Milano, p. 1138;
  • Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, nel testo DV;
  • Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, nel testo ST;
  • Tommaso d’Aquino, Summa Contra Gentiles, nel testo CG;
  • Tommaso d’Aquino, In librum B. Dionysii De divinis nominibus expositio, nel testo DN.

 


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